sabato 16 marzo 2013
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Le masse esprimono il loro giudizio e si muovono.
Non è mai stato così facile, giudicare, come nell’era di
internet. Non ne è forse prova l’invadente dietro le quinte che ha circondato
queste nostre ultime, controverse elezioni?
C’è forse un problema, nell’era di internet: le persone che
giudicano non ascoltano chi giudicano e non parlano tra di loro, così le
opinioni da dinamiche e soggette al tempo si cristallizzano, acquistano una
forza sconosciuta, simile a quella delle pietre.
Le persone non hanno bisogno di muoversi, di conoscere il
nome di un autore, di un uomo politico, di un cantante: basta una foto
segnaletica, una frase, un simbolo ed ecco liberarsi l’opinione, che si
manifesta in pochi caratteri.
Io mi chiedo: che ne è stato del contesto?
Il contesto è morto, ha perso la sua risonanza. Che importa
se ad essere investito di autorità è un ladro od un comico, che importa se
l’autore di pagine in cui si racconta l’amore ed il sesso è una casalinga, che
importa che l’autore a cui è attribuito un certo messaggio non ne sia l’autore,
in realtà? Tutto ciò è, all’apparenza, molto democratico, ma c’è un ma: il
messaggio si trova in luce, ma è davvero ben chiaro se sia condivisibile o
meno, apprezzabile o deprecabile, considerato che il suo autore è in pratica un
anonimo ed esso viene espresso al di fuori di ogni circostanza? Le persone
entrano davvero in comunicazione quando non sono investiti dell’identità di
interlocutore? Queste persone si sentono davvero all’interno di una relazione,
fondamentale per la trasmissione delle informazioni?
Non che conoscere chi si esprime sia sempre necessario: noi
tutti abbiamo sperimentato la potenza della letteratura, che in anni di letture
ha plasmato la nostra memoria, la nostra percezione del mondo e delle persone,
le nostre idee. Io stessa non so più distinguere cosa ci sia di originale in me
e cosa invece non sia stato influenzato fino alla radice dai libri che ho
letto. Noi non conosciamo l’autore del libro ed egli non conosce noi, siamo un
esercito di sconosciuti del tutto neutrali, prima di iniziare la lettura e fare
la conoscenza del mondo dell’autore, eppure dobbiamo ammettere di conoscere
quella sensazione che soltanto la “buona letteratura” sa dare: l’autore sembra
conoscerci, i personaggi ci appaiono familiari, ci identifichiamo con alcuni di
essi, piangiamo e ridiamo con loro, viviamo e moriamo, a volte. Esiste un
“ponte”, un’arca dell’alleanza riposta dentro i libri “fatti bene” (che non
sono quelli “universalmente belli”…che naturalmente non esistono): si tratta di
una magia e di un’arma che la maestria dell’autore può porre nelle pagine e con
essa avvicinare a sé la mente di una persona qualunque che si sente speciale,
si sente di poter dire qualcosa su quel libro, di poter parlare con e a nome
delle sue ombre.
Ovvia deduzione: questo non succede per gli stati di
Facebook, per i tweet, per le notizie a rapida condivisione e molto spesso,
ahimè, neanche per i post dei blog. Tutto ciò che viene letto è rapido: la
brevità e l’incisività sono d’oro, le parole scelte sono simboli altamente
intelligibili che scatenano una reazione (uguale o contraria). Chissà, se
Bersani avesse affidato i suoi “cinguettii” metaforici al mezzo digitale ed
avesse bandito dalla sua campagna i commentatori ed i contestisti per
eccellenza, i giornalisti, magari avrebbe smosso il dito indice di milioni di
italiani.
Che valenza ha un’opinione quando questa acquista tali
caratteristiche?
A livello individuale, nessuna. La mente non si apre, non
procede nel proprio divenire e non acquisisce niente. La valenza
dell’espressione dell’opinione, in queste condizioni, è a mio parere ben
diversa, trasfigurata: si tratta di una valvola di sfogo, un’auto-attribuzione
di autorità in quanto ci si arroga il diritto di esprimere un giudizio senza
doverlo peraltro giustificare con riferimenti che vadano oltre ad i propri
confini personali. Uno vale uno, non è forse questo che ci dicono?
Uno si può sentire protetto da questo anonimato e risolvere
il famoso complesso del buono a nulla: le persone si scagliano contro poesie e
foto, contro politici, educatori, mamme, soldati, testimonianze di ogni
genere…ricette; oppure fanno proprio ciò che viene detto, trasfigurandolo
completamente.
A questo proposito desidero fare un esempio: qualche tempo fa
ho letto su uno dei maggiori quotidiani italiani un (brutto) articolo sul Romeo
e Giulietta di Shakespeare. Sotto di esso si stagliava l’unico commento,
firmato da una e-mail costituita da lettere e numeri, una sorta di targa
automobilistica, il quale diceva: Romeo e Giulietta andrebbe fatto leggere a
scuola, ai bambini. Sono d’accordo con Shakespeare: l’amore vero è tra UOMO E
DONNA. Gli omosessuali sono dei degenerati. La mia reazione è stata di
sbigottimento: proprio sotto un articolo su Shakespeare, che notoriamente ha
scritto, secondo lo stile dell’epoca, sonetti dedicati ad un “giovinetto”,
trovo una sparata omofoba, firmata da un robot.
Mi sento estraniata da un’esperienza del genere, anche
perché non senti normalmente le persone comuni parlare di Shakespeare: è quello
il luogo in cui si parla di Shakespeare, sotto al post, dove in calligrafia
corsiva è presente l’invito: lascia un commento. Cosa posso fare, io che amo
Shakespeare, l’ho studiato e ne do un’interpretazione secondo un’obiettività storica,
a fermare per strada quest’uomo o donna e spiegargli che no, lui/lei non è
d’accordo con William Shakespeare? Normalmente questo incontro di opinioni non
sarebbe avvenuto, ma considerato che è successo, qual è il senso che questo
scambio rimanga fine a se stesso e non possa essere utile ai fini di uno
scambio?
Le persone si sfogano e rimangono lì, inconsapevoli, senza
accorgersi che perdono una forza utile a sconfiggere quell’anergia che ci
coglie in questi tempi in cui la militanza individuale, come persone, come
menti consapevoli di cosa è ovvio, cosa è falso e cosa è importante, è l’unica
speranza di rivalsa.
Con questo io non voglio demolire il web: amo internet, lo
uso quotidianamente e mi annoierei se non esistesse. Probabilmente avrei anche
meno motivi per scrivere ed uscire dal mio guscio.
Ma…no, signori no: smettetela di ritenere che sia lecito
poter definire i grandi dittatori “abbastanza buoni, prima della degenerazione”
senza apportare uno straccio di prova storica, smettetela di imbrattare i versi
ironici di uno studente “perché la metrica è sbagliata” senza accorgervi che la
metrica non era compresa tra le finalità, smettetela di essere taglienti perché
a qualcuno è sfuggita un “h” dalla tastiera quando siete tanto maleducati da
non saper nemmeno come ci si rivolge, non usate espressioni come
incontrovertibile, non scambiate la disperazione per le lamentele di cagnolini
viziati e l’opinione altrui e diversa per una calunnia della verità che può
essere ripagata solo con la mortificazione dell’altro.
Questa non è libertà d’opinione, è inconsapevolezza. Io
trovo che in giro ci sia pieno di Ingannati, più che di Indignati. L’unica
difesa (contro le enormi bufale che offuscano le nostre giornate) non è forse
l’uso consapevole degli strumenti? Il sacrificio necessario è, temo, rinunciare
all’infantilismo della valvola di sfogo e svegliarci. Svegliamoci, ora.
martedì 5 marzo 2013
Ieri era ho guardato un film, Detachment – Distacco,
che parla di insegnanti.
È un film verità, in tutti i suoi aspetti: gli attori
narrano la verità, attraverso i loro i corpi, le loro espressioni, il suono
della loro voce; la storia è verità, perché quella storia sono gli
insegnanti, sono i ragazzi, sono la scuola; l’ambiente, che si trasforma da
realtà a pensiero, un edificio scolastico che interpreta la devastata casa
Husher, nelle cui mura diroccate abita uno spirito affine a quello che dorme,
inquieto, nelle mura della scuola.
I miei genitori sono insegnanti: mia madre insegna
matematica e scienze alla scuola media, mio padre storia e filosofia alla
scuola superiore. Insegnano da quando avevano ventisei anni ed ora hanno quasi
trent’anni di carriera. Io sono nata quando di anni ne avevano vent’otto e
quindi li ricordo: i giovani insegnanti. Giovani e belli, magri ed energici,
stanchi.
Ricordo i miei genitori stanchissimi e poveri, la sera,
nella nostra casa di cinque stanze in cui abitavamo in cinque. Ricordo i loro
occhi sgranati quando si raccontavano di chi li aveva offesi, di chi aveva
deturpato il loro nome, di chi aveva pianto a dirotto, delle ore passate a
sentirsi gli avvocati delle cause perse. Io li ho visti in quel film, Detachment,
ieri sera, e forse è per questo che mi sono così commossa.
Il film ha definito ciò che io molto profondamente desidero
definire, sempre, forse senza riuscirci: gli insegnanti. In questo paese, forse
in tutti, gli insegnanti non sono amati: ho ascoltato le stesse frasi
pronunciate da tutti, coetanei, genitori di amici, commesse, impiegati del
comune, verdurai, camionisti, medici, giudici e avvocati, giornalisti,
politici.
Sono le stesse frasi che una serie di facce anonime, riprese
da molto vicino, pronunciano durante i titoli d’apertura del film: basta
telefonare, dire che si sta male e non vai al lavoro. Le ferie di tre mesi
durante l’estate. L’orario di lavoro ridotto a sei ore, soltanto la mattina.
Fannulloni, marajà, privilegiati, questi insegnanti. Ladri.
Queste cose le ho sempre sentite dire e non mi sono mai
trattenuta dopo, dal dire: i miei genitori sono insegnanti, entrambi. E dal
dichiarare che queste sono tutte balle, balle, balle, balle.
So che è difficile difendere la categoria. Infatti loro non
la difendono: la condannano. Si scontrano con i colleghi arrivisti, che pensano
alle pubblicazioni e non ai ragazzi, cercano di proteggere gli stuendenti da
chi ha occupato un posto soltanto per un contratto a tempo indeterminato.
A volte piangono, come il protagonista del film. A volte
avvicinano la mano al telefono che squilla così lentamente che io credo che non
lo prenderanno mai, mai.
So che la categoria non è difendibile. Questo è ben visibile
anche nel film: ci sono porci, ci sono ignoranti, incompetenti. Quello con cui
ci si scontra, se stai nella scuola e sei davvero un insegnante, è
l’ingiustizia. Credo che sia la professione che sta più vicina all’ingiustizia,
più della guardia carceraria, più del magistrato anti-mafia, più dell’attivista
per i diritti umani.
L’ingiustizia è una presenza invisibile che li tocca, li
scarna, cancella loro il volto, esige il loro distacco, il loro fuoco freddo
per combatterla.
Harry, il professore del film, ne parla proprio così,
parafrasando: noi stiamo vicino ai giovani e li vediamo disperati. Li vediamo
che non credono, vediamo il terrore di ciò che li aspetterà, il nulla che
vedono e non possiamo far altro che essere noi stessi. Non possiamo far niente,
possiamo soltanto essere lì e poi lasciarli andare al loro destino di gocce
nell’oceano.
Questa è un’esperienza terribile: nessuno dice grazie ed il
fallimento aleggia, sempre, nella vita comune ed ingiusta che quei bambini,
alle porte della vita adulta, si avviano a condurre da soli, fuori dall’aula
dell’insegnante che li ha amati.
Tutti gli insegnanti, nel film, oltre ad essere stanchi e
continuamente provati dalla commozione, sono soli. Questo è il particolare che
ho notato con più chiarezza.
Per lunghi anni mi sono chiesta perché i miei genitori siano
così soli: hanno pochi amici, escono poco, il fine settimana non sanno mai cosa
fare. Mi dicevo: i genitori dei miei amici non sono così. Escono con tavolate
di conoscenti a mangiare la pizza, partono per il fine settimana, vanno
all’Ikea.
Dalle parole di un’insegnante del film: il venerdì sera mi
dispero. L’idea del fine settimana da passare da sola mi distrugge.
Ora ho capito. I miei genitori sono soli perché sono
insegnanti. Gli insegnanti sono soli, soli al mondo.
L’identità tra loro ed i personaggi del film mi ha
impressionato: loro mi hanno fatto vedere tutto quello che non ho mai
raccontato di loro e mi sono sentita grata. Vorrei che tutti lo vedessero, che
tutti sapessero. Vorrei che ascoltassero Adrien Brody, che interpreta il
protagonista, il professor Barthes: osservassero il suo viso scavato, ognuno
dei suoi lineamenti che interpreta ognuna delle sue parole, e dopo tornassero a
guardare il volto di mia madre, mio padre, il mio, che sono la loro figlia.
Capirebbero lei, capirebbero lui, capirebbero me, che ne sono il frutto e
partecipo della loro vita. Capiterebbero la loro tristezza, la loro solitudine
e parte della mia.
Non so se è lecito, ma questo film che ho guardato lo dedico
a loro e a tutti gli insegnanti, degni di esser chiamati tali, che ho conosciuto.
Forse il mio punto di vista è privilegiato, perché loro mi hanno generato, ma
c’è molto dolore anche in quelli di loro che sono più piccoli, più deboli, più
schiacciati, perché non c’è davvero nessuna gloria in questo mestiere, e ci si
riempie di polvere.
Per quelli che odiano gli insegnanti, giustamente avendo
avuto esperienze terribili con matti, porci, violenti, ignoranti, macellai e
dittatori (che ho provato anche io, intendiamoci), fate così, da oggi: cercate
lo sguardo triste degli insegnanti, quelli veri. Aiutateli, in quella lotta
impari contro l’ingiustizia, contro le persone prive di consapevolezza, perché
"È facile
essere indifferenti, l'interesse richiede coraggio e il coraggio richiede
carattere!"
Mi sento in colpa
ogni giorno, per la solitudine dei miei genitori, in quanto giovane. A volte è difficile sopportarli ma ogni
giorno io attingo pazienza ed idee per suggerire loro qualche appiglio e
forse…sono diventata anche io un po’ insegnante.
Di più non dico. Se avrete l’occasione di leggere questo
post, se siete una di quelle tante persone, come lo sono io, che hanno provato
lo schifo della scuola pubblica, ma siete ancora privi di consapevolezza e
questa rabbia non sapete dove dirigerla, se non sulle persone, non fermatevi
alle mie parole. Guardate il film, Detachment. Certe cose vanno fatte
dire a chi ha gli strumenti per farlo, a chi lo sa fare. Malgrado io abbia la
tristezza, forse io non li ho quegli strumenti, non ancora.
venerdì 1 marzo 2013
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Il libro è North and South, di Elizabeth Gaskell. Lo sto leggendo in inglese, perchè in italiano è stato tradotto soltanto nel 2011 ed ho rinunciato all'annosa ricerca quando mi sono ritrovata tra le mani un meraviglioso, compatto Collins in lingua originale al prezzo di tre euro e cinquanta.
Il racconto si svolge nei fuligginosi anni della seconda rivoluzione industriale, durante i quali la signorina Margaret Hale viene prima espiantata dalla casa cittadina di Londra dove vive con le raffinate ed ottimiste zia e cugina, alla canonica del padre pastore in piena crisi di coscienza, circondato da una paradossale bucolica cornice, alle angustezze e al raschiore alla gola della città industriale, Milton, tra i nordici pinnacoli fumanti del Darkshire, fornace d'Inghilterra. Qui Margaret conosce un trader, Mr Thornton, che quando lei ammette di non poterlo definire gentleman, egli rifiuta con decisione tale epiteto per definirsi, con maggiore precisione, Man. E' l'inizio del confrontro tra loro e dell'amore che ispirerà a lui la più completa accettazione e comprensione della di lei diversità. Forse è un bene che abbia scritto una riflessione proprio ora, a metà del libro, così da non dover svelare un finale.
Per ora, la realtà, le convenzioni, i pregiudizi, i dogmi - Non mi piace Mr Thornton, perchè no! - vincono, hanno la meglio sull'eroe commerciante John Thornton, che per un attimo crede di poter toccare una scintilla, proveniente dal fuoco che sente bruciare e di cui percepisce il calore sulla pelle. Egli intuisce che tale fuoco potrebbe divenire reale e desidera, come uomo, divenire un'irradiante stella, afferrandolo.
Non ancora, Mr Thornton, il tempo della razionalità, rappresentato così splendidamente e paradossalmente da Margaret, non è pronto e rigetta. Un giorno d'amore in più da frapporre alla morte è così andato perduto e con esso molti altri, con l'angoscia che ne deriva.
La cosa più bella è questo scambio delle parti, tra l'uomo presentato fin dall'inizio come il commerciante senza scrupoli e la ragazza dai modi fini e ricca di pietas:
Lui: d'un tratto si colora di passione, sincerità, amore, gratitudine, abnegazione, rinuncia all'odio, prova umiltà e mortificazione.
Lei: è apparentemente cieca, piena di pregiudizi, addirittura maleducata, superficiale. Si richiama a Mr Thornton pregandolo di non esprimere i propri sentimenti, dichiarando come proprio sommo valore l'autocontrollo. E' così concentrata su se stessa e sulla propria convinzione di autorevolezza da lasciarsi sfuggire completamente il proprio egoismo.
Margaret mi appare un po' come la vittima dell'educazione ricevuta ed infatti accusa Mr Thornton di non comportarsi come un gentiluomo, escludendo spontaneamente dall'accezione di gentiluomo la possibilità di comprendere e provare sentimenti. Questi sentimenti noi li vediamo mostrarsi, chiari e puri, in Thornton che, ergo, non è davvero un gentiluomo, provoncando nel lettore la completa accettazione e simpatia per questo personaggio e, dunque, per i non-gentiluomini. Questo gioco delle parti è così abile da renderci inaccettabile l'idea che un Uomo accetti di piegarsi alle regole del gentiluomo. Quello che l'autrice fa, descrivendoci i personaggi nella loro pura fattualità unitamente ad i loro moti interiori, è rieducarci. Elizabeth Gaskell rieduca il lettore vittoriano attraverso il racconto: come si può che negare che Thornton sia, nella sua ribellione che lo porta ad accogliere ed esprimere così esplicitamente un sentimento, l'uomo illuminato dalla grazia della verità? E come si può negare che Margaret, incarnato di razionalità, rifugga così ostinatamente ed egoisticamente la realtà e la giustizia e dichiari con le sue azioni che lo fa per paura della sofferenza?
Infatti, con grande astio, accusa Mr Thornton di farle del male: non le importa che di sè.
Thornton le è tanto superiore che non solo non la odia ma umilmente comprende ed accetta la sofferenza. Se il suo amore non è ricambiato, esso non si muterà in odio, ma in sofferenza. Questa è la prova che il suo amore è vero.
Il momento di elevazione di Margaret lo abbiamo visto quando lei lo protegge.
Durante un attacco di una folla di operai inferociti, Margaret frappone il proprio corpo tra quello di Thornton ed i sassi che vengono scagliati verso di lui, rimanendo ferita. E' proprio questo evento che scatena la successiva presa di coscienza di Thornton, che scopre di amarla e che urge dichiararlo a lei.
Il vero atto di rivelazione, dunque, parte proprio da Margaret: questo ci fa sapere che lei è capace di andar oltre la razionalità e ci dà speranza per il futuro di questi due personaggi.
Il racconto si svolge nei fuligginosi anni della seconda rivoluzione industriale, durante i quali la signorina Margaret Hale viene prima espiantata dalla casa cittadina di Londra dove vive con le raffinate ed ottimiste zia e cugina, alla canonica del padre pastore in piena crisi di coscienza, circondato da una paradossale bucolica cornice, alle angustezze e al raschiore alla gola della città industriale, Milton, tra i nordici pinnacoli fumanti del Darkshire, fornace d'Inghilterra. Qui Margaret conosce un trader, Mr Thornton, che quando lei ammette di non poterlo definire gentleman, egli rifiuta con decisione tale epiteto per definirsi, con maggiore precisione, Man. E' l'inizio del confrontro tra loro e dell'amore che ispirerà a lui la più completa accettazione e comprensione della di lei diversità. Forse è un bene che abbia scritto una riflessione proprio ora, a metà del libro, così da non dover svelare un finale.
Per ora, la realtà, le convenzioni, i pregiudizi, i dogmi - Non mi piace Mr Thornton, perchè no! - vincono, hanno la meglio sull'eroe commerciante John Thornton, che per un attimo crede di poter toccare una scintilla, proveniente dal fuoco che sente bruciare e di cui percepisce il calore sulla pelle. Egli intuisce che tale fuoco potrebbe divenire reale e desidera, come uomo, divenire un'irradiante stella, afferrandolo.
Non ancora, Mr Thornton, il tempo della razionalità, rappresentato così splendidamente e paradossalmente da Margaret, non è pronto e rigetta. Un giorno d'amore in più da frapporre alla morte è così andato perduto e con esso molti altri, con l'angoscia che ne deriva.
La cosa più bella è questo scambio delle parti, tra l'uomo presentato fin dall'inizio come il commerciante senza scrupoli e la ragazza dai modi fini e ricca di pietas:
Lui: d'un tratto si colora di passione, sincerità, amore, gratitudine, abnegazione, rinuncia all'odio, prova umiltà e mortificazione.
Lei: è apparentemente cieca, piena di pregiudizi, addirittura maleducata, superficiale. Si richiama a Mr Thornton pregandolo di non esprimere i propri sentimenti, dichiarando come proprio sommo valore l'autocontrollo. E' così concentrata su se stessa e sulla propria convinzione di autorevolezza da lasciarsi sfuggire completamente il proprio egoismo.
Margaret mi appare un po' come la vittima dell'educazione ricevuta ed infatti accusa Mr Thornton di non comportarsi come un gentiluomo, escludendo spontaneamente dall'accezione di gentiluomo la possibilità di comprendere e provare sentimenti. Questi sentimenti noi li vediamo mostrarsi, chiari e puri, in Thornton che, ergo, non è davvero un gentiluomo, provoncando nel lettore la completa accettazione e simpatia per questo personaggio e, dunque, per i non-gentiluomini. Questo gioco delle parti è così abile da renderci inaccettabile l'idea che un Uomo accetti di piegarsi alle regole del gentiluomo. Quello che l'autrice fa, descrivendoci i personaggi nella loro pura fattualità unitamente ad i loro moti interiori, è rieducarci. Elizabeth Gaskell rieduca il lettore vittoriano attraverso il racconto: come si può che negare che Thornton sia, nella sua ribellione che lo porta ad accogliere ed esprimere così esplicitamente un sentimento, l'uomo illuminato dalla grazia della verità? E come si può negare che Margaret, incarnato di razionalità, rifugga così ostinatamente ed egoisticamente la realtà e la giustizia e dichiari con le sue azioni che lo fa per paura della sofferenza?
Infatti, con grande astio, accusa Mr Thornton di farle del male: non le importa che di sè.
Thornton le è tanto superiore che non solo non la odia ma umilmente comprende ed accetta la sofferenza. Se il suo amore non è ricambiato, esso non si muterà in odio, ma in sofferenza. Questa è la prova che il suo amore è vero.
Il momento di elevazione di Margaret lo abbiamo visto quando lei lo protegge.
Durante un attacco di una folla di operai inferociti, Margaret frappone il proprio corpo tra quello di Thornton ed i sassi che vengono scagliati verso di lui, rimanendo ferita. E' proprio questo evento che scatena la successiva presa di coscienza di Thornton, che scopre di amarla e che urge dichiararlo a lei.
Il vero atto di rivelazione, dunque, parte proprio da Margaret: questo ci fa sapere che lei è capace di andar oltre la razionalità e ci dà speranza per il futuro di questi due personaggi.
Mr Thornton e Miss Hale |
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