mercoledì 23 ottobre 2013

Una recensione sbagliata: A un cerbiatto somiglia il mio amore, di D. Grossman

Questa non è la storia di un grande amore; non parla nemmeno di belle persone.
Non scava nella profondità di una psicologia intricata, le parole di questa storia non ritraggono l’umanità nel suo grande mistero, rivelando ciò che tutti speriamo di scoprire, un giorno, prima che sia troppo tardi.
Si tratta di un’illusione, questa, che il libro smentisce. Come se ad ogni pagina l’autore, David Grossman, si sporgesse sopra le righe, con la spazzola bionda dei suoi capelli ed i suoi azzurri occhi ingranditi dalle lenti, e sussurrasse, tra il dispiaciuto ed il soddisfatto: non è questo, vero, ciò che speravi di trovare? Ho vissuto la stessa esperienza con tutti i libri di Grossman, anche se non nego che lui resta uno dei miei autori preferiti.

David Grossman ritratto mentre mi appare tra le righe.
Vedi alla voce amore, Che tu sia per me il coltello: forse il segreto dell’illusione è l’allusione del titolo. Solitamente non ci aspettiamo che lo straniamento si annidi in quello che siamo abituati a ritenere una stringata sinossi della trama e del significato del libro: perché l’autore non dovrebbe conformarsi naturalmente a quel titolo – a quel nome proprio – con il quale egli stesso ha deciso di battezzare la sua creatura? L’errore e la sensazione che lo scrittore abbia voluto deliberatamente ingannarci ci inducono forse a tirare troppo presto le conclusioni sul libro in questione, perché in fondo ci hanno insegnato fin da bambini che chi tradisce il proprio nome cela il male, proprio come il Diavolo, che si chiamava Lucifero.
Beh, non fatelo, non con questo libro, che non è un’opera malefica concepita per disturbare il nostro buon umore, ma il fedele racconto di un’esperienza che viviamo tutti i giorni: sognare, desiderare di non destarsi dal sogno ed inevitabilmente, alla fine, cedere alla veglia ed alla crudele luce della vita.
A un cerbiatto somiglia il mio amore. Di David Grossman.
L’analogia con il sogno ed il risveglio, in fondo, funziona fin dal titolo. Questa frase suggerisce uno stato sognante, l’innamoramento; immediatamente immaginiamo di pronunciarla in modo trasognato, sospirante. Dove abbiamo imparato così bene a leggere una frase del genere, ad attribuirla ad un amante e non alla mamma di Bambi? Dai libri, ovviamente – nel caso di qualcuno, dai film. Una frase del genere sarebbe stata una battuta perfetta per Giulietta Capuleti, la più sventurata e romantica fanciulla dal 1594.
Vengo al dunque: qual è la più romantica delle scene della Most Excellent and Lamentable Tragedy of Romeo and Juliet? Proprio quella in cui i due amanti e sposi si stanno per risvegliare, all’alba che segue la loro prima ed ultima notte passata insieme, e maledicono la luce perché capiscono che il sogno, il loro agognato sogno d’amore, è finito. Giulietta cerca addirittura di ingannare Romeo e se stessa: è la civetta, non l’allodola, è ancora notte, è ancora notte, è ancora sogno. Alla fine, i due amanti riescono davvero a rendere il loro sogno eterno, procurandosi l’eterno sonno.
Va bene, A un cerbiatto somiglia il mio amore, non Romeo e Giulietta – chiedo venia, ma come ho inteso precisare nel titolo del post, si tratta di una recensione sbagliata.
Come la si legge sul libro, la storia: tre ragazzi si conoscono in una notte di coprifuoco, all’interno di un ospedale. Non possono né muoversi, perché sono malati, né vedersi, perché è buio, e non è rimasto nessuno nello stabile oltre a loro. La situazione è fuori dal comune ed il ragazzo A si innamora della ragazza A, ma la ragazza A si innamora del ragazzo B. I tre in seguito continuano a frequentarsi e la storia si muoverà sempre nello spazio triangolare che si è creato tra loro.
Tutti e tre i personaggi principali hanno modo, nel lungo romanzo, di aprirci la mente su temi importanti relativi alle loro storie personali: i fantasmi adolescenziali, la paura del terrorismo – la storia ha luogo in Israele – , la disabilità di un figlio, l’orrore della guerra, la fine di un matrimonio.
Eppure questi personaggi ci deludono: la ragazza A, Orah, in particolare. Più i capitoli trascorrono, più si ha la sensazione che la mala fimmina del ragazzo A, Avram, si riveli più superficiale di quanto lo stesso autore si aspettasse quando le ha dato vita in quel primo capitolo. Per quanto mi senta disillusa nei confronti di Orah, devo riconoscere due grandi pregi di questo seccante personaggio: la grande fisicità – se mi capita di provare ad immaginarla, posso quasi vederla – che le è conferita dalla carica emotiva che gravita a pochi millimetri dalla sua chioma rossa, come un’areola; d’altra parte si trova l’amore e la compassione per i suoi figli che lei riesce a far provare a chi legge le sue parole.
Anche per quel che riguarda il ragazzo A ed il ragazzo B, Avram e Ilan, si lasciano facilmente giudicare dal lettore per il loro amore – o non-amore – che appare scarsamente giustificato; sono completamente privi di epica e non ispirano (quasi) alcuna comprensione, vista la loro poco accattivante condotta.
Se lo avete appena comprato e siete incappati in questa recensione spero che siate arrivati fino a questo punto prima di buttarlo nel ripostiglio delle scope.
Se così non è stato, per favore, andate a recuperarlo, perché questo è il momento in cui confesserò che questo libro mi piace, non ho remore nel definirlo un libro bello, bello – sì, proprio così, bello due volte – e che vale la pena leggere.
Non perché parla di caratteri superlativi, di amore, di guerra, delle conseguenze di queste esperienze umane che, se vogliamo, sono state riscritte e rilette in tutte le salse.
Grossman è riuscito nell’intento di stupire e di scrivere qualcosa di completamente innovativo.
Grossman ha descritto un sogno di una notte, un ventennale dormiveglia ed infine un doloroso risveglio.
Il primo capitolo, nel quale i tre protagonisti, al buio, vengono a conoscenza l’uno dell’altro, è sublime. Soltanto il primo capitolo potrebbe valere il prezzo del volume, ammettendo che tutti gli altri potrebbero risultare nettamente inferiori rispetto alle aspettative. L'autore abolisce le virgolette del discorso diretto e ciò che leggiamo è ciò che i ragazzi pensano, si dicono a voce alta e che costituisce la realtà in quella notte di buio, bombardamento, assenza, tragedia, paura di morire.
Avram è il primo a parlare, ad abbandonare la forma del silenzioso embrione nel buio del ventre ospedaliero, e per tutto il libro rimaniamo con la sensazione che sia lui il creatore: Avram ha adescato Orah in una notte in cui poteva anche tacere, Avram accetta l’amore non corrisposto, Avram accetta la scommessa che lo porterà alla tortura, Avram rende possibile il viaggio di Orah con il suo consenso a seguirla.
Avram prova per primo – ben prima di noi, che stiamo ancora divorando quel superbo primo capitolo – che la realtà che sta vivendo non è altro che un sogno, che sarà deteriorato dalla realtà. Immagina il nome della ragazza che non può vedere e quello per lui è pieno di significato, eleva il suo spirito fino alle stelle; quando le chiede il suo vero nome, rimane deluso nell’apprendere la verità e quello è il primo segno riconoscibile del risveglio.
Credendo di trovarsi ancora nel territorio del sogno i tre protagonisti compiono molti errori, alcuni dei quali ci appaiono inspiegabili, eppure non dovrebbero, visto che anche noi sogniamo e nei nostri sogni compiamo con naturalezza le più bizzarre stramberie. La logica di Avram, Orah e Ilan è quella del sogno e li porta, come sonnambuli, a scontrarsi con il muro che delimita il mondo reale, cioè le tragedie della guerra, dei figli, della morte.
All’inizio del racconto, un’Orah adulta chiama per il figlio militare un taxi condotto da un amico di famiglia, un musulmano palestinese, per accompagnarlo al punto di raccolta dell’esercito israeliano: quando l’uno vede l’altro, entrambi vivono con profondo stupore e costernazione l’errore della donna, che sul momento non si spiega come abbia potuto commettere una leggerezza tanto imbarazzante. La furia di Orah ha inizio proprio dopo quel viaggio in macchina: Orah si agita nel lenzuolo, ha capito che è ora di svegliarsi, sta suonando la sveglia. Anche la sveglia di Avram suona: Orah fa squillare continuamente il suo telefono, il suo campanello, fino a che lui stesso non è chiamato a compiere con lei la lunga marcia che li condurrà al doloroso frutteto della realtà, al quale non possiamo sottrarci grazie all’incantesimo del sonno, la cui potenza non risiede nella capacità di controllare o cambiare gli eventi ma nel farci credere che possiamo evitarli senza tener conto di dove si trova il nostro corpo e quello di coloro che amiamo.

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