martedì 28 febbraio 2012

La Tempesta, scena I


Cosa fa continuare il mondo? Chi porta costoro alla riproduzione? Ben chiara è per costoro la tecnica ed il modo. Gli alberi silenziosi lo fanno, generano boschi. Noi cosa generiamo? Noi? Braccia disgiunte e occhi sfrenati, bazzecole. Che noia i social network. Alito e voce mentre si bacia, questo mi piace. Ora non sono felice, non tranquillo. In questo posto non ho pace. Questo posto è molto grande, contiene la città, il paese, la vita. Puttana. Vivo l’esilio con sterilità. Desidero molto tornare in quel posto, ma mi accorgo che non si tratta di desiderio. Ho confuso desiderio e memoria. Non posso desiderare un luogo con le sue regole ed i suoi lillà se mai è esistito. Credo di ricordare quando vivevo, desideravo quel luogo e compiere azioni con il lucido intento. Leggere, sfogliare, parlare, cacare. Dopotutto l’antico esiglio si è manifestato, non fu posto come verdetto. Nessuno disse, non uno fece. La terra sterile, vi s’infrange la pioggia, ha mostrato i suoi non-germogli io ne ho percepito la menomazione. In quell’inizio il velo dei salotti e dell’immobile notte hanno annaffiato il mio sguardo.
Ma credetemi, credetemi, io ben so che non è qualità mia, questa.
Vivo su di un terreno che la carestia riarse e spogliò, mi avvento sull’asino con gli altri contradaioli, ma io sono Fausto, io sono prospero.
Ho cinquant’anni.
I miei pensieri sono semplici. Anzi no, sono difficili.
Ho una figlia. Lei sono i piccoli fiori su un albero al freddo. Io amo chiamarla Pulcheria quando mi chiede se è grassa. Lei a volte si comporta come se indossasse una catena. È difficile scrivere una storia, così.
Ora sono nel mattino seduto alla luce, dietro ad un tavolo di plastica. Il locale è uno di quelli aperti alla sera, adesso è chiuso. Tutte le sedie disposte a schiera, riordinate, le plastiche nei bidoni, i bisogni notturni addormentati. Io sono uscito al mattino per respirare un po’ d’aria, sono le sette e sono seduto qui. La struttura di questa mattina è molto semplice, è per questo che ho voluto cominciare da qua. Non c’è molto da dire, sono uscito, presto, tutto è pronto nel mio ufficio perché melodie affrante si intonino da sole, rotolando sui muri in dimensioni altre, verticali.
Io sono uscito, ho camminato fino a questa via desolata e mi sono seduto. Fumo una sigaretta dopo colazione, al fresco. Il vento è gentile, gli elementi semplici non sono toccati dal traboccare umano. Eppure dall’intonaco delle case sento colare la fatica di chi si alza, assonnato. Io sono ho sonno, ho dormito abbastanza. È difficile, davvero difficile decidere che ci sia qualcosa da dire, da raccontare. È questione di volontà? Quella non manca, perché dubitare. Ma cos’è questo? Un racconto, un pensiero? Sono un personaggio, o cosa? Chi mi ha creato non lo sa. Il mio dio non sa di quale sostanza io sia fatto.
No, davvero, fatemi una linguaccia, passate e fatemi una linguaccia. Io sono qui che attendo e non so ancora per quanto. Ed anche la fiducia forse l’ho confusa, forse in realtà questa mentre aspetto è memoria. Mi sollazzo con la tecnica mentre aspetto, correggo un pensiero con un altro e mi sembra d’esser bravo. Ma davvero non c’è nulla di reale in quest’isola che voglia disturbarmi?
Com’è il mondo ora? E’ come un sasso. È una cosa come quelle cose che noi umani creiamo. Cose che non muoiono, finiscono nelle discariche quando non vengono più utilizzate. Di questo mi vergogno, ne partecipo e non sono felice, malgrado abbia tutti i motivi per esserlo.
Sono un medico, uno psichiatra. Porto la barba e sono alto. Mia moglie è morta, questo mi dà dolore. Non ho trovato mai un’altra donna con cui avrei voluto vivere. Vivo con mia figlia, ora, per quanto la ami vorrei che se ne andasse. Ha un’età nella quale vorrei vederla ribollire di attività. In merito a lei la mia fantasia si fa più prolifica, sofisticata. I pensieri acquistano struttura, soggetto, predicato, carne. Vorrei che i frutti dei suoi sforzi non fossero così legati al sopravvento della ragione sul giudizio, mi piacerebbe che un plauso terreno e presente proiettasse la sua luce sul suo futuro e le desse forza. La mia Pulcheria è un poco debole ma non me ne vergogno. Dei suoi metodi di contenimento ne sono rimasti pochi, fuma, si mangia le unghie, un poco si nasconde dietro abiti dai colori spenti. Ma la sento parlare ed è spinta, è lodevole, è coraggiosa. È debole ma è coraggiosa. Vedete, mi basta nominarla per partire in quinta ed acquisire un linguaggio poetico.
Poesia. La utilizzo con i miei pazienti.
Sperimentiamo il transfert, spesso. Me lo prendo, con decisione. Voglio proteggerli dai farmaci, dalle droghe, dalla dipendenza. Sono una spugna d’acqua, per loro, fatto della stessa materia nella quale annegano, ma la assorbo. Li abituo a fidarsi di me, dunque di loro, del mondo. Li invito a parlarmi in versi, li inizio al metro e alla figure retoriche, quando son pronti. Il linguaggio poetico è più vicino a tutto ciò che di immaginifico ed allusivo esiste nell’essere umano. È più facile parlare, per loro, se si fanno convincere. Non è più facile per me, ogni volta è una nuova sfida. Faccio questo, nella mia vita.
Ascolto la radio, la notte, mentre le fate zanzare vibrano fuori dal finestrino dell’automobile. Ascolto le voci metafisiche, mi perdo dietro alle sfingi disegnate dalle trattazioni, ripeto senza emettere suono le preghiere degli emettitori. Principalmente ascolto le loro parole e poi la musica che hanno inteso descrivere. Mi segno su un taccuino gli autori che mi colpiscono. Li chiamo, nella mia mente, “costellazioni”. Come le sindromi che costituiscono chiaramente degli enti indipendenti ma che non possono essere puntualmente descritte sotto certi aspetti ritenuti fondamentali per la classificazione. Quale, il motivo? La nostra ignoranza, scarsa conoscenza. Stessa cosa vale per i jazzisti, i cantanti, gli sperimentatori che come fantasmi si aggirano attorno alle sindromi elettrocliniche. Amo l’astronomia. Mia madre era tutto, era astronoma. Conosceva il cielo e me lo descriveva, con le parole con cui si descrive ciò che non si può vedere. Dove viviamo non ci sono grattacieli e palazzi imperterriti che nascondono le sommità ai passanti, ma molta luce, negli ultimi anni di carattere arancione, ed oscura le notti. Di giorno il cielo azzurro o grigio, di notte la bruma.
Quando mi annoio controllo la mail. Non ho uno smart-phone, non mi interessa. Ho un piccolo cellulare molto anonimo, ci telefono a mia figlia, mi chiamano alcuni pazienti ed amici. Basta. A mio padre ne sarebbe piaciuto uno. Era uno tecnica e cuore. Era convinto che i suoi figli avrebbero fatto molti soldi. Avrebbe voluto che io ne avessi uno, forse ne avrebbe voluto uno per sé, con pudore, un misto di indipendenza ed incapacità. Lui ha sempre lavorato molto per i soldi. Tornava a casa la sera tardi ma poi la ristrutturava, ne comprava un'altra. Un balletto così, molto stimolante, lo riempiva di parole. I miei genitori erano molti diversi da come sono io. Il lavoro è sempre stato carico di un significato morale in questo paese, non so negli altri, una sacra cosa da cui sgorga vita, onore, il carattere. Mia madre era una non-lavoratrice, si occupava di noi, lavava le cose una, due, tre volte, con tanti detersivi. Era un'arte che forse non amava, ma chi glielo ha chiesto?
Così, di mattina, nell'inizio del giorno, mi vengono i genitori. Coglioni, da universi-lavativo avrei voluto grattarmeli via, ma sono due alberi dai frutti misteriosi che non sanno distinguere un turco da un cinese. Sarebbe stato interessante, se solo mi fossi soffermato su di loro prima che si estinguessero. La loro era una normalità veloce, il lavoro, la casa, la macchina, i figli, la vecchiaia, ma dopotutto la Costituzione è un vestito pensato per loro, per il bene ed il meglio di gente come loro. Ed io ne sono stato il figlio e non ci ho capito nulla, sono arrivato con tenerezza nel momento dell'Alzheimer e del tumore alla vescica e li ho visti scendere nella tomba con gli artigli su quella cazzo di costituzione. Eccola la gioventù referendaria, la festeggiatrice di piazza, la scappante dalle botte, la biciclettante e la camminante delle lunghe distanze. La semplicità della loro lingua mi ingannò, a quel tempo. I miei compagni parlavano una lingua forbita e la loro grammatica mi sembrò povera, priva di ginnastica. Credevo davvero che avessero barattato la cultura e la storia per un piatto di lenticchie. Come poteva essere altrimenti? Nnò, avano, evo, eva. È tutto passato veloce come il vento, come la panciuta bufera che, aaahhh, sta tirando un sospiro di sollievo da vent'anni.
Mia madre Anna e mio padre Salvatore, uno accanto all'altro, lei bassa, rotondotta e incappottata, lui alto, largo quanto le proprie spalle e un'ombra scura con il berretto. Sorridevano molto, ridevano delle loro battute. Lei leggeva parecchio, romanzi, saggi, riviste. Ogni argomento le interessava e veniva praticato nella realtà quotidiana. Ricette, giardini, erbe selvatiche, osservazione di animali, osservazione di sentimenti umani e televisivi. Lui andava al lavoro e guidava tanto, anche la domenica per portarla a spasso. Mangiava tanto,ma non beveva. Suo padre beveva. E comunque se beveva lo faceva per un motivo diverso da mio e dal suo. Ogni generazione ha un suo significato nell'alcool. Come tranquillamente lasciavano intuire possedevano profonda mortalità e furono morti per tutti gli anni ed anni a venire dalla loro morte.
Io, loro figlio, questa mattina sono qui seduto al sole, le dita intrecciate, appoggiato ad un tavolo di plastica fuori da un locale. E' chiuso, è tutto chiuso qua intorno. Fra non molto andrò a lavorare e qui mi piace aspettare.
Quello era il senso di moralità dei miei genitori. Fare quello che si può per fare quello che si deve, e tutto ciò è tanto e ne abbiamo in abbondanza. Sono quelli del molto, del parecchio. La mia morale, più o meno, è stata questa: fare quello che mi piace, basarmi su un'idea e su quello che ho ereditato, costruirci una vita confrontandosi con quello che ci si può fare, con quella cosa che mi piace, prendere le conseguenze. Sono quello dell'abbastanza.
Ma vedete, non si tratta di vere quantità. E' probabile che io abbia reso realtà fantasie che i miei genitori nemmeno sognavano. Persiste tuttavia la percezione che ne determina il significato e si può dire che non sia vero, da questo punto di vista. Avevano maggiormente.
Per quel che riguarda la mia esperienza, se le prospettive di possedere erano esigue pur ottenendo di terreno molto, la complicazione era maggiore. E dunque la motivazione grande. Il senso di invenzione per anni ci ha contagiato e ci ha fatto sentire buoni. Perché no, alla televisione ci mostravano musi brutti e lunghi di guerre e battaglie politiche, somiglianti al ritratto del nonno appeso in cucina, come non sentirsi migliori, eletti? Ci erano dati così tanti sconosciuti strumenti per fare , uscire, conoscere, prendere. La laurea, la donna, la casa, le case, i viaggi, la vita. Tutta un'identità da costruire e tutto tanto tempo per farlo. Chi crollò, in quegli anni? Nessuno, nessuno. Qualcuno certo si fulminò o rimase ferito, per umane ragioni, ma non ci fu crollo alcuno. Ognuno fece ciò che credeva, si basò su un'idea, un'eredità, si confrontò con le conseguenze delle proprie scelte e si sentì un buono.
Non è forse questo che abbiamo fatto, lanzichenecchi ringalluzziti, in quegli anni dei soldi giusti?
Anche chi ne aveva pochi li aveva contati e bastavano per far qualcosa. Chi veniva da genitori che risparmiavano su scarpe e vestiti, si votava all'economica idea d'autonomia e lavorava duro. Alcuni hanno ottenuto una fata distorta rispetto a quel che credevano, ma nella loro mente lo scheletro dell'ideale buono anti-comunista/anti-fascista era riconoscibile e rassicurante.
In questa mattina prima del lavoro, a cinquantadue anni, mi sto rivedendo la vita.
Alcuni mi accusano di essere sarcastico e salottiero. Borghese, mi chiamano, raccomandato. Questo perché ho la facoltà di saper parlare e sapermi ben presentare. A chi poi. La diceria della mia oziosità si fa presente ovunque. I miei amici sono soliti invidiarmi con crudeltà. Non rinunciano a me, perché sono bravo e li aiuto. Ma io non li chiamo, ho smesso anni fa. Mi fanno star male, con i loro se, i loro ma, i loro parenti ed amici, i loro definiti ideali, fastidiosi madrigali. Mi fanno sentire insignificante, non importante. Hanno bei figli, promettenti germogli dorati, cani sanbernardi che si chiamano Whisky o Beethoven. Loro sono quelli come me, che volevano grattarsi via i genitori di dosso. Sono i migliori, i ribelli, quelli con la vespa. I bailanti e gli universitari, quelli del compromesso, del “mi basta”.
Sì, ecco il peccato che ci ha reso un po' meno buoni, un po' più simili ai bisnonni piuttosto che ai nostri poveri genitori: il compromesso. Ciceroni moderni abbiamo abbracciato con disinvoltura i movimenti politici, i sindacati, la globalizzazione, le associazioni apolitiche, le lobby multinazionali, i movimenti noglobal. Oh oh oh quanta merda. Così di prima mattina. E' che penso alla mia bella imperatrice stanca a 22 anni, a quella mia piccola. La sua tragedia è metafisica. La sua identità tesa difende i suoi confini verso le squadre del nichilismo. Lei è una principessa dalle più alte virtù cristiane, tutte, incarnate, è una sorpresa ed uno stupore continuo. Lei è la reazione. La reazione a noi. È meravigliosa e nobile. Questa gioventù. Aiuto, aiuto. Ho tanta paura a lasciarle il mio regno in eredità, così sterile e disfatto. Ahi, ahi per il giovane che spezzato deve giungere a sanare gli anziani. Viviamo dell'illusione di questi giovani, della loro ingenuità. Che sani la terra, gonfi nuvole, faccia pioggia.  

Roberto Kunsterle, "Mutazione silente 14"


mercoledì 8 febbraio 2012

Tutti hanno un sogno, no?


Oggi mi sono ricordata il motivo per quale ho scelto di fare medicina. Lo avevo dimenticato, in questi cinque anni. Ci avevo pensato, a volte, con la disperazione di chi non ricorda un particolare importante della propria vita. Ma niente, quel movente decisivo se l’era trascinato via, nel profondo, un’onda con la sua risacca. Oggi ho intravisto un titolo di giornale web, mentre sedevo sulla poltrona di casa mia. Il sottostante video mostrava una bella ragazza cinese, sotto le luci, di fronte ad una cinepresa. Parlava con calma, dolcezza. Il suo viso era tanto bello che la prima emozione che ho provato è stata l’invidia. “Ho diciannove anni”, ha detto, dunque quattro meno di me. Mi sento come affidata con violenza alla mia età, per quanto giovane, perché odio quella seconda cifra che anno dopo anno aumenta senza che la mia condizione di eterna liceale muti, che mi nasca un conto corrente (per quelli non c’è bisogno della pillola anti-concezionale), che i miei progetti strampalati entrino nello spettro del visibile.
La ragazza cinese di diciannove anni, più giovane di me, bella, più bella di quanto sono io, racconta di essere un’operaia della Foxconn, viene sfruttata senza ritegno e con la sua piccola umanità carina è il simbolo del costo dei nostri i-pad.
Le compare in braccio un sottotitolo bianco: I sogni non si avverano, ma tutti hanno un sogno, no?
Ho smesso di guardare, improvvisamente avevo recuperato la memoria. Il ricordo del motivo della mia scelta è tornato improvvisamente alla superficie, dopo tanti anni.
Ricordo che a diciannove anni provai grande tormento interiore all’idea di scegliere l’università. Avrei voluto fare lettere, conservazione dei beni culturali o una cosa del genere. Mi piaceva la linguistica, mi piaceva tradurre lingue antiche. Amavo scrivere. Ma ero bloccata. Mi sentivo inutile, in tale scelta. Mi sentivo ingiustamente investita della mia libertà. Tutta la mia personalità mi sembrava l’espressione della disuguaglianza esistente nel mondo. Soltanto perché sono nata in Occidente, pensavo, ho la possibilità di lamentarmi senza accorgermi del reale valore della vita e della sua deprivazione. Molte persone potenzialmente migliori di me sono nate in Ruanda, in Cina, in Iraq, sono state uccide da trafficanti di droga colombiani, sono state violentate da soldati, sono state barbaramente uccise senza avere nessuna colpa. Di tutta la povertà, la morte, la sofferenza umana a me tocca quella esistenziale, quella delle idee. Questo pensiero fece nascere in me un senso di vergogna e colpevolezza: tante persone vivevano in condizioni di deprivazione senza meritarlo, io invece, solo per diritto di nascita, vivevo in condizioni di privilegio. Questo è bastato per farmi credere che avrei messo fine alla mia sofferenza facendo una scelta che fosse contraria, o quasi, al senso comune delle mie papille gustative. L’ho fatto perché mi sentivo in colpa. Ancora oggi, purtroppo, mi sento in colpa: perché non mi piace. Odio questa facoltà, non mi piace nessuna di queste materie, ho perso interesse per l’idea di fare il medico. Lo farò, ne sono certa, ho superato brillantemente prove ed esami, fin’ora. Lo farò meglio di altri, questo è sicuro, perché sono umana e non mi faccio sconti per quanto riguarda il far bene questo lavoro e studiare per avere i substrati per farlo. Ho studiato davvero, in questi cinque anni, e sono rimasta fedele a me stessa, ho lottato contro i pregiudizi di chi mi ha bocciato perché “troppo filosofa”. Ma sono triste. Tremendamente triste. Ho una pesantezza dello spirito che mi avvelena l’odore di tutte le cose. Sento come se la mia anima fosse immobile, grande e chiusa in sé, mancante di molte cose che io non posso darle. E non ho risolto il motivo per il quale ho fatto questa scelta terribile: mi sento ancora in colpa, ancora mi vergogno di me stessa. Perché sono infelice, malgrado io sia chiaramente una privilegiata.
Cosa ho sbagliato? L’abnegazione, il sacrificio sono dunque da sconsigliare? Come potrei chiamare il peccato che ho compiuto contro me stessa? In fondo volevo soltanto essere morale.

I sogni non si avverano, ma tutti hanno un sogno, no?

E’ vero. Quando nel mio letto, la notte, frugo nella mente per trovare bei pensieri che mi aiutino ad addormentarmi, sogno me stessa in ogni diversa città che la mente concepisce. Sono truccata, sono vestita da giullare e tintinno. Suono il tamburo sulla piazza e raduno una folla di turisti curiosi attorno a me. Così, con la scusa di raccontare una storia, dico poesie. Questo è un sogno, credo. Forse il primo, dopo tanto tempo. È appena nato, mi fa sorridere di gioia quando ci penso, lo coccolo con il pensiero, lo arricchisco di particolari. Sembra quasi un ricordo, da quanto lo vedo vividamente. Questo sogno mi fa sentire più simile a tutti gli altri di tutti i minuti di questi ultimi cinque anni. Sì, perché tutti hanno un sogno.


sabato 4 febbraio 2012

Mio piccolo mondo altero

Mio piccolo altero mondo, ti guardo e ti vivo ed in più di un momento provo rabbia e dolore. Come un lutto sottostante si insinua nei miei pensieri, per ciò che non sono, per ciò che non posso fare in un continuo accumularsi di condizioni passate e presenti. Non ricordo com'ero quando sono nata, poi sono arrivati i fratelli, poi sono arrivati i giorni di scuola, poi sono arrivati i pidocchi, poi è arrivata la vergogna e tutto ciò che ero ed era sbagliato, per è arrivato un ragazzo che mi ha detto che a conoscermi si aveva la sensazione che non fossi reale, poi sono arrivati i nomi di personaggi inventati, poi sono arrivati i modi per farcela in un altro modo, poi sono arrivati i fallimenti e le trappole, poi è arrivata la sordità di sistema, poi è arrivato il disinteresse per gli amici e lo svago. Infine, ma soltanto da poco tempo, sono arrivate alcune cose che volevo. Ho coltivato il sentimento reale, ho coltivato passioni in quanto tali, ho rivoluzionato cose che non riuscivo a fare nel modo del piccolo altero mondo.
Oh quanto vorrei riscontrare che cosa provi a contenermi, quanto vorrei conoscere i tuoi pensieri quando mi senti cadere, scrosciare, tremare, come la neve, la pioggia, la terra. Ma tu taci, piccolo mondo altero, taci di fronte ad una delle diverse tra i tanti diversi. E di fronte al tuo mutismo io devo inventarmi un pensiero, un altro, devo scommettere e pronunciare parole che forse mi danneranno.
Se tu fossi trasparente e non ferissi, piccolo mondo autistico, se il tuo suolo non consumasse le scarpe, se i tuoi angoli non ingombrassero le mie curve, se le tue mani non affondassero crudeli nei miei capelli per stringerli forte in una treccia. Se potessi avere il controllo su di te...ma non ho denaro, non ho lavoro, non ho posizione, non ho una casa, non ho niente. Soltanto me stessa e la speranza di usarmi bene per il mio fine. Come devo leggere i tuoi segni, a quali dare importanza? Mondo schizofrenico le tue allucinazioni sono importanti ed analizzarti è difficile, posso sbagliare a guardare e a ritenere e ritrovarmi immersa nel fango. Ho paura. Non so dove guardare, niente è tutela. C'è astio in te, mondo malato, mentre velocemente continui. Quell'astio con cui mi hai fatto dimenticare cosa volevo, per cui adesso ho idee che imitano la confusione. Le ho riviste, quelle idee, ora, una per una. Erano andate a farsi fottere, ma ora, non più.
Scenderò in mezzo a te, mondo muro, con il vessillo della mia paura, non armata. Bella di parole, continuerò a dirle, malgrado tutto. Sarò inesauribile e farò l'errore di Gringoire, forse sarò derubata da tutti, niente cambierà e le trottole volteggeranno maleducate fino alla tua fine, piccolo mondo antichissimo. Io come un birillo attenderò lo strike. Rotolerò con te verso l'ignoto e finalmente saremo liberi, mio amato altro birillo.


Questa canzone mi fa pensare a tutte quelle volte che non ho sorriso per molto tempo: 
Nantes, Beirut