mercoledì 23 ottobre 2013

Una recensione sbagliata: A un cerbiatto somiglia il mio amore, di D. Grossman

Questa non è la storia di un grande amore; non parla nemmeno di belle persone.
Non scava nella profondità di una psicologia intricata, le parole di questa storia non ritraggono l’umanità nel suo grande mistero, rivelando ciò che tutti speriamo di scoprire, un giorno, prima che sia troppo tardi.
Si tratta di un’illusione, questa, che il libro smentisce. Come se ad ogni pagina l’autore, David Grossman, si sporgesse sopra le righe, con la spazzola bionda dei suoi capelli ed i suoi azzurri occhi ingranditi dalle lenti, e sussurrasse, tra il dispiaciuto ed il soddisfatto: non è questo, vero, ciò che speravi di trovare? Ho vissuto la stessa esperienza con tutti i libri di Grossman, anche se non nego che lui resta uno dei miei autori preferiti.

David Grossman ritratto mentre mi appare tra le righe.
Vedi alla voce amore, Che tu sia per me il coltello: forse il segreto dell’illusione è l’allusione del titolo. Solitamente non ci aspettiamo che lo straniamento si annidi in quello che siamo abituati a ritenere una stringata sinossi della trama e del significato del libro: perché l’autore non dovrebbe conformarsi naturalmente a quel titolo – a quel nome proprio – con il quale egli stesso ha deciso di battezzare la sua creatura? L’errore e la sensazione che lo scrittore abbia voluto deliberatamente ingannarci ci inducono forse a tirare troppo presto le conclusioni sul libro in questione, perché in fondo ci hanno insegnato fin da bambini che chi tradisce il proprio nome cela il male, proprio come il Diavolo, che si chiamava Lucifero.
Beh, non fatelo, non con questo libro, che non è un’opera malefica concepita per disturbare il nostro buon umore, ma il fedele racconto di un’esperienza che viviamo tutti i giorni: sognare, desiderare di non destarsi dal sogno ed inevitabilmente, alla fine, cedere alla veglia ed alla crudele luce della vita.
A un cerbiatto somiglia il mio amore. Di David Grossman.
L’analogia con il sogno ed il risveglio, in fondo, funziona fin dal titolo. Questa frase suggerisce uno stato sognante, l’innamoramento; immediatamente immaginiamo di pronunciarla in modo trasognato, sospirante. Dove abbiamo imparato così bene a leggere una frase del genere, ad attribuirla ad un amante e non alla mamma di Bambi? Dai libri, ovviamente – nel caso di qualcuno, dai film. Una frase del genere sarebbe stata una battuta perfetta per Giulietta Capuleti, la più sventurata e romantica fanciulla dal 1594.
Vengo al dunque: qual è la più romantica delle scene della Most Excellent and Lamentable Tragedy of Romeo and Juliet? Proprio quella in cui i due amanti e sposi si stanno per risvegliare, all’alba che segue la loro prima ed ultima notte passata insieme, e maledicono la luce perché capiscono che il sogno, il loro agognato sogno d’amore, è finito. Giulietta cerca addirittura di ingannare Romeo e se stessa: è la civetta, non l’allodola, è ancora notte, è ancora notte, è ancora sogno. Alla fine, i due amanti riescono davvero a rendere il loro sogno eterno, procurandosi l’eterno sonno.
Va bene, A un cerbiatto somiglia il mio amore, non Romeo e Giulietta – chiedo venia, ma come ho inteso precisare nel titolo del post, si tratta di una recensione sbagliata.
Come la si legge sul libro, la storia: tre ragazzi si conoscono in una notte di coprifuoco, all’interno di un ospedale. Non possono né muoversi, perché sono malati, né vedersi, perché è buio, e non è rimasto nessuno nello stabile oltre a loro. La situazione è fuori dal comune ed il ragazzo A si innamora della ragazza A, ma la ragazza A si innamora del ragazzo B. I tre in seguito continuano a frequentarsi e la storia si muoverà sempre nello spazio triangolare che si è creato tra loro.
Tutti e tre i personaggi principali hanno modo, nel lungo romanzo, di aprirci la mente su temi importanti relativi alle loro storie personali: i fantasmi adolescenziali, la paura del terrorismo – la storia ha luogo in Israele – , la disabilità di un figlio, l’orrore della guerra, la fine di un matrimonio.
Eppure questi personaggi ci deludono: la ragazza A, Orah, in particolare. Più i capitoli trascorrono, più si ha la sensazione che la mala fimmina del ragazzo A, Avram, si riveli più superficiale di quanto lo stesso autore si aspettasse quando le ha dato vita in quel primo capitolo. Per quanto mi senta disillusa nei confronti di Orah, devo riconoscere due grandi pregi di questo seccante personaggio: la grande fisicità – se mi capita di provare ad immaginarla, posso quasi vederla – che le è conferita dalla carica emotiva che gravita a pochi millimetri dalla sua chioma rossa, come un’areola; d’altra parte si trova l’amore e la compassione per i suoi figli che lei riesce a far provare a chi legge le sue parole.
Anche per quel che riguarda il ragazzo A ed il ragazzo B, Avram e Ilan, si lasciano facilmente giudicare dal lettore per il loro amore – o non-amore – che appare scarsamente giustificato; sono completamente privi di epica e non ispirano (quasi) alcuna comprensione, vista la loro poco accattivante condotta.
Se lo avete appena comprato e siete incappati in questa recensione spero che siate arrivati fino a questo punto prima di buttarlo nel ripostiglio delle scope.
Se così non è stato, per favore, andate a recuperarlo, perché questo è il momento in cui confesserò che questo libro mi piace, non ho remore nel definirlo un libro bello, bello – sì, proprio così, bello due volte – e che vale la pena leggere.
Non perché parla di caratteri superlativi, di amore, di guerra, delle conseguenze di queste esperienze umane che, se vogliamo, sono state riscritte e rilette in tutte le salse.
Grossman è riuscito nell’intento di stupire e di scrivere qualcosa di completamente innovativo.
Grossman ha descritto un sogno di una notte, un ventennale dormiveglia ed infine un doloroso risveglio.
Il primo capitolo, nel quale i tre protagonisti, al buio, vengono a conoscenza l’uno dell’altro, è sublime. Soltanto il primo capitolo potrebbe valere il prezzo del volume, ammettendo che tutti gli altri potrebbero risultare nettamente inferiori rispetto alle aspettative. L'autore abolisce le virgolette del discorso diretto e ciò che leggiamo è ciò che i ragazzi pensano, si dicono a voce alta e che costituisce la realtà in quella notte di buio, bombardamento, assenza, tragedia, paura di morire.
Avram è il primo a parlare, ad abbandonare la forma del silenzioso embrione nel buio del ventre ospedaliero, e per tutto il libro rimaniamo con la sensazione che sia lui il creatore: Avram ha adescato Orah in una notte in cui poteva anche tacere, Avram accetta l’amore non corrisposto, Avram accetta la scommessa che lo porterà alla tortura, Avram rende possibile il viaggio di Orah con il suo consenso a seguirla.
Avram prova per primo – ben prima di noi, che stiamo ancora divorando quel superbo primo capitolo – che la realtà che sta vivendo non è altro che un sogno, che sarà deteriorato dalla realtà. Immagina il nome della ragazza che non può vedere e quello per lui è pieno di significato, eleva il suo spirito fino alle stelle; quando le chiede il suo vero nome, rimane deluso nell’apprendere la verità e quello è il primo segno riconoscibile del risveglio.
Credendo di trovarsi ancora nel territorio del sogno i tre protagonisti compiono molti errori, alcuni dei quali ci appaiono inspiegabili, eppure non dovrebbero, visto che anche noi sogniamo e nei nostri sogni compiamo con naturalezza le più bizzarre stramberie. La logica di Avram, Orah e Ilan è quella del sogno e li porta, come sonnambuli, a scontrarsi con il muro che delimita il mondo reale, cioè le tragedie della guerra, dei figli, della morte.
All’inizio del racconto, un’Orah adulta chiama per il figlio militare un taxi condotto da un amico di famiglia, un musulmano palestinese, per accompagnarlo al punto di raccolta dell’esercito israeliano: quando l’uno vede l’altro, entrambi vivono con profondo stupore e costernazione l’errore della donna, che sul momento non si spiega come abbia potuto commettere una leggerezza tanto imbarazzante. La furia di Orah ha inizio proprio dopo quel viaggio in macchina: Orah si agita nel lenzuolo, ha capito che è ora di svegliarsi, sta suonando la sveglia. Anche la sveglia di Avram suona: Orah fa squillare continuamente il suo telefono, il suo campanello, fino a che lui stesso non è chiamato a compiere con lei la lunga marcia che li condurrà al doloroso frutteto della realtà, al quale non possiamo sottrarci grazie all’incantesimo del sonno, la cui potenza non risiede nella capacità di controllare o cambiare gli eventi ma nel farci credere che possiamo evitarli senza tener conto di dove si trova il nostro corpo e quello di coloro che amiamo.

martedì 15 ottobre 2013

Macchie d'acqua



Quando avevano invitato Alice a vivere in casa con loro, i genitori avevano chiesto a Gaspare di amarla.
Gaspare non fu ispirato in tal senso fin dall’inizio: osservava la giovane orfana come se fosse una mosca. Aveva l’impressione che si posasse sui mobili, sul cibo, sulle mani e che si aggirasse per le stanze con una velocità (del pensiero) che a loro che vi abitavano da tanti anni era del tutto sconosciuta.
La richiesta dei genitori era suscitata dalla pietà di cui erano convinti che Alice dovesse essere oggetto; tuttavia il motivo di tale obbligo gli era rimasta a lungo incomprensibile visto che non aveva ascoltato la sua triste storia.
Alice non era bella, non proveniva da una terra lontana, non sospirava: avrebbe potuto entrare in casa con il titolo di inserviente e nessuno di loro, tanto meno i suoi genitori, si sarebbero accorti di lei o del suo vissuto.
Un evento del passato legava suo padre al padre di Alice e doveva bastare per rispettarla: se fossi nei panni di mio padre mi sarei comportato allo stesso modo, si diceva Gaspare, facendo l’equazione della morale, pur non conoscendo l’argomento in questione.
Durante le prime settimane Alice si dimostrò abbastanza solitaria, guadagnandosi gli appellativi di riservata e timida; tuttavia in breve tempo strinse amicizia con la vecchia nonna di Gaspare, una donna che lui non considerava di maggior valore della cuffia ricamata che giaceva sui suoi radi capelli, visto che nella maggior parte delle occasioni si dimostrava incapace di proferir parola. Dopo che Alice ebbe preso l’abitudine di sedere accanto a lei, i familiari furono costretti mutare opinione sul livello di partecipazione alla realtà della vecchia: l’anziana signora rispondeva ad Alice, a patto che lei le si rivolgesse cantando.
Gaspare si accorse per ultimo, dopo che i genitori gli ebbero manifestato il loro stupore, che le due chiacchieravano tra loro, canticchiando a mezza voce. Fu allora che le rivolse la parola per la prima volta: era curioso di sapere come aveva partorito quell’idea.
I grandi aedi dell’antichità ricordavano lunghissimi poemi a memoria grazie alla musica: li cantavano, ma non avrebbero forse saputo mettere per scritto o scandirli senza ritmo. Le parole rimangono nella musica più a lungo di quanto non rimangano nella nostra razionalità.
Gaspare scoprì che Alice era istruita: non era andata a scuola ma era stata la pupilla di un vecchio professore che abitava nel suo paese, che le aveva insegnato il mondo attraverso la poesia e la letteratura. Così Alice raccontava tutto come se si trattasse di un argomento degno di un’ode.
In un primo momento Gaspare rise come si ride quando si ascolta una barzelletta già sentita, ma poi si accorse che i suoi lunghi discorsi non lo stancavano e questa fu già un’ammissione potente. L’amore per lei nacque progressivamente, inizialmente senza passione ma con una sete inestinguibile di vederla e sentirla parlare.
Quando glielo disse, lei gli confessò che ricambiava e Gaspare scoprì che Alice gli appariva bella, irresistibile. Percepiva il fremito sulla superficie delle mani di Alice, pronte ad accarezzarlo fino a consumarsi, e si abbandonò ad un sentimento d’amore che lo faceva sentire, al contempo, un lattante ed un vecchio.
Decisero di sposarsi, con l’approvazione ma con la preoccupazione dei genitori di Gaspare: amavano Alice ed avevano invitato il figlio a fare altrettanto, ma il cambiamento del giovane rampollo lasciava intravedere loro che il suo destino, che appariva deciso fin dalla sua nascita, era profondamente mutato. Per loro, in quel momento, risultava imprevedibile: il ragazzo voleva lavorare e trasferirsi con la giovane moglie nella cittadina dalla quale lei proveniva.
Cominciare con un magro stipendio e da un luogo provinciale: per Gaspare la questione era molto più affascinante e non la avrebbe mai definita con tale parole.
Voleva cominciare la loro vita, con Alice, dai luoghi che le avevano dato i natali: conoscere quelle dune e gli snelli alberi alla cui ombra lei era cresciuta ed infine era giunta fino a lui.
Era certo che da quel punto sarebbero giunti al luogo successivo del loro amore.
Quel luminoso settembre del 1920 si sposarono e ancor freschi della festa, profumati di borotalco e lavanda, giunsero ad abitare nella stanza che per la prima volta era interamente loro. Avevano abitato per qualche settimana nella casa dei genitori di lui ed avevano dormito insieme nella stanza che Gaspare aveva occupato fin dall’epoca in cui era stato capace di dormire da solo.
Quella stanza, soprattutto durante la notte, rivelava molto di ciò che Gaspare era stato, un bambino, fino a poco tempo prima: l’ombra dei ninnoli e degli appendiabiti sui quali, per un periodo eterno, erano stati disposti, in un ordine da esposizione universale, i suoi completini ed i suoi accappatoini, proiettavano la loro ombra sulle pareti.
Durante le loro chiacchierate notturne i due solevano tenere un lume acceso e la voce di Gaspare rallentava e diveniva nostalgica, mentre il suo pensiero dava un nome ed una data di nascita a tutte quelle cose con le quali era cresciuto, che non gli appartenevano ma che erano state sue servitrici. Alice lo ascoltava, alzava il braccio magro e le indicava, si aggirava per la stanza con i piedi leggeri, veloce come una zanzara, li toccava, chiedendo a lui di raccontare il motivo per il quale quel carillon, quel soldatino a cavallo era rimasto proprio lì, cristallizzato sul suo scrittoio, irrigidito per la lunga attesa di un ordine. L’odore di quella stanza, dolce come quello degli unguenti per il bagno, ispirava a Gaspare racconti che difficilmente avrebbe creduto di poter richiamare alla memoria, con i quali condì l’attesa che li avrebbe infine portati in Toscana, nella terra natale di lei, nella piccola cittadina sul lago, vicino alla tenuta nel cui grande parco pascolavano dromedari, non nella sua casa perché lei non ne aveva.
La stanza che affittarono, con un anticipo fornito dai suoi genitori, era spoglia e lontana dalla strada. Vi giungevano, pianissimo, i rumori degli animali del padule, degli agricoltori al lavoro, di qualche carrozza come quella sulla quale erano giunti.


A volte cerco di immaginare la pineta ed il mare dall’alto, con gli occhi di un uccello: deve apparire così diversa rispetto a come la viviamo a questo livello. Superate le montagne, si scende un po’ e ci si lascia alle spalle il sole appena sorto: dal cielo, l’alternarsi delle dune e degli specchi d’acqua sembra una bandiera scintillante, estesa per chilometri, che poggia sull’invitante verde della vegetazione. Dal basso, non possiamo vedere quello scintillare: dimentichiamo la forza del talismano, fino a che non ci alziamo nuovamente in volo. L’incantesimo, l’attrazione non ricompare fino alla prossima migrazione, quando la stagione ci riporta al di là delle Apuane, sulla costa.


Queste sue parole si ripeteva Gaspare, la notte, quando abbracciato ad Alice ascoltava il lento, quasi impercettibile movimento del lago. La casa era di un’amica di Alice e Gaspare si affezionò ben presto all’odore di quelle stanze, che originava dalla cucina e si intestardiva, distraendo tutte le loro attività, all’ora dei pasti, richiamandoli come due topolini in trappola.
Il padre della padrona era proprietario di una serra e pescatore. Non di rado cacciava anche, con un vecchio fucile che aveva ereditato e che continuava ad odorare di polvere da sparo molti giorni dopo che aveva sparato. Così, quando Gaspare scrutava quell’arnese, appeso alla parete, come un qualsiasi ornamento, provava un senso di sospetto misto a reverenza quale si prova di fronte ad una belva che sommessamente preannuncia il proprio ruggito.
Il pensionante lo portò a pesca, la mattina presto e qualche volta durante la notte. Gaspare non aveva difficoltà a sopportare la lunga attesa; a volte confondeva la veglia con il sogno e si scuoteva, si dava uno schiaffo, allora si accorgeva di essere completamente sveglio e credeva di vedere qualcosa di meraviglioso, incomparabile: le lucciole infarcivano le sponde del lago come balconi addobbati a festa, ma con maggiore dolcezza ed irriverenza dei lumi umani, spengendosi e nascondendosi alla vista per lunghi minuti, come sorrisi mal celati di bambine. Il riflesso dei punti luminosi si fondeva in nastri baluginanti, che scorrevano sulla superficie dell’acqua bassa e nera. A volte Gaspare immaginava di poter leggere quei caratteri aramaici e scovarvi la bibbia dei pesci, degli aironi, delle ranocchie: grandi ed inafferrabili verità sulla vita che sta in mezzo, tra l’acqua e la terra.
Alice aveva ripreso il mestiere al quale era stata iniziata da piccolina: la sarta. Confezionava abiti costosi o a modici prezzi. Quando venne la notizia che era tornata, la sarta che le aveva insegnato la andò a trovare e le offerse il lavoro. Con i loro primi risparmi, comprarono una bicicletta e così insieme a volte si recavano nella piccola cittadina alla fine della strada che attraversava l’infinita pineta. La bicicletta di Gaspare ondeggiava, dirottata dai colpi di vento o dalla distrazione, mentre Alice stringeva le dita attorno al metallo freddo del manubrio e raccontava a Gaspare le storie di quel luogo così piccolo da essere raggiunto da echi di storie e gesta lontane, così trasfigurati dalla distanza da diventare immaginazione. Alle volte, inventava per lui qualche verso e lo canticchiava, un po’ fuori tono.


L’airone ornato di brace, di
Invisibili raggi dipinto, dall’
Alto come ombra calava, così
Coma fa un frammento di bandiera,
ormai libero, lento va sul vento
pietra immateriale adagiata
sul dorso delle onde magnifiche.
Immobile, è un giunco adesso
Un’erba bianca con foglie sottili
Che si confonde con i più comuni
Riflessi, l’ infisso nell’acqua…


Grazie alla bicicletta, Gaspare trovò un lavoretto come corriere e cominciò ad andare ad imparare il mestiere dal tipografo. Tutto si era stabilito molto velocemente: vivere di nuovo in autonomia aveva stimolato il lato pratico di Alice, che aveva guidato con maestria i primi passi di Gaspare attraverso la gente che conosceva e che poteva aiutarli.
Una sera, Alice e Gaspare si spinsero a passeggiare fin dentro la pineta, vicino alla spiaggia, tanto da poter udire il rumoreggiare placido del mare. Alice si fermò e chiese a Gaspare di tornare indietro: aveva freddo e paura di spingersi oltre dopo il calare del sole.
Gaspare rise e la tirò a sé, sospingendola poi perché proseguisse, ma lei si tirò indietro e si allontanò di qualche passo. Ripeté che non intendeva proseguire, che conosceva la pineta e non voleva arrischiarsi durante la notte.
“Conosci la pineta, di giorno. Non sei te che mi hai parlato della pioggia e dell’aria notturna che è così idilliaca tra i pini sotto la luce della luna?”
“Non sono io, è stato un poeta. Non voglio andare, torno a casa.”
“Non pensavo che avresti mai avuto paura di fare qualcosa insieme a me.”
“Sei irragionevole. Non ho intenzione di seguirti. Se vuoi andare, vai, io me ne torno a casa. Sei davvero un bambino.”
La guardò: lei appariva più acerba dei due, malgrado avessero la stessa età. Ma era più saggia e lui…il suo aspetto di uomo poteva non far intuire il suo spirito.
Gaspare in risposta le sorrise, non aveva altro modo per esprimere ciò che lei suscitava in lui e lo prosciugava di ogni parola. Se solo avesse avuto il coraggio di cantare in risposta, come lo aveva avuto sua nonna…
Alice si allontanò e sparì sul sentiero: Gaspare era ormai solo ma non si sentì abbandonato. Si voltò verso gli alberi, in direzione dello stormire acuto dei grilli che si nascondevano in basso, chiuse gli occhi ed inspirò l’odore degli ultimi camuciori che veniva trasportato dal vento dai cespugli vicini. Aprendo gli occhi, ormai abituato al buio, distinse le macchie di luce che velocemente si spostavano tra gli alberi: erano i riflessi della luna nelle pozze che frammentate si ricongiungevano tra loro durante l’autunno, con la pioggia.
La cercherò qui, la mia Alice, pensò, anzi, cantò nella sua mente.
Si è allontanata da me e non so dove la incontrerò ma esplorerò il mondo per trovarla. A cominciare da questo piccolo mondo. A cominciare dai pini snelli che fanno posto ad alberi più grandi, alle querce ed ai tigli che proiettano l’ombra di una nuvola, dall’istante in cui il cormorano riemerge dall’acqua, dall’immobilità dell’airone che è amico dell’orizzonte, dalla casa per le barche sfasciata, che sta sprofondando. Dal porticciolo di canne di bambù, dalla stalla dei cavalli che a volte viene invasa dal fango, dalle ninfee che incontri a sorpresa in un piccolo stagno vicinissimo al mare, dalla piccola conchiglia che si impiglia tra le dita mentre cammini.
Mentre pensava a tutte queste cose, camminava, scandendo i passi con il ritmo musicale di quelle parole, riconoscendo ciò che diceva dentro di sé all’esterno, immerso nella luce della luna. Toccando le fronde degli alberi, le sue mani divennero fresche, bagnate dalla prima rugiada, quella ancora segreta, che gli uomini non incontrano, ed i suoi orecchi si fecero più sensibili ai rumori degli altri che vegliavano e si spostavano durante la notte: un cinghiale, una cornacchia, alcuni daini. Gaspare si stupì di poter essere così silenzioso e di mimetizzarsi tanto, nel buio. Si sentiva spronato nell’andare avanti, superò i fossi ed infine sentì la cedevolezza della sabbia sotto i piedi. Era così: la spiaggia era il sorriso argentato della pineta, baciato dal mare che si protendeva e si ritirava, così impaziente da avanzare in continuazione. Gaspare si inginocchiò ed accarezzò la sabbia, alzò il capo e vide la luna, quasi piena, che splendeva in alto, nel cielo, dal punto in cui Alice immaginava di guardare il padule dall’alto, avvicinandosi alla costa da terre lontane.
Eccoti, mia cara.
Sorrise alla luna: finalmente l’aveva trovata. Ora non gli restava che attendere che atterrasse sulle terre scintillanti per poi alzarsi nuovamente in volo con lei e migrare.
Tornò sui suoi passi e la trovò, lì: nel loro letto, Alice dormiva. Carezzò il suo viso pallido, che sembrava splendere di luce propria, come la luna, come la aveva vista nel cielo, dopo che era sorta dalla pineta. 




domenica 14 aprile 2013

Una recensione sbagliata: Terra chiama Roth.

A leggere Joseph Roth ho avuto esattamente questa sensazione: che Roth si fosse messo silenziosamente e fluentemente a scrivere sul suo quaderno, durante una mite serata di aprile, direttamente sul mio scrittoio. Alle prime luci dell'alba, che si fosse alzato ed allontanato percorrendo le strade ancora addormentate, guidato dal canto degli uccelli. Quando mi sono svegliata, ho trovato le sue parole, lì, e mi sono stupita che potesse essersi già allontanato tanto. Dove sei, Joseph? Come è possibile che le tue parole, adagiate con grazia sulle pagine, siano ancora così fresche, come se fossero state concepite dalla sua mente soltanto un momento fa? E' incredibile: è un libro caldo, tiepido come la sensazione che si ha toccando con la mano la pelle di un uomo. C'è qualcosa di immortale in quel modo di scrivere, qualcosa fatto di spirito. Sono pagine che hanno continuato a scriversi, a partire dal 1925, tutti i giorni, fino ad adesso, e continuano a suonare, in divenire.
Il libro che ho amato di più, tra quelli che ho letto - La Cripta dei Cappuccini, Ebrei Erranti, Le Città Bianche, La Ribellione e la Leggenda del Santo Bevitore - è stato le Città Bianche: si tratta di quello che noi oggi chiameremmo un reportage giornalistico sui luoghi storici del Sud della Francia, come uno di quello di cui godiamo, pubblicati nella sezione della cultura dei nostri quotidiani, raccolti e scritti da Paolo Rumiz.
E' un libro breve, significativo e coinvolgente per tutta la sua lunghezza. Nella breve "introduzione", virgolettata perché in realtà non è in discontinuità con il resto del libro, Roth parla di sé: si definisce un giovane di trent'anni e si descrive in funzione della sua giovane età, della sua esperienza in guerra e di cosa il suo nuovo impiego, il giornalismo, ha significato per lui. Per quel che riguarda questo ultimo punto, egli ci confida che questo ha costituito per lui una svolta, cioè mettersi in viaggio, uscire dalla Germania, il paese nel quale un ragazzo come lui vede rappresentata fin troppo visceralmente la sua identità come quella di un perdigiorno, per di più ebreo, con tutto ciò che all'epoca significava e che egli racconta in Ebrei Erranti con la tenerezza mista ad l'incredulità che ci ispirano tutte le assurdità socialmente determinate a cui fin dalla nascita siamo abituati (io, sono italiana, e questo lo so fin troppo bene!). Il viaggio del Roth giornalista è l'esperienza che gli permette di conoscere il movimento alternativo a quello che ha costituito per lui una sorta di imprinting, cioè l'allontanamento forzato che la guerra ha richiesto ai giovani. Questo passaggio è sublime: soltanto Roth è riuscito a chiarirmi quale immane tragedia è stata per l'Europa e la generazione appena nata dei primi anni del novecento la Prima Guerra Mondiale. Noi non conosciamo le radici dell'odio e della diffidenza che aleggiano in questo nostro gremito continente, del nichilismo e della sfiducia nell'economia e negli stati, il difficoltoso procedere delle masse e delle istituzioni nel costruire qualcosa che sia duraturo, nel prestare la nostra fede in ciò che può essere costuito nell'unirci tra singole individualità: ecco, questo è cominciato lì, con le leve militari tra l'estate del 1914 e la fine del 1918. E' un'epoca così lontana, eppure Roth non è lontano. Ve l'ho detto, ha lasciato la mia stanza soltanto una mezz'ora fa, le sue pagine sono ancora flesse a causa del tocco delle sue dita e della sua penna.
La generazione di Roth è stata violentata, disanimata. Ciò che egli descrive ritrae le stesse sfumature che sono tratteggiate nelle poesie di Giuseppe Ungaretti: questi due uomini sono senza dubbio della stessa specie, due navigatori del buio e del sottomarino, che attingono a quel "nulla d'inesauribile segreto", che forse era maturato, nell'esperienza di Roth, a causa del vuoto lasciato da un sistema scolastico che lo valorizzava ma senza dimenticare la sua etnia di provenienza, da una passione per la letteratura tedesca che fu la base per l'evoluzione della Germania in un Impero che avrebbe messo in atto lo sterminio del suo popolo, da una guerra che non solo dissolse la sua identità come uomo ma anche come cittadino di uno stato, a seguito della traumatizzante dissoluzione dell'Impero Austro-Ungarico, dalla moglie che presa dalla follia abbandona anche lei le sembianze di una giovinezza promettente e finisce per scomparire tragicamente. Nelle prime pagine delle Città Bianche, è questo di cui parla: di una stagione rubata, di una giovinezza conosciuta soltanto anagraficamente, alla quale si crede soltanto per merito dei documenti che attestano che è passata, dove e quando.
Intraprendendo il viaggio in Francia, Roth assaggia in ritardo quello che non concepiva nemmeno di poter più desiderare: il sole, la campagna, i monumenti misteriori, i suoni della gente. Finisce per descrivere tutto questo in un modo che non ha pari.
Una delle cose che mi ha maggiormente colpito è stato il fatto che Roth compie questo viaggio a piedi: me ne sono accorta ad un certo punto, quando egli racconta di essersi attardato lungo la strada tra due città e si ferma a dormire in un bosco. Potete immaginare un tempo, non troppo lontano, in cui un uomo si sposta a piedi tra le città, per centinaia di chilometri, e nei momenti in cui si sposta è solo, introvabile, e soltanto lui può poi metterci da parte, soltanto con la forza delle parole, di ciò che ha vissuto? Si tratta di una dimensione che abbiamo perso, completamente. Ma se desideriamo immaginarlo, c'è Roth, appena uscito dalla nostra stanza, che ci ha lasciato qualche pagina scritta di fresco.
Roth ha una scrittura poetica ed un modo multisensoriale di descrivere ciò che vede. Non si tratta di una guida turistica, ma di un viaggio. Devo ammetterlo, non ho mai letto un libro tanto bello.


sabato 16 marzo 2013

Dubito ergo Commento ergo Sum

Le masse esprimono il loro giudizio e si muovono.
Non è mai stato così facile, giudicare, come nell’era di internet. Non ne è forse prova l’invadente dietro le quinte che ha circondato queste nostre ultime, controverse elezioni?
C’è forse un problema, nell’era di internet: le persone che giudicano non ascoltano chi giudicano e non parlano tra di loro, così le opinioni da dinamiche e soggette al tempo si cristallizzano, acquistano una forza sconosciuta, simile a quella delle pietre.
Le persone non hanno bisogno di muoversi, di conoscere il nome di un autore, di un uomo politico, di un cantante: basta una foto segnaletica, una frase, un simbolo ed ecco liberarsi l’opinione, che si manifesta in pochi caratteri.
Io mi chiedo: che ne è stato del contesto?
Il contesto è morto, ha perso la sua risonanza. Che importa se ad essere investito di autorità è un ladro od un comico, che importa se l’autore di pagine in cui si racconta l’amore ed il sesso è una casalinga, che importa che l’autore a cui è attribuito un certo messaggio non ne sia l’autore, in realtà? Tutto ciò è, all’apparenza, molto democratico, ma c’è un ma: il messaggio si trova in luce, ma è davvero ben chiaro se sia condivisibile o meno, apprezzabile o deprecabile, considerato che il suo autore è in pratica un anonimo ed esso viene espresso al di fuori di ogni circostanza? Le persone entrano davvero in comunicazione quando non sono investiti dell’identità di interlocutore? Queste persone si sentono davvero all’interno di una relazione, fondamentale per la trasmissione delle informazioni?
Non che conoscere chi si esprime sia sempre necessario: noi tutti abbiamo sperimentato la potenza della letteratura, che in anni di letture ha plasmato la nostra memoria, la nostra percezione del mondo e delle persone, le nostre idee. Io stessa non so più distinguere cosa ci sia di originale in me e cosa invece non sia stato influenzato fino alla radice dai libri che ho letto. Noi non conosciamo l’autore del libro ed egli non conosce noi, siamo un esercito di sconosciuti del tutto neutrali, prima di iniziare la lettura e fare la conoscenza del mondo dell’autore, eppure dobbiamo ammettere di conoscere quella sensazione che soltanto la “buona letteratura” sa dare: l’autore sembra conoscerci, i personaggi ci appaiono familiari, ci identifichiamo con alcuni di essi, piangiamo e ridiamo con loro, viviamo e moriamo, a volte. Esiste un “ponte”, un’arca dell’alleanza riposta dentro i libri “fatti bene” (che non sono quelli “universalmente belli”…che naturalmente non esistono): si tratta di una magia e di un’arma che la maestria dell’autore può porre nelle pagine e con essa avvicinare a sé la mente di una persona qualunque che si sente speciale, si sente di poter dire qualcosa su quel libro, di poter parlare con e a nome delle sue ombre.
Ovvia deduzione: questo non succede per gli stati di Facebook, per i tweet, per le notizie a rapida condivisione e molto spesso, ahimè, neanche per i post dei blog. Tutto ciò che viene letto è rapido: la brevità e l’incisività sono d’oro, le parole scelte sono simboli altamente intelligibili che scatenano una reazione (uguale o contraria). Chissà, se Bersani avesse affidato i suoi “cinguettii” metaforici al mezzo digitale ed avesse bandito dalla sua campagna i commentatori ed i contestisti per eccellenza, i giornalisti, magari avrebbe smosso il dito indice di milioni di italiani. 
Che valenza ha un’opinione quando questa acquista tali caratteristiche?
A livello individuale, nessuna. La mente non si apre, non procede nel proprio divenire e non acquisisce niente. La valenza dell’espressione dell’opinione, in queste condizioni, è a mio parere ben diversa, trasfigurata: si tratta di una valvola di sfogo, un’auto-attribuzione di autorità in quanto ci si arroga il diritto di esprimere un giudizio senza doverlo peraltro giustificare con riferimenti che vadano oltre ad i propri confini personali. Uno vale uno, non è forse questo che ci dicono?
Uno si può sentire protetto da questo anonimato e risolvere il famoso complesso del buono a nulla: le persone si scagliano contro poesie e foto, contro politici, educatori, mamme, soldati, testimonianze di ogni genere…ricette; oppure fanno proprio ciò che viene detto, trasfigurandolo completamente.
A questo proposito desidero fare un esempio: qualche tempo fa ho letto su uno dei maggiori quotidiani italiani un (brutto) articolo sul Romeo e Giulietta di Shakespeare. Sotto di esso si stagliava l’unico commento, firmato da una e-mail costituita da lettere e numeri, una sorta di targa automobilistica, il quale diceva: Romeo e Giulietta andrebbe fatto leggere a scuola, ai bambini. Sono d’accordo con Shakespeare: l’amore vero è tra UOMO E DONNA. Gli omosessuali sono dei degenerati. La mia reazione è stata di sbigottimento: proprio sotto un articolo su Shakespeare, che notoriamente ha scritto, secondo lo stile dell’epoca, sonetti dedicati ad un “giovinetto”, trovo una sparata omofoba, firmata da un robot.
Mi sento estraniata da un’esperienza del genere, anche perché non senti normalmente le persone comuni parlare di Shakespeare: è quello il luogo in cui si parla di Shakespeare, sotto al post, dove in calligrafia corsiva è presente l’invito: lascia un commento. Cosa posso fare, io che amo Shakespeare, l’ho studiato e ne do un’interpretazione secondo un’obiettività storica, a fermare per strada quest’uomo o donna e spiegargli che no, lui/lei non è d’accordo con William Shakespeare? Normalmente questo incontro di opinioni non sarebbe avvenuto, ma considerato che è successo, qual è il senso che questo scambio rimanga fine a se stesso e non possa essere utile ai fini di uno scambio?
Le persone si sfogano e rimangono lì, inconsapevoli, senza accorgersi che perdono una forza utile a sconfiggere quell’anergia che ci coglie in questi tempi in cui la militanza individuale, come persone, come menti consapevoli di cosa è ovvio, cosa è falso e cosa è importante, è l’unica speranza di rivalsa.
Con questo io non voglio demolire il web: amo internet, lo uso quotidianamente e mi annoierei se non esistesse. Probabilmente avrei anche meno motivi per scrivere ed uscire dal mio guscio.
Ma…no, signori no: smettetela di ritenere che sia lecito poter definire i grandi dittatori “abbastanza buoni, prima della degenerazione” senza apportare uno straccio di prova storica, smettetela di imbrattare i versi ironici di uno studente “perché la metrica è sbagliata” senza accorgervi che la metrica non era compresa tra le finalità, smettetela di essere taglienti perché a qualcuno è sfuggita un “h” dalla tastiera quando siete tanto maleducati da non saper nemmeno come ci si rivolge, non usate espressioni come incontrovertibile, non scambiate la disperazione per le lamentele di cagnolini viziati e l’opinione altrui e diversa per una calunnia della verità che può essere ripagata solo con la mortificazione dell’altro.
Questa non è libertà d’opinione, è inconsapevolezza. Io trovo che in giro ci sia pieno di Ingannati, più che di Indignati. L’unica difesa (contro le enormi bufale che offuscano le nostre giornate) non è forse l’uso consapevole degli strumenti? Il sacrificio necessario è, temo, rinunciare all’infantilismo della valvola di sfogo e svegliarci.  Svegliamoci, ora. 


martedì 5 marzo 2013

Una recensione sbagliata (su un film): Detachment


Ieri era ho guardato un film, Detachment – Distacco, che parla di insegnanti.
È un film verità, in tutti i suoi aspetti: gli attori narrano la verità, attraverso i loro i corpi, le loro espressioni, il suono della loro voce; la storia è verità, perché quella storia sono gli insegnanti, sono i ragazzi, sono la scuola; l’ambiente, che si trasforma da realtà a pensiero, un edificio scolastico che interpreta la devastata casa Husher, nelle cui mura diroccate abita uno spirito affine a quello che dorme, inquieto, nelle mura della scuola.
I miei genitori sono insegnanti: mia madre insegna matematica e scienze alla scuola media, mio padre storia e filosofia alla scuola superiore. Insegnano da quando avevano ventisei anni ed ora hanno quasi trent’anni di carriera. Io sono nata quando di anni ne avevano vent’otto e quindi li ricordo: i giovani insegnanti. Giovani e belli, magri ed energici, stanchi.
Ricordo i miei genitori stanchissimi e poveri, la sera, nella nostra casa di cinque stanze in cui abitavamo in cinque. Ricordo i loro occhi sgranati quando si raccontavano di chi li aveva offesi, di chi aveva deturpato il loro nome, di chi aveva pianto a dirotto, delle ore passate a sentirsi gli avvocati delle cause perse. Io li ho visti in quel film, Detachment, ieri sera, e forse è per questo che mi sono così commossa.
Il film ha definito ciò che io molto profondamente desidero definire, sempre, forse senza riuscirci: gli insegnanti. In questo paese, forse in tutti, gli insegnanti non sono amati: ho ascoltato le stesse frasi pronunciate da tutti, coetanei, genitori di amici, commesse, impiegati del comune, verdurai, camionisti, medici, giudici e avvocati, giornalisti, politici.
Sono le stesse frasi che una serie di facce anonime, riprese da molto vicino, pronunciano durante i titoli d’apertura del film: basta telefonare, dire che si sta male e non vai al lavoro. Le ferie di tre mesi durante l’estate. L’orario di lavoro ridotto a sei ore, soltanto la mattina. Fannulloni, marajà, privilegiati, questi insegnanti. Ladri.
Queste cose le ho sempre sentite dire e non mi sono mai trattenuta dopo, dal dire: i miei genitori sono insegnanti, entrambi. E dal dichiarare che queste sono tutte balle, balle, balle, balle.
So che è difficile difendere la categoria. Infatti loro non la difendono: la condannano. Si scontrano con i colleghi arrivisti, che pensano alle pubblicazioni e non ai ragazzi, cercano di proteggere gli stuendenti da chi ha occupato un posto soltanto per un contratto a tempo indeterminato.
A volte piangono, come il protagonista del film. A volte avvicinano la mano al telefono che squilla così lentamente che io credo che non lo prenderanno mai, mai.
So che la categoria non è difendibile. Questo è ben visibile anche nel film: ci sono porci, ci sono ignoranti, incompetenti. Quello con cui ci si scontra, se stai nella scuola e sei davvero un insegnante, è l’ingiustizia. Credo che sia la professione che sta più vicina all’ingiustizia, più della guardia carceraria, più del magistrato anti-mafia, più dell’attivista per i diritti umani.
L’ingiustizia è una presenza invisibile che li tocca, li scarna, cancella loro il volto, esige il loro distacco, il loro fuoco freddo per combatterla.
Harry, il professore del film, ne parla proprio così, parafrasando: noi stiamo vicino ai giovani e li vediamo disperati. Li vediamo che non credono, vediamo il terrore di ciò che li aspetterà, il nulla che vedono e non possiamo far altro che essere noi stessi. Non possiamo far niente, possiamo soltanto essere lì e poi lasciarli andare al loro destino di gocce nell’oceano.
Questa è un’esperienza terribile: nessuno dice grazie ed il fallimento aleggia, sempre, nella vita comune ed ingiusta che quei bambini, alle porte della vita adulta, si avviano a condurre da soli, fuori dall’aula dell’insegnante che li ha amati.
Tutti gli insegnanti, nel film, oltre ad essere stanchi e continuamente provati dalla commozione, sono soli. Questo è il particolare che ho notato con più chiarezza.
Per lunghi anni mi sono chiesta perché i miei genitori siano così soli: hanno pochi amici, escono poco, il fine settimana non sanno mai cosa fare. Mi dicevo: i genitori dei miei amici non sono così. Escono con tavolate di conoscenti a mangiare la pizza, partono per il fine settimana, vanno all’Ikea.
Dalle parole di un’insegnante del film: il venerdì sera mi dispero. L’idea del fine settimana da passare da sola mi distrugge.
Ora ho capito. I miei genitori sono soli perché sono insegnanti. Gli insegnanti sono soli, soli al mondo.
L’identità tra loro ed i personaggi del film mi ha impressionato: loro mi hanno fatto vedere tutto quello che non ho mai raccontato di loro e mi sono sentita grata. Vorrei che tutti lo vedessero, che tutti sapessero. Vorrei che ascoltassero Adrien Brody, che interpreta il protagonista, il professor Barthes: osservassero il suo viso scavato, ognuno dei suoi lineamenti che interpreta ognuna delle sue parole, e dopo tornassero a guardare il volto di mia madre, mio padre, il mio, che sono la loro figlia. Capirebbero lei, capirebbero lui, capirebbero me, che ne sono il frutto e partecipo della loro vita. Capiterebbero la loro tristezza, la loro solitudine e parte della mia.
Non so se è lecito, ma questo film che ho guardato lo dedico a loro e a tutti gli insegnanti, degni di esser chiamati tali, che ho conosciuto. Forse il mio punto di vista è privilegiato, perché loro mi hanno generato, ma c’è molto dolore anche in quelli di loro che sono più piccoli, più deboli, più schiacciati, perché non c’è davvero nessuna gloria in questo mestiere, e ci si riempie di polvere.
Per quelli che odiano gli insegnanti, giustamente avendo avuto esperienze terribili con matti, porci, violenti, ignoranti, macellai e dittatori (che ho provato anche io, intendiamoci), fate così, da oggi: cercate lo sguardo triste degli insegnanti, quelli veri. Aiutateli, in quella lotta impari contro l’ingiustizia, contro le persone prive di consapevolezza, perché
"È facile essere indifferenti, l'interesse richiede coraggio e il coraggio richiede carattere!"
Mi sento in colpa ogni giorno, per la solitudine dei miei genitori, in quanto giovane. A volte è difficile sopportarli ma ogni giorno io attingo pazienza ed idee per suggerire loro qualche appiglio e forse…sono diventata anche io un po’ insegnante.

Di più non dico. Se avrete l’occasione di leggere questo post, se siete una di quelle tante persone, come lo sono io, che hanno provato lo schifo della scuola pubblica, ma siete ancora privi di consapevolezza e questa rabbia non sapete dove dirigerla, se non sulle persone, non fermatevi alle mie parole. Guardate il film, Detachment. Certe cose vanno fatte dire a chi ha gli strumenti per farlo, a chi lo sa fare. Malgrado io abbia la tristezza, forse io non li ho quegli strumenti, non ancora.  

 

venerdì 1 marzo 2013

Una recensione sbagliata: North and South, di E. Gaskell

Il libro è North and South, di Elizabeth Gaskell. Lo sto leggendo in inglese, perchè in italiano è stato tradotto soltanto nel 2011 ed ho rinunciato all'annosa ricerca quando mi sono ritrovata tra le mani un meraviglioso, compatto Collins in lingua originale al prezzo di tre euro e cinquanta.
Il racconto si svolge nei fuligginosi anni della seconda rivoluzione industriale, durante i quali la signorina Margaret Hale viene prima espiantata dalla casa cittadina di Londra dove vive con le raffinate ed ottimiste zia e cugina, alla canonica del padre pastore in piena crisi di coscienza, circondato da una paradossale bucolica cornice, alle angustezze e al raschiore alla gola della città industriale, Milton, tra i nordici pinnacoli fumanti del Darkshire, fornace d'Inghilterra. Qui Margaret conosce un trader, Mr Thornton, che quando lei ammette di non poterlo definire gentleman, egli rifiuta con decisione tale epiteto per definirsi, con maggiore precisione, Man. E' l'inizio del confrontro tra loro e dell'amore che ispirerà a lui la più completa accettazione e comprensione della di lei diversità. Forse è un bene che abbia scritto una riflessione proprio ora, a metà del libro, così da non dover svelare un finale.
Per ora, la realtà, le convenzioni, i pregiudizi, i dogmi - Non mi piace Mr Thornton, perchè no! - vincono, hanno la meglio sull'eroe commerciante John Thornton, che per un attimo crede di poter toccare una scintilla, proveniente dal fuoco che sente bruciare e di cui percepisce il calore sulla pelle. Egli intuisce che tale fuoco potrebbe divenire reale e desidera, come uomo, divenire un'irradiante stella, afferrandolo.
Non ancora, Mr Thornton, il tempo della razionalità, rappresentato così splendidamente e paradossalmente da Margaret, non è pronto e rigetta. Un giorno d'amore in più da frapporre alla morte è così andato perduto e con esso molti altri, con l'angoscia che ne deriva.
La cosa più bella è questo scambio delle parti, tra l'uomo presentato fin dall'inizio come il commerciante senza scrupoli e la ragazza dai modi fini e ricca di pietas:
Lui: d'un tratto si colora di passione, sincerità, amore, gratitudine, abnegazione, rinuncia all'odio, prova umiltà e mortificazione.
Lei: è apparentemente cieca, piena di pregiudizi, addirittura maleducata, superficiale. Si richiama a Mr Thornton pregandolo di non esprimere i propri sentimenti, dichiarando come proprio sommo valore l'autocontrollo. E' così concentrata su se stessa e sulla propria convinzione di autorevolezza da lasciarsi sfuggire completamente il proprio egoismo.
Margaret mi appare un po' come la vittima dell'educazione ricevuta ed infatti accusa Mr Thornton di non comportarsi come un gentiluomo, escludendo spontaneamente dall'accezione di gentiluomo la possibilità di comprendere e provare sentimenti. Questi sentimenti noi li vediamo mostrarsi, chiari e puri, in Thornton che, ergo, non è davvero un gentiluomo, provoncando nel lettore la completa accettazione e simpatia per questo personaggio e, dunque, per i non-gentiluomini. Questo gioco delle parti è così abile da renderci inaccettabile l'idea che un Uomo accetti di piegarsi alle regole del gentiluomo. Quello che l'autrice fa, descrivendoci i personaggi nella loro pura fattualità unitamente ad i loro moti interiori, è rieducarci. Elizabeth Gaskell rieduca il lettore vittoriano attraverso il racconto: come si può che negare che Thornton sia, nella sua ribellione che lo porta ad accogliere ed esprimere così esplicitamente un sentimento, l'uomo illuminato dalla grazia della verità? E come si può negare che Margaret, incarnato di razionalità, rifugga così ostinatamente ed egoisticamente la realtà e la giustizia e dichiari con le sue azioni che lo fa per paura della sofferenza?
Infatti, con grande astio, accusa Mr Thornton di farle del male: non le importa che di sè.
Thornton le è tanto superiore che non solo non la odia ma umilmente comprende ed accetta la sofferenza. Se il suo amore non è ricambiato, esso non si muterà in odio, ma in sofferenza. Questa è la prova che il suo amore è vero.
Il momento di elevazione di Margaret lo abbiamo visto quando lei lo protegge.
Durante un attacco di una folla di operai inferociti, Margaret frappone il proprio corpo tra quello di Thornton ed i sassi che vengono scagliati verso di lui, rimanendo ferita. E' proprio questo evento che scatena la successiva presa di coscienza di Thornton, che scopre di amarla e che urge dichiararlo a lei.
Il vero atto di rivelazione, dunque, parte proprio da Margaret: questo ci fa sapere che lei è capace di andar oltre la razionalità e ci dà speranza per il futuro di questi due personaggi.

Mr Thornton e Miss Hale

domenica 6 gennaio 2013

Ottobre 1937, Varsavia

Adam sedette sull’erba e passò le dita sulla superficie dei piccoli fiori che risaltavano come capocchie colorate.

Incrociò le braccia e si distese, inclinando lentamente la schiena magra all’indietro, rimirando il cielo al di sopra di lui ed individuando con curiosità le nuvole e gli uccelli migratori che ancora si attardavano sopra alla città.

L’autunno era lento e solerte, con un soffio svogliato incrinava ogni traccia d’estate e la lasciava languire, attenendo che si spegnesse di sua spontanea volontà, priva ormai di ogni speranza e dimentica dei semi che i frutti avevano nascosto, sotto le macerie della primavera, nel terreno.

A contatto con la terra e l’erba, inumidite dagli sospiri dei vegetali che, riconoscendo l’abituale imbrunire della notte, trasudavano milioni di perle trasparenti, il corpo di Adam fu percorso da un forte brivido. Chiuse gli occhi, con un sospiro: si era rifugiato nel silenzio del giardino nella speranza di udire il battito, situato profondamente, ormai quasi irriconoscibile, del cuore antico, di pietre e mattoni, della città dove aveva vissuto quegli ultimi lunghi mesi. Era certo che i suoi abitanti fin dalla nascita traessero nutrimento dalla linfa vitale che quel cuore costante elargiva, con la sua forza di sorgente, mantenendo in piedi palazzi, facendo zampillare fontane, scorrere marciapiedi e rotaie del treno.

I cittadini correvano di qua e di là, chiacchierando nella loro lingua come se si trattasse di una lingua assoluta ed impeccabile, ascoltavano canzoni, accompagnate da orchestre di ogni tipo, bevevano e mangiavano, poco interessati a tutto ciò che avveniva al di fuori delle mura, della chiesa, della biblioteca, dell’osteria e così via.

Così i diversi mondi, animati dalla stessa linfa, non si incontravano in nessuna stagione per bruciare le messi secche ed augurare un futuro nuovo e non riciclato.

Adam osservava questa situazione con una certa, crescente ansia: aveva viaggiato fin da bambino, parlava tedesco, russo ed yiddish, oltre che il polacco. Non conosceva quale fosse la lingua dei propri genitori: suo padre alternava il tedesco, il polacco e lo yiddish. Non era tuttavia un gran trasformista: ogni sua frase era ritmata da un marcato accento che richiamava l’attenzione sulla sua voce ovunque lui fosse, richiedendo tutta la sua pazienza ed il suo impegno per rendere le parole ed il loro significato altrettanto forti quanto quel ritmo dissonante. Suo padre pronunciava il proprio nome e quello dei suoi familiari, compreso il suo, Adam, con inflessioni contrastanti, come se lui stesso fosse confuso a proposito della propria lingua originaria. Non era così per i nonni, che avevano vissuto per lungo tempo insieme a loro: parlavano yiddish, tra loro e con chiunque altro. Adam era molto predisposto ad imparare in breve tempo molte altre lingue, udendole parlare dagli uomini delle varie nazioni, aiutato in un primo momento dai loro gesti e dalle loro espressioni. Così si era istruito, soltanto ascoltando, sui rudimenti del ceco, del moldavo e di alcuni strani dialetti che aveva sentito in Germania. Per lui era un passatempo che non avrebbe scambiato con nessun altro al mondo e quando rimaneva in silenzio amava far circolare nella propria mente vocaboli ed espressioni nelle varie lingue, ricreando un turbine di bandiere fatte da caratteri. Questa era una dimensione liberatoria che aveva covato per lunghi anni dentro di sé ed in qualche modo lo aveva preservato dall’austera vigilanza che era imposta a lui e alla sua famiglia.

Avevano vissuto a Berlino sin da quando era piccolo, città nella quale avevano piantato tende provvisorie i nonni paterni, che erano giunti in Germania con il progetto di dirigersi verso Amsterdam. Mantenendo quel proposito, i nonni avevano vissuto trent’anni a Berlino con la valigia sotto il letto. Il padre di Adam li aveva raggiunti credendo di viaggiare sulla spinta della marea montante, contava di creare a Berlino una base dalla quale riuscire a guadagnarsi un lasciapassare per una vita girovaga, visitando atenei, università, confrontandosi con studiosi di molto lontano. Si trattava di un sogno conforme al suo ideale di intellettuale moderno: la cosa più importante per quell’uomo era lo studio e la comunicazione della propria serendipità e dopo che si fu stabilito a Berlino lavorò come segretario, contabile, operaio, deformando il proprio corpo ed affievolendo la propria vista come un cavaliere intrepido in cerca. Con fatica riuscì a diventare professore in una scuola secondaria. Fu il suo primo incarico e neanche l’ultimo perché non di rado perdeva il lavoro ed era costretto a ricominciare da capo. Il padre di Adam era stato molto infelice allora ed in quel periodo tornò nella cittadina dove era nato e sposò una giovane compaesana, la madre del suo unico figlio. Adam ricordava che spesso litigavano ed in quelle occasioni lei era solita accusarlo di averla sposata e portata a Berlino soltanto perché aveva bisogno di una donna che lavasse le sue camice, perché egli aveva timore dello scherno dei presidi ed dei colleghi tedeschi, che forse sussurravano dietro alle sue spalle: che odore! Perché non si era sposato una tedesca, allora?

Adam sorrise, era certo che suo padre avesse amato molto la mamma. La trattava e la usava come se si trattasse di un gioiello e quando la abbracciava timidamente, senza mai stringerla,  la chiamava zucchero e strofinava il naso contro la sua guancia.

La vita a Berlino era costellata di piccoli ricordi che avevano in potere di intenerirlo, tuttavia Adam non sarebbe ritornato in quella città per niente al mondo. Trasferendosi a Varsavia aveva reciso i suoi legami con quella città dove insieme a suo padre aveva dovuto far balletti come un saltimbanco da una scuola all’altra, pregare perché gli fosse ceduto il passo. Stentava a provare gratitudine o nostalgia per i loro amici tedeschi: la sensazione di essere altro rispetto a loro, in senso strettamente razziale, aveva lasciato un sapore di rancido nella sua bocca. Era cresciuto a Berlino ma si sentiva di esser cresciuto in un altro luogo, sebbene questo processo fosse avvenuto a sua insaputa. Dopotutto, una volta giunto in Polonia, aveva scoperto di avere gambe, braccia e testa, elementi che aveva dubitato di possedere o che erano rimasti nascosti per i lunghi anni di quella militanza in terra germanica. A Varsavia la vita non era così insopportabile. Lo zio con il quale viveva e la sua famiglia erano rilassati ed estroversi, cittadini con un piede su una zolla di campagna, paurosi topolini colti, agricoltori impeccabili della propria costanza.

Gli abitanti della città gli sembravano vivere in uno stato di soporifera ebbrezza, grazie alla quale esploravano le possibilità della loro terra e della loro personalità, sempre più sicuri ed egoisti. Adam osservava con paura il profilo della città e temeva il sorgere di quei pinnacoli ben conosciuti e che potevano rendere grigia la vita. Diffidava di ogni slancio patriottico, nel suo intimo ne era inorridito: era stato costretto ad allontanarsi dal paese nel quale era cresciuto a causa della dirompente passione dei tedeschi per la loro nazionalità. Inoltre amava le sue lingue, che gli permettevano di esprimere gli stessi concetti con suoni e parole diverse, sfumando verbi e tempi alla maniera del pittore, roteando pennelli sulla lingua ed indugiando su una tela grande, sulla quale erano rappresentati il cielo, la terra, il mare, il sottosuolo e gli alberi, dalla loro cima su cui dormivano e vivevano gli uccelli, al tronco al quale si appoggiavano gli innamorati, alle radici che elaborano pazientemente la vita, nel buio della tomba.

Se la vita glielo avesse permesso, avrebbe aperto una libreria sulla grande piazza e sarebbe campato vendendo libri scritti in tutte le lingue. Avrebbe disposto accanto, sullo stesso scaffale, il manoscritto in lingua originale e le sue traduzioni migliori, da lui personalmente scelte. Così, quando un cliente avrebbe espresso il desiderio di comprare un certo romanzo, lui gli avrebbe domandato:

In quale lingua? Whelcher Sprache? 'yn ww’ás şpr’ak? w jakim języku? Dans quelle langue?

Socchiuse gli occhi rivolti verso il cielo, richiamato dal verso di alcuni uccelli ritardatari, che dall’altezza dei loro nidi non si curavano delle notizie di un inverno imminente. Il cielo era ormai molto scuro ed era capace di immaginare l’esatta posizione delle stelle, malgrado il loro chiarore non fosse ancora ben definito. Avrebbe voluto scommettere ed attendere la loro apparizione, per vincere, visto che con un solo battito di palpebra avrebbe potuto far apparire una di quelle luci di fronte al suo occhio. Allungò le braccia attorno al corpo e le stirò, girando il collo da una parte all’altra, pronto ad alzarsi e raggiungere gli altri, quando si accorse che ciò che con le dita stava toccando, alla sua destra, non era la foglia particolarmente soffice proveniente da uno dei cespugli, ma dei ciuffi di capelli umani. Si voltò in quella direzione e riconobbe la sagoma appallottolata di un bambino che riposava, respirando profondamente, rannicchiato tra le frasche di uno dei cespugli che erano sparsi per il prato, ai piedi di un giovane cedro. I suoi capelli erano lisci e lunghi, raccolti in una lunga treccia che aveva perduto il proprio laccino e dunque si avviava al disfacimento. I ciuffi liberi, ondulati come un gruppo di serpentelli, si diradavano come dei raggi, percorrendo il breve spazio di prato che separava Adam dal cedro.

Adam si girò, appoggiando il torace al terreno, e si aiutò con i gomiti ad avanzare verso il bambino. Quando gli fu appresso, allungò il capo per sorpassare la sua spalla, che nascondeva il volto, e riconobbe il viso alabastrino e dai lineamenti sottili della piccola nipote di sua padre, Klara.

Le soffiò in un orecchio e la bambina mugulò, infastidita, quindi, quando lui ebbe smesso, alzò un braccio e cercò di farlo allontanare, puntandoglielo alla faccia.

Adam prese in una mano l’intero avambraccio di Klara e lo tenne fermo con dolcezza, quindi soffiò di nuovo nell’orecchio della bambina, che questa volta si rigirò con uno scatto repentino sulla schiena e poi su un fianco, liberando il braccio dalla presa e alzando il capo, fissando Adam con uno sguardo che costituiva un avvertimento della sua possibile collera. Adam rise e portò le mani di fronte alla faccia, allungando il volto in un’espressione che voleva imitare lo spavento, mentre Klara si metteva in piedi e si spolverava il vestito con entrambe le mani.

"Non stavo dormendo.”

Adam le puntò un dito sulla pancia, quindi affondò, gonfiando le guance e fissandola con gli occhi sgranati. Klara si allontanò con un balzo e strillò, agitando poi le braccia contro di lui.

"Sei uno scemo! Mi dai sempre noia! Stavo dormendo!”

Adam aggrottò le sopracciglia, con fare insospettito.

"Ma non hai appena detto che non stavi dormendo?”

Klara alzò lo sguardo, posizionandolo al di sopra di lui, sul tetto della casa a poca distanza da loro, alla fine del prato, quindi alzò anche le braccia, allungandole verso il cielo, completando quel movimento con un grande sbadiglio.

"Invece dormivo. Ho fatto un sogno, ma era più bello di quelli che faccio di notte, nel mio letto.”

Adam sorrise e dandole la schiena portò a sua volta lo sguardo sulla casa: intravedeva le sagome scure che si affrettavano ad accendere le lampade nella cucina e nella sala da pranzo, passando attraverso le nuvole di fumo che salivano ben dense e bianche dalle padelle e commentando a gran voce gli odori ed i sapori della cena che si preparava.

"E’ naturale. I sogni che si fanno a letto sono sogni da letto. I sogni che si fanno sul treno sono sogni da treno. I sogni fatti sul prato sono i sogni del prato.”

La bambina rise ed emise un grido divertito, si abbassò e strappò alcuni fili d’erba. Dopo averli trattenuti tra le mani e fissati da vicino li lanciò in aria, facendo volteggiare le braccia ed il corpo.

"I sogni del prato, i sogni del prato! Ho sognato insieme al prato?”

Adam sporse le labbra, fingendosi dubbioso, quindi annuì con un fare non troppo convinto.

"Potrebbe anche essere. Ci sono spiriti in tutti i luoghi che sono fatti di pensiero e se abbandoniamo la logica, il mondo della veglia, possiamo vedere con i loro occhi.”

"Anch’io! Anch’io!”

"Cosa hai sognato?”

Klara smise di saltare e si portò le dita alla bocca, bagnando di saliva i polpastrelli.

"Non lo so.”

Adam sorrise e si alzò, le andò vicino e la prese per mano, conducendola poi con sè verso la casa.

"Ma certo, certo che non lo sai. "

"Mi piacerebbe ricordarmelo.”

"Ma certo. Magari te lo ricorderai tra qualche tempo. A volte, i sogni li dimentichiamo. Ma possiamo divertirci nel frattempo servendoci della sensazione che ci hanno lasciato. Possiamo inventare una storia!”

"Sì!”

"Bene! Allora, che sensazione ti ha lasciato questo sogno che non ricordi?”

"Che ho voglia di cantare.”

"Ottimo. Ora pensa bene ad un personaggio che ha tanta voglia di cantare. Chi potrebbe essere?”

"Una segretaria.”

Adam rise, imitato quasi immediatamente da Klara.

"Beh, una segretaria ha sicuramente più voglia di cantare rispetto ad una cantante lirica.”

"E poi?”

"Mi racconterai il resto della storia domattina. Stasera mangeremo tanto e tutti gli zie e gli zii canteranno fino a notte fonda. Tu guardali bene e cerca di trarre ispirazione. Ricorda sempre però che si tratta di un gioco. È molto importante divertirsi, fa parte delle regole. Ora corriamo a cercare la segretaria!”

Cominciarono a correre, Klara saltava in alto nel tentativo di non farsi trascinare da quel parente tanto più alto di lei e nel mentre apriva un braccio verso l’esterno, fendendo l’aria, modulando un mugolio vibrante con le labbra e la lingua per imitare un aeroplano.

I due entrarono in casa ed immediatamente la madre di Klara, che stringeva tra le mani i manici di un’enorme pentola, la protese verso di loro facendola pericolosamente oscillare, si rivolse alla bambina chiedendole dove si fosse nascosta per tutto il pomeriggio, poi alzò lo sguardo sul ragazzo, minacciandolo sotto voce di impegnarlo con i preparativi della cena se un episodio del genere si fosse ripetuto. Adam andò verso di lei e prese a sua volta i manici della pentola tra le mani, tirandola verso di sè senza che lei cedesse la presa.

"Ottimo! Morivo dalla voglia che una di voi vestali del cappone e della teglia imburrata cedeste a uno di noi uomini il mantice per ravvivare il fuoco che arde nell’ara dell’acquolina!”

Molte delle donne si voltarono verso di lui e gli fecero segno di andarsene, scuotendo il capo e sbuffando al suono a quelle parole.

"Che spreco di fiato, Kalovi, solo per prenderci in giro!”

La madre di Klara tirò verso di sè la pentola ed Adam si lasciò trascinare in avanti da quel gesto repentino, piombando sulle ginocchia davanti a lei ed appoggiando il mento alla sua pancia.

"Oh, Sofjia, Sofjia, io farei qualsiasi cosa per esserti utile!”

"Razza di buffone!”

Sofja lo spinse indietro, arrossendo e trattenendo il riso mentre tutte le donne presenti nella stanza, compresa la minuscola Klara, si distraevano per un attimo dalla loro mansione e si fermavano a ridere, con gli occhi socchiusi, colte da un’improvvisa ed inaspettata ondata di tenerezza verso il giovane che proveniva dalla Germania.

Sofja le guardò tutte, increspando gli angoli della bocca, quindi rivolse di nuovo lo sguardo ad Adam, alzando un sopracciglio.

"Guarda che cosa hai fatto.”

"Proprio niente! Perchè ti stupisci, ritieni forse le tue consorelle delle vecchie scope incapaci di scuotersi come le scintille originate da una marmitta?”

Un brusio divertito sorse nuovamente dalla turba di donne indaffarate, qualche mano si attardò ad accarezzare una piuma bianca prima di staccarla con decisione, un mestolo ondeggiò con grazia mentre il polso si fermava a pensare nel bel mezzo della piroetta, un mento compariva sul fondo di un viso che si era alzato ha un ripiano infarinato.

Klara stava saltando dietro alle spalle di Adam, che era rimasto seduto con le ginocchia a terra, e si dava saltuariamente uno slancio verso l’altro appoggiando le mani alle sue scapole. Sofja cercò di richiamare la sua attenzione con un gesto della mano, indicandole lo spazio compreso nella cucina, ma Klara si nascose dietro alle spalle del giovane.

"Klara! Cosa ne diresti di aiutare un po’? Vuoi giocare tutto il giorno?”

"Sì. Giocare e poi mangiare.”

Adam appoggiò la sua risposta annuendo con aria seria, fino a che Sofja non si avvicinò a lui ed allungò un colpo lieve sulla sua testa ricciuta.

"Bene! Allora Adam farà le veci di Klara e mi aiuterà!”

Klara irruppe in un grido di gioia ed in pochi secondi si allontanò da loro e scomparve lungo il corridoio. Sofja sospirò, facendo poi segno ad Adam di alzarsi ed avvicinarsi alla pentola che aveva appoggiato su un angolo del tavolo.

"Sarà andata diritta ad infastidire suo padre. Ma lui tollera qualsiasi scherzo da Klara. Per fortuna non sa che sei tu l’ideatore di tutti i suoi scherzi più elaborati!”

Adam si sporse al di sopra della pentola e mostrò la lingua ad un cumulo di patate da sbucciare, mentre Sofja gli metteva un coltello tra le mani. Voltò la testa verso di lei e sorrise con aria innocente, mostrandole il coltello mentre mascherava la voce con un tono quasi femmineo.

"Quale patata vuole che uccida, mia signora?”

Sofja gli girò la testa, sgranando gli occhi ed alzandosi sulle punte, fremendo di rabbia.

"Basta! Per quale motivo devi fare il buffone tutto il tempo?”

Adam alzò le spalle ed agguantò una patata, cominciò a sbucciarla lentamente, assumendo d’un colpo un espressione molto calma e rilassata.

"E’ il minimo. Cosa potrei fare per te e lo zio, che mi ospitate nella vostra casa come se fossi il fratellone di Klara? Sarò il vostro saltimbanco. Per quanto possa farvi piangere di rabbia, almeno vi farò ridere in egual misura.”

Sofja aggrottò la fronte e si avvicinò a lui, abbassando la voce per parlare.

"Ma che argomento. Come se tu ci fossi d’impaccio. Lascia che te lo dica, un altro uomo in casa di questi tempi non è che una benedizione. Chiedilo a tutte queste donne, ognuna di queste che si trovano nella stanza. Hanno figli piccoli, genitori anziani, un solo uomo che può garantire protezione a loro e a tutti questi deboli agnellini. Pagherebbero perchè giungesse un nipote grande a stare in casa loro.”

Sofja non era donna da dichiarazioni dirette di affetto: era stata educata a ragionare in termini economici e di razionamento, per cui chi la conosceva sapeva che ogni concessione, espressa attraverso le parole, a gesti o con le azioni, di cui si faceva interprete erano un segno di grande considerazione. Ciò che aveva appena confidato ad Adam era la pura verità e desiderava che lui la conoscesse perchè non avesse il sospetto di costituire un peso alla loro famiglia. Il concetto di utilità si costituiva per Sofja all’interno del territorio dell’affettività: tendeva a ritenere utili soltanto i propri parenti o amici. Per lei chiedere un favore pratico era quasi equivalente a domandare una dimostrazione di affetto.

Adam, vivendo con lo zio e sua moglie Sofja da alcuni mesi, si era accorto di questa particolarità caratteriale e si era divertito a sperimentare i risultati dell’estrema gentilezza con cui si prodigava per Sofja e sua figlia Klara. In poco tempo Sofja, che non era molto più vecchia di lui, era arrivata quasi ad includerlo nel proprio grembo ed a partorirlo così com’era, già grande e fatto, con le proprie idee e la propria barba. Lo vestiva e lo nutriva, gli affidava Klara e teneva di conto la sua opinione.
Adam aveva temuto che lo zio potesse ingelosirsi, dopotutto Sofja non aveva nemmeno dieci anni più di lui, così aveva ben presto confidato all’uomo che incontrare una donna come lei aveva finalmente ricolmato il suo desiderio di conoscere una donna che assomigliasse a sua madre e di poter dare a lei quello che non aveva potuto dare a quella debole creatura, scomparsa prematuramente. Lo zio era rimasto molto commosso da questo pensiero e gli aveva cantato una canzone che si ispirava al grande amore del figlio per i genitori. 

Varsavia