lunedì 31 ottobre 2011
Evenfindr era giunto da molti anni in quella terra, una delle uniche nelle quali gli uomini riuscissero a vivere in pace, seppur semplicemente. In quella ferita aperta tra le alte montagne, un'alcova erbosa tra nodose braccia di foresta antica, l'uomo abitava tra le famiglie dei pastori, che da generazioni si tramandavano nomi, canzoni ed agnelli partoriti dai greggi degli antenati. Evenfindr era un erborista ed un cerusico e nessuno dei pastori gli aveva mai domandato per quale motivo avesse abbandonato le case di mattoni dai pavimenti più caldi e puliti delle città lontane, che nessuno di loro aveva mai visitato. Ed infatti, nessuno conosceva la storia di Evenfindr. Non parlandone mai, mangiando formaggio e bevendo latte a colazione, pranzo e cena, l'importanza dei suoi ricordi era andata assottigliandosi, fino a diventare la magra materia di qualche noioso sogno invernale. Nella tarda mattinata di quel giorno, che si prospettava assai privo di impegni per il medico del villaggio di pastori, Evenfindr si era attardato a lungo nel proprio letto per poi aggirarsi dolorante per la grande stanza che formava la sua casa. Soltanto a quella tarda ora l'uomo infine aveva aperto la porta e fatto entrare la luce carica di goccioline d'acqua e vapore. Quel giorno la foresta aveva esalato foschia ed invaso le strade silenti del villaggio con le sue esalazioni di foglie e muschio imbevuti di acqua mista a organismi. Alzando lo sguardo verso le alte montagne che sovrastavano la piccola valle in cui si incastonava il villaggio, venne offerto alla sua vista uno spettacolo che gli parve unico. Emise un sospiro di sorpresa, che rimase sospeso a
traballargli tra i denti integri, ed in piedi dietro al portico della sua casa cercò di fissare nella memoria quella visione.
Il nitido ed elevato profilo delle montagne si
interrompeva al di sopra della linea dell’orizzonte, segnata dal seghettato ed oscuro
profilo della foresta. Nascosti da una nube grigia e continua, un denso vapore
dalla sommità piatta, gli alti dirupi apparivano separati dalla terra. La foschia era simile ad un
lago infestato dalla nebbia, plumbeo come in un giorno invernale nel quale non
si sappia distinguere tra il triste colore del cielo e delle acque,
simili a distese di acciaio fuso che fluisca libero dalla stretta del metallo,
in fuga dalla fucina di un fabbro.
Eppure, su quella distesa di grigiore d'aspetto
semiliquido non vi era alcun riflesso: le montagne erano state semplicemente
tagliate alla loro base e l’orgoglio millenario della pietra impediva loro di
cedere alle lusinghe del vento che certo a quelle altezze girovagava, e di
sventolare come bandiere, rimanendo infisse al cielo per la cima.
Evenfindr uscì dalla casa e si sedette di fronte ad essa, ancora rapito da quel panorama, appoggiò la fronte alla mano,
lisciando tra le dita i capelli neri e spettinati, tagliati male, che ricadevano sul suo viso. Un leggero sorriso gli stava nascendo sulle
labbra.
Tutto attorno ad Evenfindr era calma: gli uomini erano lontani dalle case, rinchiusi nel silenzio delle gole proprio là, in alto, dove il vapore aveva creato quello specchio senza riflesso, a far concerti per i loro greggi di pecore.
Tutto attorno ad Evenfindr era calma: gli uomini erano lontani dalle case, rinchiusi nel silenzio delle gole proprio là, in alto, dove il vapore aveva creato quello specchio senza riflesso, a far concerti per i loro greggi di pecore.
“Mastro Evenfindr! Signore!”
Una voce di donna provenne dal retro della casa.
Tutto il resto rimase inalterato, come se nulla fosse accaduto: l’aria, la brezza, che non era che un pallido simulacro del vento che addensava le nubi in lontananza, il debole sole contaminato dal grigio dell’umidità. Evenfindr si lasciò prendere dalla sensazione di esser stato a sua volta reciso dal terreno, come le montagne. Fluttuava a metri e metri da terra, perfettamente immobile, trasportato da un vento gentile che lo rispettava ed intendeva omaggiarlo con le sue danze. In basso non vedeva altro che il grigio calante dal cielo, un sipario di gocce minuscole che formavano un mosaico dai contorni confusi, il cui disegno avrebbe potuto essere riconosciuto non appena il sole si fosse affacciato ed avesse trafitto la bassa nube.
Un paio di mani strattonarono il medico e si avvinghiarono alla stoffa della sua manica, costringendolo a voltarsi ed a incontrare uno sguardo
incorniciato da un volto rotondo, zigomi serrati al di sopra di una bocca
spalancata.
“Mastro Evenfindr, venite subito!”
Evenfindr era tornato
al mondo reale, si ricordò chi fosse, per quella gente: le sue mani erano le più morbide del villaggio, il suo tocco quello che risanava le ferite e pestava le erbe fino
ad addomesticarle e costringerle a cedere l’anima per servire l’uomo. Si alzò e poggiò le dita sulle spalle della giovane, concedendole un
sorriso che non le fece tuttavia mutare espressione.
“Cosa è successo?”
Inaspettatamente la ragazza lanciò un grido, allontanò bruscamente le mani dell'uomo e cercò di gridare ancora, ma le mancò la voce. Si gettò dunque in ginocchio e si lanciò in avanti per circondare le gambe del
medico con un abbraccio.
Evenfindr si spostò ma con eccessiva lentezza, forse ancora invaso dal torpore da cui si era fatto dominare per tutta la mattina, e se la trascinò dietro. Sentì cozzare la sua testa contro le ginocchia e percepì il fremito del petto, scosso da singhiozzi che si soffocavano a vicenda, trasmettendosi alle sue gambe e facendole tremare. Appoggiò una mano sul capo della ragazza e la spinse indietro, allontanandola in fretta, trattenendosi per non balbettare un'esclamazione stizzita. Detestava i moti che gli abitanti del villaggio gli riservavano. Era un uomo timido che amava la solitudine, li toccava soltanto per medicarli, ricucirli, a limite amputare i loro arti. Non riceveva con piacere i loro gesti di gratitudine o cordoglio, il contatto con le loro lacrime o il peso della loro testa su di una spalla.
Evenfindr si spostò ma con eccessiva lentezza, forse ancora invaso dal torpore da cui si era fatto dominare per tutta la mattina, e se la trascinò dietro. Sentì cozzare la sua testa contro le ginocchia e percepì il fremito del petto, scosso da singhiozzi che si soffocavano a vicenda, trasmettendosi alle sue gambe e facendole tremare. Appoggiò una mano sul capo della ragazza e la spinse indietro, allontanandola in fretta, trattenendosi per non balbettare un'esclamazione stizzita. Detestava i moti che gli abitanti del villaggio gli riservavano. Era un uomo timido che amava la solitudine, li toccava soltanto per medicarli, ricucirli, a limite amputare i loro arti. Non riceveva con piacere i loro gesti di gratitudine o cordoglio, il contatto con le loro lacrime o il peso della loro testa su di una spalla.
“No, ti prego alzati…”
Quando si avvide che la giovane non intendeva staccarsi, Evenfindr dovette soffocare la voce in gola per non apparire eccessivamente irato, così la forzò ad allontanarsi dalle sue gambe e si inginocchiò per trovarsi alla sua altezza. Era completamente assorbita
dallo sforzo di piangere.
La ragazza sbatté i
pugni sul terreno, erano piccoli e bianchi e non si sporcarono né
generarono alcun rumore. Lasciò ricadere in basso il busto ed il capo ed appoggiò la guancia all’erba,
rivolgendo il volto rigato di lacrime ad Evenfindr.
“Signore, io dico da tutto il giorno che avremmo dovuto parlarne con
voi, subito…”
L'uomo aggrottò la fronte, appoggiò una delle mani
affusolate sulla nuca della giovane, facendola scivolare tra il collo e la terra,
sospingendola dolcemente per farla alzare.
“Parlamene adesso.”
La ragazza seguì con il collo e con il corpo il
movimento che le era imposto e rimase in ginocchio di fronte a lui. Le spalle sobbalzavano ad ogni singhiozzo, tra i quali
si affrettava a porre le parole.
“Signore, ieri mattina mia sorella è morta.”
Evenfindr sentì la propria mano, a contatto con la guancia
calda della giovane, divenire fredda. La ritirò lentamente, non riusciva a smuovere le dita. La depose sulla propria coscia, senza staccare gli occhi scuri dal volto della ragazza.
“Come è successo?”
Il pianto di lei si intensificò, tanto che la giovane
dovette coprirsi il viso con le mani.
“Sono sicura che il peggio si sarebbe potuto evitare! Invece ha perso il bambino…”
Evenfindr si lasciò sfuggire un grugnito, chiuse velocemente le mani.
“Hai appena detto che è morta.”
Non lasciò il tempo alla montanara di rispondergli, ed aggiunse con tono asciutto.
“Capisco. Ha abortito ed in seguito è morta. L’avete lasciata morire
dissanguata senza mandarmi a chiamare. Posso saperne il motivo?”
La ragazza portò con uno scatto le mani al terreno, per
appoggiarsi. In quel momento pareva trattenere il terrore. Cessò i gemiti e parlò scandendo bene le parole.
“L’abbiamo trovata in un campo, in un lago di
sangue. Delirava, sosteneva che il marito era stato sbranato, che le avevano
portato via il suo bambino. L’abbiamo trasportata a casa e quando l'abbiamo deposta a letto è rimasta improvvisamente silenziosa. Dopo qualche ora è morta…”
Evenefindr non mosse un solo dito verso di lei. Gli sembrava
che fosse diventata una statua di melma. La sua sola presenza lo disgustava.
“Chi le ha portato via il bambino?”
Non seppe perché lo aveva chiesto. In realtà, era convinto
che la risposta a quella domanda fosse una soltanto. I suoi familiari le
avevano portato via la creatura che aveva in grembo, la sua stessa vita. Per
cosa? Superstizione, la vergogna, salvaguardia dell'onore in punto di
morte... Aveva sperimentato in passato l'ira di qualche marito perché lui, medico e uomo, si era permesso di toccare sua moglie. Percepì le proprie guance che si arroventavano.
“I lupi.”
Evenfrindr quasi non udì la voce. Non si accorse che la giovane aveva parlato fino a quando non voltò gli occhi ed incontrò il suo
sguardo. Il velo di lacrime si era estinto e la sua espressione era puntellata
di piccole gemme luccicanti di terrore, che risplendevano sul fondo dei suoi occhi.
“Cosa hai detto?”
“Lei lo urlava! Urlava che i lupi che avevano portato via il
bambino!”
Il suo tono divenne acuto e le sue parole si conclusero con un gemito soffocato. Evenfindr, ancora incapace di comprendere cosa fosse accaduto, scosse il capo. Che la giovane madre che era morta fosse stata aggredita e ferita da un branco di animali della foresta? I suoi ragionamenti furono interrotti dalle parole affrettate che la ragazza stava rivolgendogli, al colmo del terrore e con la massima accoratezza.
“E ora vogliono tagliarle la testa! Io non posso, devo fare qualcosa…voi dovete fermarli, sono terrorizzati!”
Evenefindr si alzò.
“Così vogliono seppellire la testa in qualche posto
nascosto. Dove posso trovarli?”
La giovane agitò convulsamente le
braccia, in preda all'esasperazione.
“No, non devono seppellirla! Mia sorella ha ripreso a parlare e muoversi, così loro hanno paura di lei e le vogliono tagliare la testa per liberare la casa dall'infestazione dei demoni che l'hanno uccisa!”
Evenfindr percepì che il suo respiro partiva in avanti verso il luogo a cui avrebbe dovuto correre con urgenza. Così, rimasto senza fiato, lo inseguì, dirigendosi verso la casa della famiglia a cui apparteneva la ragazza.
mercoledì 26 ottobre 2011
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Un lupo ed un falco si
trovarono per caso a conversare. Il volatile spendeva molte parole ed intanto
passava il becco affilato sulle penne lisce, tinte di rosso dalla luce del
tramonto, più per accarezzarle che per pulirle.
Il lupo per lungo tempo non rispose
ai suoi richiami, si limitava a muovere lentamente lo sguardo sul prato erboso,
separato dal cielo da una sottile morbida linea, ed in questo loro movimento i
suoi occhi per una o due volte incontrarono la figura del falco. Fu in uno di
quei momenti che l’uccello si tirò su in tutta la sua altezza ed agitò le
grandi ali sollevando la polvere e creando scompiglio su quel piccolo groviglio
di sterpi sul quale si era adagiato per avvicinarsi al predatore terreno e
conversare con lui.
“Bene, si può sapere se mi
stai ascoltando, fratello dalle strane piume e dai denti
affilati? E dunque, pensi di fare ancora a lungo l’altezzoso con questa testa levigata
che viene dal cielo?"
Il lupo aprì la bocca e
lasciò scivolare la lingua tra i denti, per poi appoggiarla sul labbro,
tranquillamente sommossa dagli atti del suo respiro.
Il suo ghigno silenzioso e profondo,
simile a quello che aveva intravisto da vicino su facce umane, non fece che
aumentare la stizza dell’uccello, che chiuse le ali e alzò il nobile profilo
verso il cielo che tendeva ad imbrunire.
“Ebbene, che strano lupo ho
incontrato atterrando, stasera. Non ti ritieni forse come tutti gli altri tuoi
simili? Ti credi tanto superiore a me? Ah, pesante quadrupede. Io non conosco
l'ignobile gravità che alla sera ti sfianca le zampe. Io per tutto il
giorno mi libro nell’inconsistenza e nell’invisibilità dell’aere. Derubo della
vita gli animali terreni, che inferiori cercano rifugio nelle tane, codardi per
natura. Io non temo di vivere l’ebbrezza e raccolgo i frutti di questo mio
coraggio. Ogni giorno che vivo è glorioso.”
Il lupo reclinò di lato il lungo
capo, senza muovere le tonde pupille, che senza intensità ma con precisione mettevano a fuoco
la piccola figura del rapace. Un tale delicato movimento sembrava esser stato suggerito dal vento, che timido aveva sospinto il predatore per poter
andar oltre e continuare a pettinare l’erba dello spiazzo erboso.
“Tu credi, dunque, falco, di
essermi superiore?”
L’uccello si innalzò per una
seconda volta sulle grandi zampe artigliate, stringendo le sterpi secche tra le
unghie nere, esultante. Era riuscito infine a destare l’attenzione del mezzadro con il quale condivideva il terreno di caccia che per lunghe giornate osservava a testa china, in volo.
Annuì calorosamente,
accompagnando quel gesto con un fischio ben calibrato, vocalico e squillante,
rafforzando la sua convinzione con il nobile richiamo che contraddistingueva la
sua specie. Rise poi, come ridono i falchi, soffiando un poco dalle rigide
narici, socchiudendo gli enormi occhi e movendo la testa a destra e a sinistra.
Con quel verso, doveva aver dato a tutti i conigli ritardatari che nel crepuscolo si
dovevano aggirare ancora lì intorno un buon motivo per ritrovare velocemente la via
della tana!
“Ti ritieni superiore per la
forma del tuo corpo, che ti dona la capacità di librarti in alto, sopra la
terra nella quale, è vero, a volte ci ripariamo?”
Il lupo interruppe le
fantasticherie del falco a proposito dei conigli con il suo tono caldo e
scavato. Il suo pelo biancastro, striato di grigio e nero, vibrava leggermente
all’aria della sera, direzionato variamente dalle brezze ancora
indecise se rendere fredda la notte. Ma a parte il pelo, che veniva mosso così dall'aria nervosa, ora quieta ora che fischiava acutamente, non si
poteva dire che l’animale fosse animato da grande entusiasmo, interprete
com’era di quell’instancabile immobilismo.
Il falco grattò il terreno,
incapace invece a star fermo, mentre fissava con sguardo bieco e trionfante quel lupo dalle poche parole. Ne avrebbe demolito l’orgoglio e l’amor proprio.
“Superiore per la mia carne
ed il mio scheletro leggero, sì! Per la mia capacità di gioire di me stesso per
quello che so fare e concedermi a chiunque sappia apprezzarmi! Grande e
glorioso è il destino per i compagni delle distese aeree, che sfidano le rocce
di montagna con gli artigli! Ogni anno i nostri pochi piccoli divengono
principi, nutriti del sangue dei cuccioli dai manti di pelo che si nascondono sotto
il suolo! E poi, creatura dalle quattro zampe, conosci quel detto che sognanti
le pecore bisbigliano, quando sui più alti pascoli si arrampicano, ed hanno la
fortuna di intravederci mentre ci libriamo nel cielo? La bellezza è
nell’occhio. Questo modo di esprimersi è un po’ da giovane pecora, ma sta a
significare che la nostra condizione è anche quella d'esser belli. Che senso può avere la
vita, senza la bellezza?”
E guardava il lupo,
gonfiando il petto con discrezione, senza intender mostrar troppo che provava
grande soddisfazione ad esprimere quei concetti.
Il lupo abbassò la schiena e
si allungò, stirandosi e facendo ondulare la spina dorsale con un movimento
fluido, mentre mostrava il grande rosso della sua bocca incoronata di denti al
falco, con uno sbadiglio. Si stese poi, il muso appoggiato sulle zampe
anteriori. Alzò gli occhi dunque verso il falco, ed iniziò a parlar sottovoce, tanto che essa venne coperta, in alcuni istanti, dal rumore sferzante ed istantaneo del volo di un pipistrello.
“Senti…tu dici che la
bellezza è nell’occhio. Oppure sono le pecore a dirlo…ma comunque tu mi sembri
d’accordo con loro. Ebbene questo concetto viene presentato a me e alla mia
gente da quando sono nato, ci spregiano per il fango che appesantisce la nostra
pelliccia, per le unghie spezzate e le cicatrici che ci fanno penzolare le
sopracciglia. Quando non ero che un cucciolo, le critiche e i giudizi degli
altri animali mi facevano scappare entro la tana, offeso nel profondo
dell’animo. Desideravo di trasformarmi in una volpe o in un gallo cedrone, in
un capriolo o in un gheppio. Quanto era difficile sentirsi liberi, allora. Non volevo essere lupo, se per sempre avessi
dovuto rispondere a tali sollecitazioni per farmi strada nella foresta. Ma poi capii che un altro tipo di libertà era a disposizione: una libertà che deriva da una scoperta sulla realtà del mondo.”
Il falco, suo malgrado,
dovette tacere. Di rado rimaneva ad ascoltare il vociare degli altri animali,
che vivevano in basso, lontano dai nidi d’alta quota nei quali si riposava e
faceva colazione. Quella confidenza così intima lo lasciò un poco stupefatto.
Il lupo continuò.
“Cosa è mai
un occhio senza la fermezza dell’occhio, senza la profondità e la saggezza? Se
non ci fosse tradizione o legge che ci obbligasse, per velocizzare le nostre
vite di predatori e prede, ad apprezzare alcune caratteristiche che in molti
possiedono…verrebbe restituita ai saldi, ai coraggiosi, agli intelligenti, ai fedeli
e a tutti coloro che possiedono un grande spirito il primato che hanno nella
bellezza. Una bellezza che sta sotto il pelo. La bellezza di cui parli tu, è
quella che rende tutti i fratelli animali dei fratelli soli.”
Mentre ancora parlava, il lupo girò le orecchie ed alzò il capo, annusò distrattamente l’aria. Aprì nuovamente la bocca
mentre tornava a guardare il falco. Il sorriso del lupo non aveva niente di
provocatorio nei confronti del silenzio del volatile.
Dopo qualche istante l'uccello si riscosse, sfregò un poco un orecchio sull’ala,
prese la parola, ma con meno baldanza.
“Non avevo mai ascoltato
parole simili. Eppure, credo di capire cosa tu intendi per spirito. Sai, è una
cosa che ho conosciuto tra gli esseri umani. E’ mia abitudine spiarli. A volte,
riesco ad arrivar loro molto vicino e per qualche minuto mi trattengo a studiarne
le mosse originali. In un primo periodo mi nascondevo per osservarli quando
erano occupati in passatempi chiassosi, stupidi scherzi e qualsiasi cosa facessero di appariscente. Per caso, ho colto alcuni di loro in attimi della loro distrazione, quando in silenzio sembrano dormire ad occhi
aperti. Dormivano sognando. In quel momento ho come loro sono veramente.
Alcuni di loro. Ripieni di parole complesse che riescono a dire anche quando
non emettono suono. Credo che sia questo che intendi quando parli di spirito,
manto grigio.”
Il manto grigio del lupo
sobbalzò ripetutamente mentre l’animale rideva con gentilezza, come ad
approvare le parole appena pronunciate dal falco.
“Credo che tu abbia
osservato bene gli esseri umani. Questo fa parte del loro grande mistero. Alcuni dei miei antenati fecero di quegli esseri il loro branco. Ma
quelli, non sono più lupi. Quei nostri fratelli hanno
fatto del pensiero dell’uomo il loro. Fanno la guardia alle pecore e giocano
con i cuccioli umani, si dimenticano dei loro simili. Noi, siamo lupi. I nostri
pensieri sono solo nostri. Di ciascun lupo. Non sentirai mai un lupo confessare
quello che sente mentre viene sorpreso in una trappola o viene trascinato al macello. Il silenzio è il miglior modo per andarsene.”
“Una volta ho ascoltato una storia, una delle poche, a proposito di un lupo del secolo scorso che si lasciò morire dopo che la sua compagna era stata uccisa da un uomo. E' davvero possibile una cosa del genere?”
Era una domanda che sorse
spontanea ed improvvisa al falco, visto il parallelo che era sorto con gli esseri umani. Il
lupo chiuse gli occhi, o forse li abbassò soltanto. Il blu del
crepuscolo aveva imbevuto ogni cosa, tranne il bianco latteo del globo lunare
che si era reso evidente nel cielo.
“Quando la mia lupa chiama
il mio nome, io odo i rumori del mondo. Riconosco la voce della madre Terra.
Quando lei pronuncia il mio nome, allora so di essere giunto in un luogo dove
non esiste solo la mia voce. Quando lei mi chiama con la voce dell’amore.”
Il falco fece grandi i suoi
occhi, stupito.
“Perché, lupo, tu hai un
nome?”
L’animale annuì, mentre si
lasciava andare disteso su un fianco.
“Sì.”
“E qual è?”
“Perduto.”
La sorpresa del falco aumentò.
“Ma che razza di nome è?”
“E’ un bel nome. All’interno
del mio nome sta la ricerca ed infine il ricongiungimento. E’
un bel nome e mi rende felice."
“Devo andare, Perduto. L’ora
è già tarda.”
Perduto annuì, ma si fece serio.
"Stai attento, falco ben leggero. Io conosco il fango, vi ho camminato e so vestirmi di pensieri colorati per togliermelo di dosso. Ma tu, se un giorno precipitassi in un pantano, come ti libereresti da quelle libbre che intrappolerebbero le tue piume?"
"Chiamerei i lupi. Ma chissà, forse loro non mi aiuterebbero. Forse mi divorerebbero."
"Così piccolo. Sarebbe un pasto ben misero. Sarebbe uccidere per cattiveria. Non si fa."
Il lupo Perduto rimase per
un attimo immobile, quindi uggiolò e si protese le zampe verso l’uccello,
abbassando le orecchie triangolari.
“Dimmi, non ti sarai offeso per le cose che ho detto? Non sentir intaccato il tuo orgoglio.
Saper volare tanto in alto è meraviglioso. A volte sogno di saper volare. Muovo le zampe e cammino lassù, nell’azzurro, appena sotto le nuvole.”
“Vedi, sai anche volare.”
Il lupo tacque, mentre il
falco si allontanava allungando qualche passo impacciato con le corte e grandi zampe.
“Non so volare. Ma…forse un
giorno lo farò.”
Il falco ridacchiò. Desiderava
allontanarsi dal lupo e finire quella conversazione, tuttavia non si sentiva
appesantito dalle parole che erano state spese. Il lupo gli aveva mostrato
aspetti della sua specie che non conosceva, avrebbe potuto rifletterci sopra.
Sbatté le ali, con la solita forza della giovane età. Spingendo con
le zampe si alzò un poco, si trattenne a quella piccola altezza, aumentò la
forza. A poco a poco si confuse con il cielo nero. Quando fu scomparso
dalla vista, il lupo Perduto alzò la testa verso il cielo e produsse un
lungo ululato, al quale rispose il falco con un richiamo squillante.
Così si
salutarono, dopo il lungo dialogo avvenuto sulla terra, il lupo Perduto ed il
falco.
Perduto attese il ritorno
della propria compagna, con la quale si era dato appuntamento per la notte
nella radura erbosa nascosta dalle lunghe braccia degli alberi del bosco di
montagna. Quando la compagna di Perduto giunse a lui, i due si salutarono e
passarono un po’ di tempo a rotolarsi sull’erba, esorcizzando con i giochi leggeri la lunga attesa
che li aveva separati .
Il falco, su in aria, di nuovo
nella dimensione dell’ebbrezza e del dominio del corpo, presto si dimenticò
delle parole che aveva scambiato con il lupo.
Ma questo non vuol dire che, per
un qualche motivo, non potrebbe non ricordarsene in seguito. Magari al
prossimo incontro, che avverrà nell’aria, quando il lupo Perduto imparerà a
volare.
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