lunedì 31 ottobre 2011

Primo Movimento.



Evenfindr era giunto da molti anni in quella terra, una delle uniche nelle quali gli uomini riuscissero a vivere in pace, seppur semplicemente. In quella ferita aperta tra le alte montagne, un'alcova erbosa tra nodose braccia di foresta antica, l'uomo abitava tra le famiglie dei pastori, che da generazioni si tramandavano nomi, canzoni ed agnelli partoriti dai greggi degli antenati. Evenfindr era un erborista ed un cerusico e nessuno dei pastori gli aveva mai domandato per quale motivo avesse abbandonato le case di mattoni dai pavimenti più caldi e puliti delle città lontane, che nessuno di loro aveva mai visitato. Ed infatti, nessuno conosceva la storia di Evenfindr. Non parlandone mai, mangiando formaggio e bevendo latte a colazione, pranzo e cena, l'importanza dei suoi ricordi era andata assottigliandosi, fino a diventare la magra materia di qualche noioso sogno invernale. Nella tarda mattinata di quel giorno, che si prospettava assai privo di impegni per il medico del villaggio di pastori, Evenfindr si era attardato a lungo nel proprio letto per poi aggirarsi dolorante per la grande stanza che formava la sua casa. Soltanto a quella tarda ora l'uomo infine aveva aperto la porta e fatto entrare la luce carica di goccioline d'acqua e vapore. Quel giorno la foresta aveva esalato foschia ed invaso le strade silenti del villaggio con le sue esalazioni di foglie e muschio imbevuti di acqua mista a organismi.  Alzando lo sguardo verso le alte montagne che sovrastavano la piccola valle in cui si incastonava il villaggio, venne offerto alla sua vista uno spettacolo che gli parve unico. Emise un sospiro di sorpresa, che rimase sospeso a traballargli tra i denti integri, ed in piedi dietro al portico della sua casa cercò di fissare nella memoria quella visione.
Il nitido ed elevato profilo delle montagne si interrompeva al di sopra della linea dell’orizzonte, segnata dal seghettato ed oscuro profilo della foresta. Nascosti da una nube grigia e continua, un denso vapore dalla sommità piatta, gli alti dirupi apparivano separati dalla terra. La foschia era simile ad un lago infestato dalla nebbia, plumbeo come in un giorno invernale nel quale non si sappia distinguere tra il triste colore del cielo e delle acque, simili a distese di acciaio fuso che fluisca libero dalla stretta del metallo, in fuga dalla fucina di un fabbro.
Eppure, su quella distesa di grigiore d'aspetto semiliquido non vi era alcun riflesso: le montagne erano state semplicemente tagliate alla loro base e l’orgoglio millenario della pietra impediva loro di cedere alle lusinghe del vento che certo a quelle altezze girovagava, e di sventolare come bandiere, rimanendo infisse al cielo per la cima.
Evenfindr uscì dalla casa e si sedette di fronte ad essa, ancora rapito da quel panorama, appoggiò la fronte alla mano, lisciando tra le dita i capelli neri e spettinati, tagliati male, che ricadevano sul suo viso. Un leggero sorriso gli stava nascendo sulle labbra. 
Tutto attorno ad Evenfindr era calma: gli uomini erano lontani dalle case, rinchiusi nel silenzio delle gole proprio là, in alto, dove il vapore aveva creato quello specchio senza riflesso, a far concerti per i loro greggi di pecore.


“Mastro Evenfindr! Signore!”


Una voce di donna provenne dal retro della casa. 
Tutto il resto rimase inalterato, come se nulla fosse accaduto: l’aria, la brezza, che non era che un pallido simulacro del vento che addensava le nubi in lontananza, il debole sole contaminato dal grigio dell’umidità. Evenfindr si lasciò prendere dalla sensazione di esser stato a sua volta reciso dal terreno, come le montagne. Fluttuava a metri e metri da terra, perfettamente immobile, trasportato da un vento gentile che lo rispettava ed intendeva omaggiarlo con le sue danze. In basso non vedeva altro che il grigio calante dal cielo, un sipario di gocce minuscole che formavano un mosaico dai contorni confusi, il cui disegno avrebbe potuto essere riconosciuto non appena il sole si fosse affacciato ed avesse trafitto la bassa nube.
Un paio di mani strattonarono il medico e si avvinghiarono alla stoffa della sua manica, costringendolo a voltarsi ed a incontrare uno sguardo incorniciato da un volto rotondo, zigomi serrati al di sopra di una bocca spalancata.
“Mastro Evenfindr, venite subito!”
Evenfindr era tornato al mondo reale, si ricordò chi fosse, per quella gente: le sue mani erano le più morbide del villaggio, il suo tocco quello che risanava le ferite e pestava le erbe fino ad addomesticarle e costringerle a cedere l’anima per servire l’uomo. Si alzò e poggiò le dita sulle spalle della giovane, concedendole un sorriso che non le fece tuttavia mutare espressione.
“Cosa è successo?”
Inaspettatamente la ragazza lanciò un grido, allontanò bruscamente le mani dell'uomo e cercò di gridare ancora, ma le mancò la voce. Si gettò dunque in ginocchio e si lanciò in avanti per circondare le gambe del medico con un abbraccio. 
Evenfindr si spostò ma con eccessiva lentezza, forse ancora invaso dal torpore da cui si era fatto dominare per tutta la mattina, e se la trascinò dietro. Sentì cozzare la sua testa contro le ginocchia e percepì il fremito del petto, scosso da singhiozzi che si soffocavano a vicenda, trasmettendosi alle sue gambe e facendole tremare. Appoggiò una mano sul capo della ragazza e la spinse indietro, allontanandola in fretta, trattenendosi per non balbettare un'esclamazione stizzita. Detestava i moti che gli abitanti del villaggio gli riservavano. Era un uomo timido che amava la solitudine, li toccava soltanto per medicarli, ricucirli, a limite amputare i loro arti. Non riceveva con piacere i loro gesti di gratitudine o cordoglio, il contatto con le loro lacrime o il peso della loro testa su di una spalla.
“No, ti prego alzati…”
Quando si avvide che la giovane non intendeva staccarsi, Evenfindr dovette soffocare la voce in gola per non apparire eccessivamente irato, così la forzò ad allontanarsi dalle sue gambe e si inginocchiò per trovarsi alla sua altezza. Era completamente assorbita dallo sforzo di piangere.
La ragazza sbatté i pugni sul terreno, erano piccoli e bianchi e non si sporcarono né generarono alcun rumore. Lasciò ricadere in basso il busto ed il capo ed appoggiò la guancia all’erba, rivolgendo il volto rigato di lacrime ad Evenfindr.
“Signore, io dico da tutto il giorno che avremmo dovuto parlarne con voi, subito…”
L'uomo aggrottò la fronte, appoggiò una delle mani affusolate sulla nuca della giovane, facendola scivolare tra il collo e la terra, sospingendola dolcemente per farla alzare.
“Parlamene adesso.”
La ragazza seguì con il collo e con il corpo il movimento che le era imposto e rimase in ginocchio di fronte a lui. Le spalle sobbalzavano ad ogni singhiozzo, tra i quali si affrettava a porre le parole.
“Signore, ieri mattina mia sorella è morta.”
Evenfindr sentì la propria mano, a contatto con la guancia calda della giovane, divenire fredda. La ritirò lentamente, non riusciva a smuovere le dita. La depose sulla propria coscia, senza staccare gli occhi scuri dal volto della ragazza.
“Come è successo?”
Il pianto di lei si intensificò, tanto che la giovane dovette coprirsi il viso con le mani.
“Sono sicura che il peggio si sarebbe potuto evitare! Invece ha perso il bambino…”
Evenfindr si lasciò sfuggire un grugnito, chiuse velocemente le mani.
“Hai appena detto che è morta.”
Non lasciò il tempo alla montanara di rispondergli, ed aggiunse con tono asciutto.
“Capisco. Ha abortito ed in seguito è morta. L’avete lasciata morire dissanguata senza mandarmi a chiamare. Posso saperne il motivo?”
La ragazza portò con uno scatto le mani al terreno, per appoggiarsi. In quel momento pareva trattenere il terrore. Cessò i gemiti e parlò scandendo bene le parole.
“L’abbiamo trovata in un campo, in un lago di sangue. Delirava, sosteneva che il marito era stato sbranato, che le avevano portato via il suo bambino. L’abbiamo trasportata a casa e quando l'abbiamo deposta a letto è rimasta improvvisamente silenziosa. Dopo qualche ora è morta…”
Evenefindr non mosse un solo dito verso di lei. Gli sembrava che fosse diventata una statua di melma. La sua sola presenza lo disgustava.
“Chi le ha portato via il bambino?”
Non seppe perché lo aveva chiesto. In realtà, era convinto che la risposta a quella domanda fosse una soltanto. I suoi familiari le avevano portato via la creatura che aveva in grembo, la sua stessa vita. Per cosa? Superstizione, la vergogna, salvaguardia dell'onore in punto di morte... Aveva sperimentato in passato l'ira di qualche marito perché lui, medico e uomo, si era permesso di toccare sua moglie. Percepì le proprie guance che si arroventavano.
“I lupi.”
Evenfrindr quasi non udì la voce. Non si accorse che la giovane aveva parlato fino a quando non voltò gli occhi ed incontrò il suo sguardo. Il velo di lacrime si era estinto e la sua espressione era puntellata di piccole gemme luccicanti di terrore, che risplendevano sul fondo dei suoi occhi.
“Cosa hai detto?”
“Lei lo urlava! Urlava che i lupi che avevano portato via il bambino!”
Il suo tono divenne acuto e le sue parole si conclusero con un gemito soffocato. Evenfindr, ancora incapace di comprendere cosa fosse accaduto, scosse il capo. Che la giovane madre che era morta fosse stata aggredita e ferita da un branco di animali della foresta? I suoi ragionamenti furono interrotti dalle parole affrettate che la ragazza stava rivolgendogli, al colmo del terrore e con la massima accoratezza.
“E ora vogliono tagliarle la testa! Io non posso, devo fare qualcosa…voi dovete fermarli, sono terrorizzati!”
Evenefindr si alzò.
“Così vogliono seppellire la testa in qualche posto nascosto. Dove posso trovarli?”
La giovane agitò convulsamente le braccia, in preda all'esasperazione.
“No, non devono seppellirla! Mia sorella ha ripreso a parlare e muoversi, così loro hanno paura di lei e le vogliono tagliare la testa per liberare la casa dall'infestazione dei demoni che l'hanno uccisa!”
Evenfindr percepì che il suo respiro partiva in avanti verso il luogo a cui avrebbe dovuto correre con urgenza. Così, rimasto senza fiato, lo inseguì, dirigendosi verso la casa della famiglia a cui apparteneva la ragazza.


mercoledì 26 ottobre 2011

Un lupo ed un falco si trovarono per caso a conversare.


Un lupo ed un falco si trovarono per caso a conversare. Il volatile spendeva molte parole ed intanto passava il becco affilato sulle penne lisce, tinte di rosso dalla luce del tramonto, più per accarezzarle che per pulirle. 
Il lupo per lungo tempo non rispose ai suoi richiami, si limitava a muovere lentamente lo sguardo sul prato erboso, separato dal cielo da una sottile morbida linea, ed in questo loro movimento i suoi occhi per una o due volte incontrarono la figura del falco. Fu in uno di quei momenti che l’uccello si tirò su in tutta la sua altezza ed agitò le grandi ali sollevando la polvere e creando scompiglio su quel piccolo groviglio di sterpi sul quale si era adagiato per avvicinarsi al predatore terreno e conversare con lui.
“Bene, si può sapere se mi stai ascoltando, fratello dalle strane piume e dai denti affilati? E dunque, pensi di fare ancora a lungo l’altezzoso con questa testa levigata che viene dal cielo?"
Il lupo aprì la bocca e lasciò scivolare la lingua tra i denti, per poi appoggiarla sul labbro, tranquillamente sommossa dagli atti del suo respiro. 
Il suo ghigno silenzioso e profondo, simile a quello che aveva intravisto da vicino su facce umane, non fece che aumentare la stizza dell’uccello, che chiuse le ali e alzò il nobile profilo verso il cielo che tendeva ad imbrunire.
“Ebbene, che strano lupo ho incontrato atterrando, stasera. Non ti ritieni forse come tutti gli altri tuoi simili? Ti credi tanto superiore a me? Ah, pesante quadrupede. Io non conosco l'ignobile gravità che alla sera ti sfianca le zampe. Io per tutto il giorno mi libro nell’inconsistenza e nell’invisibilità dell’aere. Derubo della vita gli animali terreni, che inferiori cercano rifugio nelle tane, codardi per natura. Io non temo di vivere l’ebbrezza e raccolgo i frutti di questo mio coraggio. Ogni giorno che vivo è glorioso.”
Il lupo reclinò di lato il lungo capo, senza muovere le tonde pupille, che senza intensità ma con precisione mettevano a fuoco la piccola figura del rapace. Un tale delicato movimento sembrava esser stato suggerito dal vento, che timido aveva sospinto il predatore per poter andar oltre e continuare a pettinare l’erba dello spiazzo erboso.
“Tu credi, dunque, falco, di essermi superiore?”
L’uccello si innalzò per una seconda volta sulle grandi zampe artigliate, stringendo le sterpi secche tra le unghie nere, esultante. Era riuscito infine a destare l’attenzione del mezzadro con il quale condivideva il terreno di caccia che per lunghe giornate osservava a testa china, in volo. 
Annuì calorosamente, accompagnando quel gesto con un fischio ben calibrato, vocalico e squillante, rafforzando la sua convinzione con il nobile richiamo che contraddistingueva la sua specie. Rise poi, come ridono i falchi, soffiando un poco dalle rigide narici, socchiudendo gli enormi occhi e movendo la testa a destra e a sinistra. Con quel verso, doveva aver dato a tutti i conigli ritardatari che nel crepuscolo si dovevano aggirare ancora lì intorno un buon motivo per ritrovare velocemente la via della tana!
“Ti ritieni superiore per la forma del tuo corpo, che ti dona la capacità di librarti in alto, sopra la terra nella quale, è vero, a volte ci ripariamo?”
Il lupo interruppe le fantasticherie del falco a proposito dei conigli con il suo tono caldo e scavato. Il suo pelo biancastro, striato di grigio e nero, vibrava leggermente all’aria della sera, direzionato variamente dalle brezze ancora indecise se rendere fredda la notte. Ma a parte il pelo, che veniva mosso così dall'aria nervosa, ora quieta ora che fischiava acutamente, non si poteva dire che l’animale fosse animato da grande entusiasmo, interprete com’era di quell’instancabile immobilismo.
Il falco grattò il terreno, incapace invece a star fermo, mentre fissava con sguardo bieco e trionfante quel lupo dalle poche parole. Ne avrebbe demolito l’orgoglio e l’amor proprio.
“Superiore per la mia carne ed il mio scheletro leggero, sì! Per la mia capacità di gioire di me stesso per quello che so fare e concedermi a chiunque sappia apprezzarmi! Grande e glorioso è il destino per i compagni delle distese aeree, che sfidano le rocce di montagna con gli artigli! Ogni anno i nostri pochi piccoli divengono principi, nutriti del sangue dei cuccioli dai manti di pelo che si nascondono sotto il suolo! E poi, creatura dalle quattro zampe, conosci quel detto che sognanti le pecore bisbigliano, quando sui più alti pascoli si arrampicano, ed hanno la fortuna di intravederci mentre ci libriamo nel cielo? La bellezza è nell’occhio. Questo modo di esprimersi è un po’ da giovane pecora, ma sta a significare che la nostra condizione è anche quella d'esser belli. Che senso può avere la vita, senza la bellezza?”
E guardava il lupo, gonfiando il petto con discrezione, senza intender mostrar troppo che provava grande soddisfazione ad esprimere quei concetti.
Il lupo abbassò la schiena e si allungò, stirandosi e facendo ondulare la spina dorsale con un movimento fluido, mentre mostrava il grande rosso della sua bocca incoronata di denti al falco, con uno sbadiglio. Si stese poi, il muso appoggiato sulle zampe anteriori. Alzò gli occhi dunque verso il falco, ed iniziò a parlar sottovoce, tanto che essa venne coperta, in alcuni istanti, dal rumore sferzante ed istantaneo del volo di un pipistrello.
“Senti…tu dici che la bellezza è nell’occhio. Oppure sono le pecore a dirlo…ma comunque tu mi sembri d’accordo con loro. Ebbene questo concetto viene presentato a me e alla mia gente da quando sono nato, ci spregiano per il fango che appesantisce la nostra pelliccia, per le unghie spezzate e le cicatrici che ci fanno penzolare le sopracciglia. Quando non ero che un cucciolo, le critiche e i giudizi degli altri animali mi facevano scappare entro la tana, offeso nel profondo dell’animo. Desideravo di trasformarmi in una volpe o in un gallo cedrone, in un capriolo o in un gheppio. Quanto era difficile sentirsi liberi, allora. Non volevo essere lupo, se per sempre avessi dovuto rispondere a tali sollecitazioni per farmi strada nella foresta. Ma poi capii che un altro tipo di libertà era a disposizione: una libertà che deriva da una scoperta sulla realtà del mondo.”
Il falco, suo malgrado, dovette tacere. Di rado rimaneva ad ascoltare il vociare degli altri animali, che vivevano in basso, lontano dai nidi d’alta quota nei quali si riposava e faceva colazione. Quella confidenza così intima lo lasciò un poco stupefatto. Il lupo continuò.
“Cosa è mai un occhio senza la fermezza dell’occhio, senza la profondità e la saggezza? Se non ci fosse tradizione o legge che ci obbligasse, per velocizzare le nostre vite di predatori e prede, ad apprezzare alcune caratteristiche che in molti possiedono…verrebbe restituita ai saldi, ai coraggiosi, agli intelligenti, ai fedeli e a tutti coloro che possiedono un grande spirito il primato che hanno nella bellezza. Una bellezza che sta sotto il pelo. La bellezza di cui parli tu, è quella che rende tutti i fratelli animali dei fratelli soli.”
Mentre ancora parlava, il lupo girò le orecchie ed alzò il capo, annusò distrattamente l’aria. Aprì nuovamente la bocca mentre tornava a guardare il falco. Il sorriso del lupo non aveva niente di provocatorio nei confronti del silenzio del volatile.
Dopo qualche istante l'uccello si riscosse, sfregò un poco un orecchio sull’ala, prese la parola, ma con meno baldanza.
“Non avevo mai ascoltato parole simili. Eppure, credo di capire cosa tu intendi per spirito. Sai, è una cosa che ho conosciuto tra gli esseri umani. E’ mia abitudine spiarli. A volte, riesco ad arrivar loro molto vicino e per qualche minuto mi trattengo a studiarne le mosse originali. In un primo periodo mi nascondevo per osservarli quando erano occupati in passatempi chiassosi, stupidi scherzi e qualsiasi cosa facessero di appariscente. Per caso, ho colto alcuni di loro in  attimi della loro distrazione, quando in silenzio sembrano dormire ad occhi aperti. Dormivano sognando. In quel momento ho come loro sono veramente. Alcuni di loro. Ripieni di parole complesse che riescono a dire anche quando non emettono suono. Credo che sia questo che intendi quando parli di spirito, manto grigio.”
Il manto grigio del lupo sobbalzò ripetutamente mentre l’animale rideva con gentilezza, come ad approvare le parole appena pronunciate dal falco.
“Credo che tu abbia osservato bene gli esseri umani. Questo fa parte del loro grande mistero. Alcuni dei miei antenati fecero di quegli esseri il loro branco. Ma quelli, non sono più lupi. Quei nostri fratelli hanno fatto del pensiero dell’uomo il loro. Fanno la guardia alle pecore e giocano con i cuccioli umani, si dimenticano dei loro simili. Noi, siamo lupi. I nostri pensieri sono solo nostri. Di ciascun lupo. Non sentirai mai un lupo confessare quello che sente mentre viene sorpreso in una trappola o viene trascinato al macello. Il silenzio è il miglior modo per andarsene.”
“Una volta ho ascoltato una storia, una delle poche, a proposito di un lupo del secolo scorso che si lasciò morire dopo che la sua compagna era stata uccisa da un uomo. E' davvero possibile una cosa del genere?”
Era una domanda che sorse spontanea ed improvvisa al falco, visto il parallelo che era sorto con gli esseri umani. Il lupo chiuse gli occhi, o forse li abbassò soltanto. Il blu del crepuscolo aveva imbevuto ogni cosa, tranne il bianco latteo del globo lunare che si era reso evidente nel cielo.
“Quando la mia lupa chiama il mio nome, io odo i rumori del mondo. Riconosco la voce della madre Terra. Quando lei pronuncia il mio nome, allora so di essere giunto in un luogo dove non esiste solo la mia voce. Quando lei mi chiama con la voce dell’amore.”
Il falco fece grandi i suoi occhi, stupito.
“Perché, lupo, tu hai un nome?”
L’animale annuì, mentre si lasciava andare disteso su un fianco.
“Sì.”
“E qual è?”
“Perduto.”
La sorpresa del falco aumentò.
“Ma che razza di nome è?”
“E’ un bel nome. All’interno del mio nome sta la ricerca ed infine il ricongiungimento. E’ un bel nome e mi rende felice."
“Devo andare, Perduto. L’ora è già tarda.”
Perduto annuì, ma si fece serio. 
"Stai attento, falco ben leggero. Io conosco il fango, vi ho camminato e so vestirmi di pensieri colorati per togliermelo di dosso. Ma tu, se un giorno precipitassi in un pantano, come ti libereresti da quelle libbre che intrappolerebbero le tue piume?"
"Chiamerei i lupi. Ma chissà, forse loro non mi aiuterebbero. Forse mi divorerebbero."
"Così piccolo. Sarebbe un pasto ben misero. Sarebbe uccidere per cattiveria. Non si fa."
Il lupo Perduto rimase per un attimo immobile, quindi uggiolò e si protese le zampe verso l’uccello, abbassando le orecchie triangolari.
“Dimmi, non ti sarai offeso per le cose che ho detto? Non sentir intaccato il tuo orgoglio. Saper volare tanto in alto è meraviglioso. A volte sogno di saper volare. Muovo le zampe e cammino lassù, nell’azzurro, appena sotto le nuvole.”
“Vedi, sai anche volare.”
Il lupo tacque, mentre il falco si allontanava allungando qualche passo impacciato con le corte e grandi zampe.
“Non so volare. Ma…forse un giorno lo farò.”
Il falco ridacchiò. Desiderava allontanarsi dal lupo e finire quella conversazione, tuttavia non si sentiva appesantito dalle parole che erano state spese. Il lupo gli aveva mostrato aspetti della sua specie che non conosceva, avrebbe potuto rifletterci sopra. 
Sbatté le ali, con la solita forza della giovane età. Spingendo con le zampe si alzò un poco, si trattenne a quella piccola altezza, aumentò la forza. A poco a poco si confuse con il cielo nero. Quando fu scomparso dalla vista, il lupo Perduto alzò la testa verso il cielo e produsse un lungo ululato, al quale rispose il falco con un richiamo squillante. 
Così si salutarono, dopo il lungo dialogo avvenuto sulla terra, il lupo Perduto ed il falco.
Perduto attese il ritorno della propria compagna, con la quale si era dato appuntamento per la notte nella radura erbosa nascosta dalle lunghe braccia degli alberi del bosco di montagna. Quando la compagna di Perduto giunse a lui, i due si salutarono e passarono un po’ di tempo a rotolarsi sull’erba, esorcizzando con i giochi leggeri la lunga attesa che li aveva separati . 
Il falco, su in aria, di nuovo nella dimensione dell’ebbrezza e del dominio del corpo, presto si dimenticò delle parole che aveva scambiato con il lupo. 
Ma questo non vuol dire che, per un qualche motivo, non potrebbe non ricordarsene in seguito. Magari al prossimo incontro, che avverrà nell’aria, quando il lupo Perduto imparerà a volare.


domenica 11 settembre 2011

11/09, il giorno di chi piange insieme.




"Polvere, poussière, pluhur, غبار, pöly, hokori, dhūla, skóni, støv, poeira, pyl’, prašina, praina, polvo, fùn laxxng, Staub, toz, por, dust."
Un semplice eppure molteplice significato, molte sfaccettature fonetiche. Non è strano che ci si stupisca della similitudine tra alcune parole nelle diverse lingue (in fondo, le lingue sono fatte per parlare tra di noi), ed invece passi inosservato quando alcune riflettano un certo grado di incomunicabilità. 
La polvere ha molti volti, si posa inesorabile sui nostri scaffali ed i nostri libri, appesantisce i tappeti che appisolati nei salotti sognano di voli su deserti e pagode, trasportata dal vento ci fa bruciare gli occhi, inosservata incrosta i vetri, è la timida vestale del tempo. Infine, ci ricorda delle infinite vite che sono finite e non abbiamo vissuto, essendo ciò che rimane e si volatilizza dei nostri compianti morti. 
Oggi alla televisione hanno passato in rassegna le drammatiche immagini dell'attentato e del crollo delle torri gemelle di New York, avvenuti l'undici settembre di dieci anni fa, ed il frammento che più degli altri mi ha toccato è stato quello che ritraeva quell'onda di polvere, densa e grigia, che ha invaso le strade in una corsa tremenda, rendendo cieca e satura l'intera isola di Manhattan. Le persone fuggivano piangendo da quella nuvola ardente, qualcuno continuava a guardarsi le spalle, incredulo, mentre le torri sparivano sotto quella coltre, altri si fermavano e si accucciavano a terra, in attesa di venir sepolti. Ho visto una donna di colore, che tappandosi la bocca con un fazzoletto di carta correva, inseguita dal denso grigio, le grandi guance increspate in un'espressione di terrore e disperazione. Indosso aveva una camicetta rosa acceso, un paio di jeans carini ed attillati. Mentre andava, ondeggiando come una signora in ritardo che deve fare i conti con i suoi tacchi, propendeva una mano lateralmente, le dita erano mollemente raccolte a pugno, come se fino a pochi secondi prima avesse stretto in quella una borsetta. Eccola, l'America, eccoci tutti noi, che ci commuoviamo a rivedere quelle immagini che allora sul momento non sapemmo interpretare, che corriamo inseguiti dal crollo dei nostri uffici, dall'uragano che inghiotte la terra, dall'eruzione del Vesuvio, ignoranti, ignoranti e vestiti con le camice del buon'umore, comprate con l'inconsapevolezza di classi medie e ricche.
Dove siamo, dove viviamo? In mille città diverse, nelle quali si parla una babele di lingue, viviamo facendo i conti con migliaia di valute ed esprimiamo desideri conformi alla nostra condizione economica e sociale. Ed eccola lì, la polvere, l'immensa nube che ci inghiotte e non ci uccide, che ci ricopre facendo apparire tutte le nostre camice, le nostre scarpe e la nostra pelle del medesimo colore. 
Da quel giorno, il nostro mondo è stato invaso da una nebbia fitta, che io credo si sia solo in parte diradata. In questo lasso di tempo di dieci anni, abbiamo imparato a vedere con gli occhi impastati di polvere, abbiamo capito come riconoscere le ombre che si aggirano quando non si vede bene, siamo riusciti a scovare il senso che va oltre quei vestiti imbiancati dalle macerie della tragedia?
Ebbene continuiamo a piangere ed ad innamorarci del nostro dolore, ma per favore non fermiamoci qua. Ricostruiamo e se a New York vogliamo lasciare un cimitero, in memoriam, rechiamoci altrove e costruiamo. Non croci, non lapidi. Se è vero che la morte è il male, comportiamoci altrimenti. Sarebbe forse l'evoluzione più giusta e naturale per una vecchio e martoriato popolo come quello occidentale. 
Onore e ricordo dei nostri morti.
Auguri a noi, che continuiamo questa vita. L'augurio perché mai sia sciocca.


domenica 4 settembre 2011

Vagheggiando ricordi d'infanzia e rapporti sfumati in giornate particolari.


Ho voglia di camminare in un bosco con il fumo delle favole, scambiare le zanzare per fate grigie, percepire il prepotente rumore delle scarpe che calpestano il fango.
Voglio tornare ai lidi del pensiero semplice, dove l’acqua del porto profuma di borotalco e shampoo Johnson&Johnson, tutti sorridono e ti aiutano con pazienza ad ogni passo.
Voglio tornare bambina, per una sera, sarebbe a dire per un momento (così poco durano queste sere che precedono gli esami), snidare la paura che la maturità ha cancellato (forse) e tremare all’avvicinarsi delle undici di giorno feriale, quando i miei genitori sarebbero andati a letto e nella casa sarebbe calato il silenzio.
Voglio tornare piccola tonda e rossiccia, sporca di pennarello e luccicante di bava, ebbra di tutti quei pensieri che anziché accumularsi in serie demoniache si sarebbero dissolti per un incantesimo della memoria a breve termine.
Vorrei tornare a pensare come quando ero bambina, per un attimo, come quando tu mi piacevi, nonno.
Ora tu sei morto, hanno messo in una scatola quella bambola brutta e bassa (non si tratta di un uomo, nessuno che ti vedesse lo potrebbe sinceramente pensare) ed io cerco di ricordare cosa di me a quel tempo risvegliava il tuo interesse e cosa di te teneva vivo il mio.
Venivo a trovarti nella vostra casa in campagna, ero piccola, mio fratello non era ancora nato o non era che un neonato o un nano malefico.
La vostra casa era il luogo dello spazio: quello vero, materiale, del grande. Correvo e mi sembrava di arrivare lontano quando mi lasciavo cadere sulla rete di separazione tra i campi che si piegava sotto il mio peso, un pochino.
Era il luogo del tempo, quello d’estate eterno e caldo, pieno di zanzare e rumore di cicale, delle lunghe giornate grigie, invernali, passate a guardare tutto ciò che la pioggia bagnava fuori della finestra, seduta a gambe incrociate sopra l’acquaio, dove mi posizionava la nonna dopo avermi preso in braccio per farmi vedere i puffi che teneva in alto, su una mensola.
Era il luogo dei compleanni e dei cugini. Delle zucche e delle torte. Dei tortelli in fila su una tavola di legno infarinata. Della sedia a dondolo nell’ingresso silenzioso, tra lo studio e il salotto buono, delle finestre con l’inferriata del seminterrato, che s’intravedeva dietro le rose e da cui spiavo abitanti fatati. Della capanna immaginaria tra le piante di lato alla casa che si chiudevano sopra la mia testa, delle foglie secche del cipresso che facevano un pavimento morbidissimo, del pendolo nella penombra che suonava e della grande sveglia rossa che non squillava mai, per quanto aspettassi.
Oh, nonno. Cosa è successo a tutte queste cose?
Sono ancora lì, una per una, ad esclusione dell’orto, che una volta era lo specchio della tua precisione, adesso tra le erbacce celebrano baccanali i piccoli scorpioni che mi facevano tanta paura.
Non le ho più viste, tutte quelle cose. Eppure, avrei voluto. Sono una accanita collazionatrice di visioni di cose, non avrei per niente al mondo disdegnato le tue, quelle che tu e la nonna avevate posizionato dove vi piaceva. Invece quanto più la vita è andata avanti tanto più voi e le vostre cose sono sparite. Io le ho salvate perché ho buona memoria. 

Ho continuato a giocare nel tuo giardino per molti anni, eppure nessuno di voi mi ha più chiesto di spiegare il mio gioco, dal momento che sono stata più alta di un metro.
Ho riflettuto a lungo su questo punto, caro nonno, cari nonni.
Ho ipotizzato: sarà che con il tempo le memorie sono diventate talmente tante e talmente ingombranti che non hanno lasciato spazio alla voglia di conoscere le persone nuove, quelle appena nate o che stavano crescendo. Ma è davvero così? Forse nonno, tu hai avuto interesse per la bambina finché ha avuto l’aspetto di una bambina, poi non hai saputo immaginare che la bambina fosse ancora lì vicino ma sotto l’aspetto di una adulta. Credo che tu abbia un po’ spersonificato le persone che ti erano intorno, nonno.
Non so cosa rispondermi. Ho pensato a te e sono arrivata qui, ma ora mi sono persa. Come una bambina piccola, sulle strade senza macchine attorno a casa quando i cugini più grandi hanno corso più forte. Dico che la vostra casa è uno dei luoghi dei ricordi antichi ed impossibili, quelli che non so ricollocare storicamente. In cui si aggirano persone che un tempo mi davano baci e che adesso non mi riconoscono per strada. Alcuni sono anziani, alcuni sono giovani. Vedi, nonno, che alla fine questo che è successo alla nostra storia non è stato perché eri vecchio. 

Ho lumacato come un farfallone. Volevo parlare di un nonno e alla fine ho parlato di me stessa. Ciò mi lascia un po' interdetta ma...ci crediamo a noi stessi, quando diciamo che succede questo perché queste persone hanno contribuito alla nostra formazione? Oppure siamo spietati e riconosciamo di star cercando una giustificazione? Voglio crederci stasera, sono una credulona. 

lunedì 13 giugno 2011

Il coraggio di essere Donne.

Ripensando alla mia adolescenza, credo che il conflitto con la mia femminilità sIa stato uno dei più importanti della mia vita. Più pesante dello scontro con il padre e con la madre, più rischioso del confronto con il sesso maschile, più invalidante dell'incontro con l'alcool. Non ne avevo una piena coscienza allora, eppure ho capito adesso che è stata una lotta di sofferenza sostenuta da me contro la femminilità e dalla femminilità contro di me. Ancora adesso, percepisco i limiti che la femminilità pone allo sviluppo del pensiero.
Ma lasciatemi spiegare. Non è più di moda essere femministe. Ma io di queste cose voglio davvero parlare. Non come femminista...ma come essere umano.

C'è una certa pulsione al comportarsi come oggetti in tutte le donne. Una certa tendenza alla passività, alla reificazione (dal latino res, rei = cosa della propria persona). Questo perché il corpo della donna funziona come una sorta di talismano. E' qualcosa di terribile abitare dentro ad un corpo che emana un'aura del genere e non ti risponde a seconda di cosa vuoi o non vuoi fare.
Comunque, partiamo dalla bellezza. Quella esteriore, del corpo. La bellezza delle forme, degli occhi, delle ciglia, dei capelli, dei colori, dei vestiti. La bellezza è donna. Si potrebbe quasi dire che la donna è la bellezza. Se la si guarda da lontano, senza farla parlare, la donna potrebbe sembrare quasi un abito. La donna indossa il proprio corpo nel modo migliore e ne fa il suo principale mezzo di espressione. Quante volte si ha l'impressione di non dover chiedere nulla alla donna, perché ella sembra esprimere tutto ciò che vuole con il suo abito, il suo trucco, il so sguardo. Il suo parlare, se avviene, è di circostanza, non lascia intendere niente di più significativo di quanto non dica il suo corpo, il suo abito. Da questo punto di vista, la donna vive d'esteriorità. E come donna, non lo posso negare. Perché ho vissuto un doloroso conflitto con questo: per molti anni, il mio fisico se ne è rimasto muto. Si trattava di un linguaggio di cui non ero a conoscenza ed ogni mio tentativo risultava goffo e stonato. Per anni interminabili, il canale che io avrei voluto sfruttare, quello della parola e della ragione, quando veniva da me espresso, scorreva come acqua piovana e lasciava un alone invisibile, che asciugava in tempi brevissimi. Tutti coloro con cui tentavo la relazione non ascoltavano la mia voce pensante, ma mi GUARDAVANO. E non vedevano niente. Adesso mi spiego quei "Sei così noiosa" che allora mi lasciavano di stucco: parlavo per ore di cose insolite ed interessanti, esprimendomi con intelligenza e carisma, come mi veniva naturale...ed alla conclusione della conversazione, noia nell'interlocutore, che pure era intervenuto nello scambio di idee con voracità.

Ci sono voluti anni perché io comprendessi questo meccanismo. Se fossi stata un uomo, credo che questo non sarebbe accaduto. (Preciso: non sarebbe andata così, cioè sarebbe andata in modo diverso. Non migliore, non più facile. Naturalmente non nego che anche gli uomini "diversi" trovino difficoltà d'espressione: ogni uomo deve confrontarsi con le aspettative che si hanno sul genere maschile, la mascolinità, il vocione, la barba folta al grado giusto, l'ostentata sicurezza eccetera. Ritengo che però i criteri di "giustezza" per un maschio siano più sfumati e meno direttamente connessi con il suo modo di confezionare l'aspetto fisico e tangibile. Questo non rende le cose più facili per i maschi. Ma qui si divaga.)
Come ho detto all'inizio, questa è soltanto una e parziale stranezza tra le anomalie della mia adolescenza, ed ha fatto da spartiacque tra me e la maggior parte delle mie coetanee.
A causa di queste esperienze (e di molte altre) c'è stata una consistente anomalia nella mia espressività: non che fosse vacante, ma era poco bilanciata, rosa dal desiderio di riuscire, come le altre, a farsi accettare per quella che ero. Il problema reale è che non sarei mai riuscita nel loro modo, perché io ero, sono, molto diversa.

Ma perché? Quale è il motivo per cui ci sono donne così e donne cosà? Perché c'è una massa di braccia, gambe e seni di Monica Bellucci che girano per le strade, e tra queste a volte emergono donne diverse? Donne che lottano strenuamente, contro tutti i loro interessi apparenti, per essere riconosciute per la loro mente e la loro espressione consapevole e razionale. (Chiariamo, le donne diverse sono belle. Ma è una bellezza diversa. Noti la loro bellezza quando hai assaggiato la loro interiorità. Prima, è come se il loro culo e le loro tette non esistessero.)

Torniamo alla domanda che mi sono posta. Quando è che una donna diventa cosà invece che così? Si tratta di donne dotate di una maggiore intelligenza, di una maggiore istruzione? Di donne nate con un gene erroneamente conformato? Si tratta solo di questo? Me lo sono chiesto davvero.
Come risposta, mi è apparsa nella mente la figura di Jane Eyre.
Eroina letteraria del romanzo omonimo, Jane Eyre, di Charlotte Bronte.
Charlotte era figlia di un pastore anglicano della periferica Inghilterra delle brughiere con una densità abitativa di 0.5 persone/100 km...non si può dire che nelle sua vita abbia avuto la possibilità di studiare o affacciarsi sul mondo esterno. Eppure, in quella sua eroina ha fatto fluire questa sottile, inosservata verità.

Jane Eyre è orfana, i suoi genitori si sono sposati per amore e per questo erano stati diseredati. Così, Jane non ha niente: nessuna dote, nessuna casa, nessuna amicizia. Viene tenuta in casa da una ricca e perfida zia che ha promesso di occuparsi di lei al marito, morto da molti anni. Nella grande casa Jane è trattata come una fastidiosa e strana bambina, viene tormentata dai cugini coetanei e nessuno la difende o si avvicina a lei. Infine la gelida zia decide di spedirla in un collegio religioso per ragazze indigenti-barra-indesiderate. In questo luogo Jane lotta contro mille angherie ed infine riesce ad affrancarsene, avendo acquisito un'istruzione, trovando lavoro come istitutrice, cioè insegnante privata. Jane parte ma è molto diversa da come era da bambina, almeno apparentemente. La sua ribellione l'ha fatta divenire rigida, non si concede alcuna morbidezza né fronzolo, ma questo non vuol dire che sia chiusa. Nella grande casa dove ha trovato lavoro non ha paura di voler bene alla bambina che le è stata affidata, una figlia illegittima tenuta nascosta alla buona società, non teme di mostrare la sua opinione indipendente agli intendenti e alla servitù, perfino al padrone. Questo è nettamente in contrasto con il suo aspetto, con il suo modo di presentarsi. Quando il nobile padrone della casa cade da cavallo su una strada deserta, oppure rischia la vita a causa di un incendio appiccato nella propria stanza mentre dorme, Jane lo aiuta gratuitamente, fregandosene di tutte le convenzioni e di tutto quello di cui ci si potrebbe aspettare da una come lei, una specie di pallida madonnina che non cura la propria pettinatura ed indossa sempre lo stesso vestito.
Riuscite a cogliere l'incredibile contraddizione che vive in questa creaturina, in questa Jane Eyre?


Eccola. E' piccolina, è pallida, è brutta, è povera, è rigida, paurosa, non invita a farsi toccare, a farsi guardare. Ma è intensamente presente tra le persone che le sono intorno. Ha opinioni forti, che esprime in modo intelligente, ha una fervida fantasia, un indomito coraggio. Si innamora del padrone, il signor Rochester, e sopporta ma non soffoca il dolore che nasce dal suo trattamento nei suoi confronti. E quando lui mostra curiosità per questa donna così diversa, non soggiace e non accetta con passività il suo interesse, ma ribatte, con forza, facendo brillare la propria anima.
E poi...e poi...e poi tutto finisce bene, nel modo più difficile possibile, naturalmente. 
Dopo questo breve ritratto, torniamo alla domanda. Come nascono le donne così?
Torniamo all'elemento più primitivo che caratterizza la Jane bambina, quando già viveva in una mondo a lei ostile: la sua caratteristica fondamentale è quella della fantasia. 
Jane si isola, non cerca i cugini che non fanno altro che tormentarla, preferisce stare da sola. In questo modo impara ad aver rispetto per sé stessa ma...come ci riesce? Cosa rende capace una donna di distaccarsi da quel suo talismanico bisogno di approvazione, di esser guardata e toccata...cosa? Io la chiamo fantasia. 
Jane riesce a stare da sola e a conservarsi libera ed intelligente grazie alla propria fantasia, alla propria mentalità aperta, proiettata verso il futuro, il Bene, l'Oltre. Sto parlando di quella capacità fantastica che sta alla pari della logica
Grazie alla fantasia legge ed immagina scenari fantastici, disegna, vaga per la campagna in compagnia di pensieri...ma non è nemmeno la fantasia a sé stante a metterla sulla strada della giustizia e del coraggio. 
E' il VALORE dato alla fantasia. Molti ritengono la fantasia e tutto ciò che ne consegue un valore da nulla. La fantasia non ti fa diventare medico, non ti fa trovare un bel marito, non ti fa arrivare lontano. Ed invece, io credo che il mezzo attraverso il quale Jane sopravvive come "donna cosà" è proprio il valore che lei dà alla propria fantasia. Le permette di andare oltre, di sentirsi parte di qualcosa di meno meschino e soffocante di questa schifosa razza umana, che ti getta addosso il suo egoismo liquidandoti con un finché non tocca a me.
La Fantasia di Jane Eyre è un qualcosa di quasi mistico, è il senso di compartecipazione ad una grande creatura invisibile che pervade il mondo e che respira. Va oltre l'egoismo. Chi ha bisogno di auto-compiacersi quando puoi vedere, stupirti e gioire delle bollicine d'acqua che sgorgano da sotto le foglie un po' marce appiccicate sul terreno dopo che ha piovuto. 
Le donne possono andare oltre alla propria femminilità grazie a questo. Di sicuro ci saranno altri modi, io conosco questo. Vorrei che altre donne me ne facessero conoscere altri :)
Vedi che le donne possono graffiare e spezzare le mura della storia e dell'evoluzione ed irrompere nel campo mentale di chi hanno attorno con una grande, intensa ed irresistibile complessità. 
Ho detto la propria femminilità. Ma questa femminilità, mie care, siamo proprio sicure che sia nostra? Ce lo siamo messe da sole questo abito, oppure ci è stato cucito addosso assieme a tutta l'importanza di cui qualcuno lo infarcisce per tenerci sotto controllo? Ho letto qualche tempo fa che l'invenzione della bellezza è stato il modo attraverso il quale l'uomo ha sempre dominato intellettualmente la donna, attraverso i secoli. Beh non mi trovo poi così in disaccordo. 
Ricordiamoci di Jane Eyre, uomini e donne. Qualcuno lo vede come uno stupido libro vittoriano che racconta di una maestrina noiosa che si innamora di fascinoso lord Qualunque. Ma non è così. Jane è una combattente per l'affermazione di una donna vera, migliore. E se io fossi un uomo, sarebbe quella donna che io desidererei ardentemente. 

Voglio concludere riportando un passo del libro, che non ha bisogno di commento per il proprio significato. In questo passo, dal capitolo 23, il padrone, il signor Rochester, cerca di capire i sentimenti di Jane provocandola e mettendola a dura prova (le fa credere di star per sposare un'altra), avendo in mente di farle confessare il suo amore. Ma lei gli dà una risposta inaspettata e meravigliosa, di fronte alla quale è lui a cedere.

"Pensate che io sia un automa? Una macchina senza sentimenti?...Pensate, siccome sono povera, oscura, comune ed insignificante che sia senza anima e cuore? Vi sbagliate, ho tanto spirito quanto voi, e sono ugualmente ripiena di sentimento...Non vi parlo adesso attraverso l'intermediazione dei costumi, delle convenzionalità, nemmeno della carne mortale; è la mia anima che si rivolge alla vostra anima; proprio come se entrambi fossimo passati attraverso la tomba, e ci trovassimo ai piedi di dio, uguali, come siamo."

Questo dice Jane/Charlotte nel 1847. 
E' pensando a parole come queste che a volte, lo ammetto, mi sento la persona più forte del mondo. 

Chiudo. Scusate ancora una volta la confusione, l'ingarbugliarsi delle frasi che mano a mano si trasforma in concitazione. Arrivederci. 

PS: Leggete Jane Eyre. Oppure guardate il film. Non quello del 2006 della BBC, non c'entra niente con il libro. Guardate quello del 1996 con Charlotte Gainsbourg. 


Riporto il passo del capitolo 23 in inglese: 
"Do you think I am an automaton? ­ a machine without feelings?...Do you think, because I am poor, obscure, plain, and little, I am soulless and heartless? You think wrong — I have as much soul as you, — and full as much heart...I am not talking to you now through the medium of custom, conventionalities, nor even of mortal flesh; — it is my spirit that addresses your spirit; just as if both had passed through the grave, and we stood at God's feet, equal, — as we are." 




venerdì 20 maggio 2011

Abitudine.

Quanto è difficile vivere in un mondo nel quale uno dei valori più forti è quello dell'abitudine. Con valore intendo un concetto nel quale le persone credono strenuamente e che proiettano nel mondo intorno a loro, nella propria vita, nella vita degli altri. Ecco io ho elaborato un semplice pensiero, un ragionamento.
Nel nostro mondo di uomini dalla vita lunga, possiamo attardarci in attesa della morte per circa novant'anni. Io mi chiedo, è davvero possibile abituarsi a qualcosa in miseri novanta anni?
Sono così pochi per abituarsi alle giornate che nascono e declinano nella loro infinita variabilità, alle stoviglie su cui scivolano gocce diverse, che a volte ci scivolano tra le mani e si frantumano in mille cocci che nessuno potrà mai classificare, alle persone, che evolvono e regrediscono, che ridono e piangono, che subiscono mutamenti del carattere e del fisico, che reagiscono in modo dolce e conosciuto od imprevedibile. A coloro che ci amano, ci odiano o ci ritengono insignificanti, a coloro che cambiano opinione nei nostri confronti, a chi va dal medico o chi disprezza le medicine, che scambia con noi poche parole sull'autobus e viene immediatamente dimenticato, agli sconosciuti che si trovano con noi per caso e ci rimangono impressi per quello sguardo o quella parola, ai volti casuali che rimangono impressi nelle nostre fotografie quando ritraevamo qualcos'altro che ritenevamo immutabile e fissabile su pellicola.
Io non credo che ci si possa mai abituare e annoiare di tutto questo.
Non fraintendete...sono il tipo di persona che cerca di attuare un cambiamento di se stessa in base alle proprie scoperte. Ma è proprio questo il punto. Vivendo così, non posso dire quella bugia a me stessa, non posso dirmi: questa è abitudine.
Credo che l'abitudine di cui molti parlano sia piuttosto un limite alla nostra mentalità. Quando si decide di calare una tenda su quella parte ricca di mutamenti, perché in fondo non ci interessa. Allora sì, se è così, chiamiamola pure abitudine. Ma allora siate sinceri, e non raccontate che rinunciate a quella parte della vostra vita perché legata solamente ad abitudine. Dite che lo fate perché perseguite l'abitudine, e rinunciate a coltivare, osservare, ascoltare ed amare un essere o una situazione in virtù dei suoi cambiamenti.
Ancora una volta in effetti, credo che la realtà sia il contrario di quello che la massa sostiene.
Se questa è follia, e mi sia provato, io non ho mai scritto, e nessuno ha mai amato.

giovedì 12 maggio 2011

Siete prodotti.

Film prodotti da qualcuno per i quali non vale la pena andare al cinema. Cd prodotti da qualcuno che non vale la pena di ascoltare. Prodotti prodotti da qualcuno che non comprerei al supermercato. Eppure siete umani ed il buon Dio vi ha dato la faccia per sorridere e qualcuno vi compra e circolate per il mondo.
Ma rimarrete pur sempre dei prodotti. Perchè vi sentite liberi dagli scaffali soltanto perchè qualcuno vi ha preso tra le mani come una scatola di fagioli e vi ha comprato.

sabato 30 aprile 2011

Perché trucco i miei occhi?

Le mie mani hanno sorriso dallo specchio mentre con ritmo conosciuto le dita delineavano linee nere.
Continuo a truccarmi per ricordare da dove provengo.
Ho cominciato a truccarmi da ragazzina perché sentivo dentro me l’anima zingara di una danzatrice.
Ballavo, goffamente sulle piazze delle parole quotidiane, facevo piangere le ombre con le mie gambe tese nelle notti solitarie.
Ma adesso…adesso, perché continuo a truccarmi? E’ così difficile indagare in me stessa perché quel contorno nero è un mistico segno di appartenenza, il marchio ricevuto da quella tribù di indiani sui quali inventavo storie da bambina.






mercoledì 27 aprile 2011

Lady Gaga ed il terzo genere.

Non so se avrò le capacità per esprimere la mia idea su questo argomento in forma scritta. Vabbé, io ci provo. 
Ultimamente ho riflettuto su un tema che mi turba profondamente e sono giunta ad alcune risposte, spinta soprattutto dalla voglia di tranquillizzarmi. Sotto quale punto di vista? Dal punto di vista del mio essere donna, soprattutto. 
Voglio partire, in questa riflessione, da un simulacro umano la cui rilevanza a livello sociale e culturale nella nostra generazione non può essere ignorato: Lady Gaga. Non voglio parlare di lei come artista, sinceramente trovo che la sua rilevanza e la sua genialità siano molto più importanti sotto una luce che va ben oltre. Lady Gaga sta parlando alla nostra generazione in termini molto chiari ed ha avuto l'estremo genio di toccare alcune delle corde più tese, intime della nostra generazione. L'ipersessualità della nostra società ci espone durante l'adolescenza a domande ed offerte per le quali siamo psicologicamente molto immaturi. Da adolescenti, ci sentiamo costretti ad imparare un linguaggio che ci fa sentire inadeguati. Ricordo quando, tra i 16 ed i 17 anni, mi ritenevo brutta ed indesiderabile, provavo ansia e prostrazione all'idea di uscire con un ragazzo, mi abbrutivo nel vestiario nel disperato tentativo di non attirare l'attenzione. In quel periodo, mi confrontai con la mia incapacità di provare eccitazione quando un ragazzo mi abbracciava in una discoteca, oppure mi infilava la lingua in bocca su una spiaggia. Convissi a lungo con la convinzione di essere in realtà lesbica, oppure frigida. Adesso, all'età di 22 anni e molte ere psicologiche che sono passate, riguardo le mie foto: ero bella, slanciata, con un bel sorriso. Non riesco a trovare nessun particolare in quel viso che potesse spiegare quella percezione che avevo di me stessa. Avendo poi conosciuto il sesso in modo più naturale, perfettamente in linea con i miei valori sono infine crollate tutte le mie paure sull'assenza del mio punto G. 
Tutto questo per arrivare a capire la risposta che Lady Gaga propone agli adolescenti o ai giovani che stanno uscendo o sono usciti da pochi anni dall'adolescenza e sono rimasti irrisolti da questo punto di vista: 


I'm beautiful in my way'cause god makes no mistakes 
I'm on the right track baby 
I was born this way 
Don't hide yourself in regret 
Just love yourself and you're set 
I'm on the right track baby 
I was born this way 



(Sono bella nel mio modo di essere perché Dio non fa errori
Sono sulla strada giusta piccola
Sono nata così
Non ti nascondere nel rimpianto
Ama te stesso ed il gioco è fatto
Sono sulla strada giusta piccola
Sono nata così)


Ad una prima lettura, questo testo sembra un inno alla libertà. Eppure, questo non è un sonetto da leggere, riportato su un libro di scuola. E' una canzone molto accattivante dai ritmi pop associata ad un video mostruoso, nel senso che raffigura di mostri. Nel video, Lady Gaga è un dio femmina dall'aspetto mostruoso e sublime al contempo che continuamente partorisce omuncoli. Ad un certo punto viene rappresentata la scena del parto del demonio: la dea soffre, ed infine dà alla luce una bellissima Lady Gaga, che inizia a cantare questa canzone, Born My Way. Lady Gaga, nelle vesti di una creatura che si percepisce demonizzata da ciò che la circonda, afferma che va bene così, che è nata così, che amando sé stessa e riconoscendo la propria bellezza andrà tutto bene. Questa filosofia, completa del suo mostruoso cofanetto dal quale a parer mio non può essere separata, ha ricevuto un'approvazione, un consenso ed un successo che hanno reso questa cantante l'ispiratrice di una sorta di filosofia. I seguaci hanno preso alla lettera il suo modello ed ovunque nel mondo occidentale reagiscono a questa società che li fa sentire reietti attraverso lo sfogo della bellezza. Foto, photo-shop, book in stile alta moda, serate, trucco, vestiti stravaganti, vanto della eccentricità e della perversione. Ribadisco, questo senso di insoddisfazione per il mancato sfogo della propria bellezza, è una cosa che ho provato anche io: ritengo che Lady Gaga abbia colto perfettamente questo disagio proprio della mia generazione, e per questo è stata premiata da tutti i suoi miliardi. 
Veniamo ai "seguaci": li sto osservando ormai da qualche tempo. 
Sono donne, uomini, ma soprattutto uomini. Sono gay, etero, bisex (veri o coercitivi). 
Ritengo che il grande successo tra gli uomini sia dovuto al fatto che Lady Gaga parla come donna agli uomini. Il suo linguaggio è notevolmente infarcito di richiami sessuali a cui, è scientificamente risaputo, gli uomini sono maggiormente sensibili per la fisiologia della loro eccitabilità sessuale. 
Il messaggio che questa donna dà è molto maschilista: sei bello così, dai sfogo a tutta la tua bellezza. 
La bellezza, come ideale estetico, è un attributo statico ritenuto di genere femminile ed i mezzi attraverso cui si esprime sono i tipici oggetti materiali che popolano l'universo delle femmine: le calze, il reggicalze, il pizzo, il trucco, il capello lungo, fluente, dal colore accattivante, il saper condurre movimenti sensuali durante una danza, la voce usata per il canto, gli occhi dolci/aggressivi contornati da ciglia perfette, la pelle liscia. 
Ci dicono: la bellezza è questo, la donna è questo. Così, sempre più persone vogliono essere belle, sempre più persone vogliono essere donne. Il mondo si riempie di persone, uomini e donne, dalle forme emaciate, gli zigomi valorizzati dal fard, pantacollant, capelli molto curati, comportamenti ipersessuali (a volte anche soltanto allusivi), montagne e montagne di foto ritoccate che li mostrano in tutta la loro meravigliosità. Foto che ricevono approvazione e suffragio massivo grazie a strumenti di networking come Facebook. 
Fin qui, niente di male. Sta nascendo quello che mi piace chiamare "il terzo genere", diverso da quello maschile e femminile. Un genere governato dalle sole regole estetiche (per ora). 
Ma ecco, cosa è che mi preoccupa di tutto questo?
Mi preoccupa il lato riduzionistico di tutto ciò: la bellezza non sono un paio di reggicalze. La donna non è un paio di reggicalze. Non sei una donna se ti metti i reggicalze, che tu abbia il pene o la fica. 
Anche i reggicalze, non sono due fottuti aggeggi da mostrare con orgoglio, per una donna. 
Per una donna i reggicalze sono un attributo intimo, il simbolo del segreto della femminilità, così complicato da svelare, da far soltanto intravedere; sono una segreta sorpresa per chi arriva fino al punto di fare l'amore con te. 
Non sono il manifesto di una libertà sfacciata che spicca su una foto del profilo di Facebook o sulla porta di un locale di grido frequentato da tutto il mondo. 
Lasciate che ve lo dica, seguaci di Lady Gaga, uomini e donne, etero ed omo: non avete capito niente di quello che sia una donna, questo lo si vede in modo eclatante da fatto che vi sentite vicini ad un ideale di femminilità soltanto indossando un reggicalze o un babydoll.
Lady Gaga è davvero la più maschilista delle donne: ha fatto credere che la donna (e con essa la bellezza) sia una sorta di capo d'abbigliamento e che con una semplice apparenza la si possa riprodurre. 
In una società in cui le donne prendono sempre più piede nell'ambiente lavorativo e conquistano diritti e potere, l'idea che come genere siano così facilmente riproducibili è davvero molto rassicurante per chi si sente intimidito a questo cambiamento. 
Da qui, la mia preoccupazione. Sento che questo "terzo genere" potrebbe minacciare me e le mie simili. In un mondo in cui le donne "non maschiliste" arrivano sempre seconde, questo nuovo tentativo di riduzione morale mi sconvolge. 
Molto mi turba anche il fatto che di questo non si parla: il "terzo genere" è visto dall'opinione pubblica dei miei coetanei come un'ideale di libertà, espressione, divertimento. Chi parla in modo critico, viene additato come sessista. A me non importa niente di chi tromba chi, di chi si innamora di chi, di chi si veste come, di chi passa il suo tempo come. Certo, la perversione, lo sfarzo e l'eccesso mi danno noia, ma sono fatta così. Sono quel tipo di persona mediocre la cui virtù è la modestia, come diceva J.P.Sartre, che ha lasciato una grande traccia di simpatia sul genere umano. 
Ma non è questa la questione che ho voluto presentare con questo articolo e spero di essermi spiegata chiaramente. 
Una conclusione: non è diventando seguaci di una filosofia che si arriva ad una soluzione. 
Ho cercato di spiegare tutto questo che ora ho scritto a mia madre, oggi. Lei mi ha chiesto il motivo per cui noi giovani facciamo queste cose. Le ho risposto che a noi giovani d'oggi, a differenza di quelli di ieri, manca il senso d'appartenenza. Siamo orfani di identificazioni politiche, religiose, familiari. Dobbiamo crescere da soli, senza un faro, e conservare i nostri valori in una società che ci fa profondamente soffrire. Non c'è altra via se non l'individualismo ed ognuno deve farcela da solo, credendo in qualcosa che molto spesso appare come un illusione, solo per fede. Come ho detto a lei, questa è un epoca in cui l'uomo è solo, senza Dio. Proprio perché Dio non c'è, se n'è andato, oppure noi abbiamo perso la capacità di vederlo/disegnarlo. In tutto questo, noi giovani dobbiamo scoprire la soli l'alfabeto per leggere noi stessi, ed in questo cammino irto di spine siamo sensibili a trappole poste dalle varie Lady Gaga che tentano di tanto in tanto di conquistare il mondo (finanziariamente parlando, ovvio). 
E io mi chiedo, a conclusione di questo casino che ho cercato di descrivere con le mie povere parole, cosa ne sarà di noi, e chi si salverà, e come.  


Una piccola cosa, ultima: ci sentiamo tanto soli, mi sento tanto sola. Sin dalla mia adolescenza, ho sentito il desiderio di parlare di tutto questo. Lo sento ancora. Vorrei che noi giovani parlassimo. Vorrei che le persone attorno a me non fossero così cieche, sorde, mute. Non c'è tutto questo bisogno di farsi le foto da soli. Gli altri possono fotografarci. Perché non parliamo, fratelli? In quel caso, non ci sarebbe nessuna moda che tenga. Perché siamo come le tre scimmiette delle statuine? 
Ma non solo: smettiamola di rigirarci nella nostra decadenza come personaggi di fine impero romano, apriamo gli occhi su ciò che c'è di nuovo e bello: quanti venti giungono, con gli immigrati dell'Africa che vengono a vivere qua, con le scoperte della scienza! C'è molta bellezza, siamo molto belli ma... non c'è nessun Deus Ex Machina: non siamo belli perché siamo nati così. Ci sono molti errori nella creazione ed avere il coraggio di affrontarli fa parte della bellezza che Dio ci ha donato. Affrontiamoli. Facciamo fallire tutte le multinazionali della superficialità. Costringiamoli a confrontarci con la nostra complessità ed intelligenza. Possiamo vincere. Cominciamo adesso. Sono pronta. Vi aspetto. Con amore. Miei tutti.




Lady Gaga. De gustibus...XD

martedì 26 aprile 2011

Anxiety.

Anxiety is a feeling of conflict to reality.
Anxiety disappears when you gift the conflict to reality. 



L'ansia scompare quando si fa del conflitto un dono alla realtà."   





giovedì 14 aprile 2011

Il faticoso gioco delle storie che si incontrano tra loro.

Circa sei anni fa tra le mura della mia casa si viveva un vero bordello. Nel senso che il caos regnava padrone, o almeno questa era la mia percezione dello svolgersi delle cose. Enumero solo alcuni dei fatti: estrogeni spinti al limite, mestruazioni molto irregolari, niente seghe e molto latino, acne importante, dubbi esistenziali, schizofrenia religiosa, super-IO tendente all'implosione, nessuna esperienza di shopping, amiche stupide, amori platonici, nonni a carico. Per essere molto riassuntivi e non perdere altro tempo su una raffigurazione di parti della mia adolescenza. In quei mesi di uggia invernale, nacque dalle mie mani, su questo portatile ancora in vita, l'incipit di un racconto. Mi correggo, vari incipit dello stesso racconto, forse due o tre. Giravano attorno a descrizioni molto colorite di una ragazza che amava l'arte e dal carattere fantastico che scappava di casa. La descrizione della casa silenziosa la mattina, lei che si incoraggiava cantando nella mente testi di canzoni, gettare qua e là aggettivi su questa protagonista che altri non era se non la sottoscritta. 


Da questi stralci semi-autobiografici ne nacque uno anomalo: la descrizione del sogno di una ragazza stanca del luogo dove viveva. Eppure, molto diversa da me: annoiata, apparentemente arida, ingrigita. Il suo essere inceppata pervadeva tanto la narrazione che mi bloccai dopo circa venti pagine: non avevo idea di come poter continuare il racconto. Non riuscivo ad immaginare cosa poter far di un personaggio così rinchiuso in sé stesso e alle prese con i suoi problemi. Questi ultimi si riflettevano all'esterno in un abbozzo di trama: questa ragazza viveva in un futuro in cui lo Stato aveva assunto caratteristiche simili a quello descritto nel libro 1984, di Orwell (nb: che all'epoca non avevo assolutamente letto.) 
Le uniche cose che sapevo erano due, e per quanto strano possa sembrare, si trattava di due nomi: Livia Tundari
Ero certa che si trattasse del nome della mia eroina. 
L'altro era Sorella Luna, che dette anche il titolo a quel racconto appena iniziato. 
Non sapevo come e perché, ma ero certa che quei due nomi rappresentassero la stessa protagonista in momenti diversi. 


Circa quattro anni dopo (per la precisione nell'inverno del 2010) ho ripescato dalla memoria alcuni personaggi che avevo creato per divertimento ispirandomi a conoscenti. Avevo portato le loro caratteristiche all'estremo, la bellezza, l'aggressività, la sensualità, e li avevo messi in una scatola sotterranea: una rete di bunker segreti nei quali vivevano come clandestini, come affascinanti farfallone notturne. Anche loro, non avevano una storia. 


Per gioco, nel 2010, Livia Tundari li ha incontrati. Non so per quale saggezza a me sconosciuta questo personaggio ha incontrato gli altri all'interno della mia mente, ma è stato un incontro fortunato. La trama è andata avanti, è nato qualcosa, uno spunto, un incipit vero, un senso al carattere di Livia e degli altri: il frutto di esso, le loro azioni in interazione. 
Il titolo del racconto è rimasto Sorella Luna. I nomi dei personaggi non sono cambiati. Possiamo dire che è stato un ricongiungimento fortuito e promettente. Per me almeno. Il giudizio poi a chi leggerà.


L'incipit del racconto:
 https://www.facebook.com/notes/cos%C3%AC-parl%C3%B2-sherazade/sorella-luna-incipit/218381454842592


PS: ho detto di essermi ispirata a conoscenti per inventare la seconda mandata di personaggi. Soltanto uno stonava da questo: ero decisa ad ispirarmi ad una persona ma non vi riuscii, mi sfuggì. Al suo posto, ne venne fuori un'altra, che all'epoca non conoscevo. Un tipo sconosciuto, che colpisce per una diversità che non si riesce a decifrare, e che con la conoscenza superficiale viene affidato a qualche luogo comune. Finché non si approfondisce. E' questo il personaggio che mi venne fuori. Ed è stato così che poi lo ho ri-conosciuto nella vita reale. :)