domenica 11 settembre 2011

11/09, il giorno di chi piange insieme.




"Polvere, poussière, pluhur, غبار, pöly, hokori, dhūla, skóni, støv, poeira, pyl’, prašina, praina, polvo, fùn laxxng, Staub, toz, por, dust."
Un semplice eppure molteplice significato, molte sfaccettature fonetiche. Non è strano che ci si stupisca della similitudine tra alcune parole nelle diverse lingue (in fondo, le lingue sono fatte per parlare tra di noi), ed invece passi inosservato quando alcune riflettano un certo grado di incomunicabilità. 
La polvere ha molti volti, si posa inesorabile sui nostri scaffali ed i nostri libri, appesantisce i tappeti che appisolati nei salotti sognano di voli su deserti e pagode, trasportata dal vento ci fa bruciare gli occhi, inosservata incrosta i vetri, è la timida vestale del tempo. Infine, ci ricorda delle infinite vite che sono finite e non abbiamo vissuto, essendo ciò che rimane e si volatilizza dei nostri compianti morti. 
Oggi alla televisione hanno passato in rassegna le drammatiche immagini dell'attentato e del crollo delle torri gemelle di New York, avvenuti l'undici settembre di dieci anni fa, ed il frammento che più degli altri mi ha toccato è stato quello che ritraeva quell'onda di polvere, densa e grigia, che ha invaso le strade in una corsa tremenda, rendendo cieca e satura l'intera isola di Manhattan. Le persone fuggivano piangendo da quella nuvola ardente, qualcuno continuava a guardarsi le spalle, incredulo, mentre le torri sparivano sotto quella coltre, altri si fermavano e si accucciavano a terra, in attesa di venir sepolti. Ho visto una donna di colore, che tappandosi la bocca con un fazzoletto di carta correva, inseguita dal denso grigio, le grandi guance increspate in un'espressione di terrore e disperazione. Indosso aveva una camicetta rosa acceso, un paio di jeans carini ed attillati. Mentre andava, ondeggiando come una signora in ritardo che deve fare i conti con i suoi tacchi, propendeva una mano lateralmente, le dita erano mollemente raccolte a pugno, come se fino a pochi secondi prima avesse stretto in quella una borsetta. Eccola, l'America, eccoci tutti noi, che ci commuoviamo a rivedere quelle immagini che allora sul momento non sapemmo interpretare, che corriamo inseguiti dal crollo dei nostri uffici, dall'uragano che inghiotte la terra, dall'eruzione del Vesuvio, ignoranti, ignoranti e vestiti con le camice del buon'umore, comprate con l'inconsapevolezza di classi medie e ricche.
Dove siamo, dove viviamo? In mille città diverse, nelle quali si parla una babele di lingue, viviamo facendo i conti con migliaia di valute ed esprimiamo desideri conformi alla nostra condizione economica e sociale. Ed eccola lì, la polvere, l'immensa nube che ci inghiotte e non ci uccide, che ci ricopre facendo apparire tutte le nostre camice, le nostre scarpe e la nostra pelle del medesimo colore. 
Da quel giorno, il nostro mondo è stato invaso da una nebbia fitta, che io credo si sia solo in parte diradata. In questo lasso di tempo di dieci anni, abbiamo imparato a vedere con gli occhi impastati di polvere, abbiamo capito come riconoscere le ombre che si aggirano quando non si vede bene, siamo riusciti a scovare il senso che va oltre quei vestiti imbiancati dalle macerie della tragedia?
Ebbene continuiamo a piangere ed ad innamorarci del nostro dolore, ma per favore non fermiamoci qua. Ricostruiamo e se a New York vogliamo lasciare un cimitero, in memoriam, rechiamoci altrove e costruiamo. Non croci, non lapidi. Se è vero che la morte è il male, comportiamoci altrimenti. Sarebbe forse l'evoluzione più giusta e naturale per una vecchio e martoriato popolo come quello occidentale. 
Onore e ricordo dei nostri morti.
Auguri a noi, che continuiamo questa vita. L'augurio perché mai sia sciocca.


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