lunedì 31 ottobre 2011

Primo Movimento.



Evenfindr era giunto da molti anni in quella terra, una delle uniche nelle quali gli uomini riuscissero a vivere in pace, seppur semplicemente. In quella ferita aperta tra le alte montagne, un'alcova erbosa tra nodose braccia di foresta antica, l'uomo abitava tra le famiglie dei pastori, che da generazioni si tramandavano nomi, canzoni ed agnelli partoriti dai greggi degli antenati. Evenfindr era un erborista ed un cerusico e nessuno dei pastori gli aveva mai domandato per quale motivo avesse abbandonato le case di mattoni dai pavimenti più caldi e puliti delle città lontane, che nessuno di loro aveva mai visitato. Ed infatti, nessuno conosceva la storia di Evenfindr. Non parlandone mai, mangiando formaggio e bevendo latte a colazione, pranzo e cena, l'importanza dei suoi ricordi era andata assottigliandosi, fino a diventare la magra materia di qualche noioso sogno invernale. Nella tarda mattinata di quel giorno, che si prospettava assai privo di impegni per il medico del villaggio di pastori, Evenfindr si era attardato a lungo nel proprio letto per poi aggirarsi dolorante per la grande stanza che formava la sua casa. Soltanto a quella tarda ora l'uomo infine aveva aperto la porta e fatto entrare la luce carica di goccioline d'acqua e vapore. Quel giorno la foresta aveva esalato foschia ed invaso le strade silenti del villaggio con le sue esalazioni di foglie e muschio imbevuti di acqua mista a organismi.  Alzando lo sguardo verso le alte montagne che sovrastavano la piccola valle in cui si incastonava il villaggio, venne offerto alla sua vista uno spettacolo che gli parve unico. Emise un sospiro di sorpresa, che rimase sospeso a traballargli tra i denti integri, ed in piedi dietro al portico della sua casa cercò di fissare nella memoria quella visione.
Il nitido ed elevato profilo delle montagne si interrompeva al di sopra della linea dell’orizzonte, segnata dal seghettato ed oscuro profilo della foresta. Nascosti da una nube grigia e continua, un denso vapore dalla sommità piatta, gli alti dirupi apparivano separati dalla terra. La foschia era simile ad un lago infestato dalla nebbia, plumbeo come in un giorno invernale nel quale non si sappia distinguere tra il triste colore del cielo e delle acque, simili a distese di acciaio fuso che fluisca libero dalla stretta del metallo, in fuga dalla fucina di un fabbro.
Eppure, su quella distesa di grigiore d'aspetto semiliquido non vi era alcun riflesso: le montagne erano state semplicemente tagliate alla loro base e l’orgoglio millenario della pietra impediva loro di cedere alle lusinghe del vento che certo a quelle altezze girovagava, e di sventolare come bandiere, rimanendo infisse al cielo per la cima.
Evenfindr uscì dalla casa e si sedette di fronte ad essa, ancora rapito da quel panorama, appoggiò la fronte alla mano, lisciando tra le dita i capelli neri e spettinati, tagliati male, che ricadevano sul suo viso. Un leggero sorriso gli stava nascendo sulle labbra. 
Tutto attorno ad Evenfindr era calma: gli uomini erano lontani dalle case, rinchiusi nel silenzio delle gole proprio là, in alto, dove il vapore aveva creato quello specchio senza riflesso, a far concerti per i loro greggi di pecore.


“Mastro Evenfindr! Signore!”


Una voce di donna provenne dal retro della casa. 
Tutto il resto rimase inalterato, come se nulla fosse accaduto: l’aria, la brezza, che non era che un pallido simulacro del vento che addensava le nubi in lontananza, il debole sole contaminato dal grigio dell’umidità. Evenfindr si lasciò prendere dalla sensazione di esser stato a sua volta reciso dal terreno, come le montagne. Fluttuava a metri e metri da terra, perfettamente immobile, trasportato da un vento gentile che lo rispettava ed intendeva omaggiarlo con le sue danze. In basso non vedeva altro che il grigio calante dal cielo, un sipario di gocce minuscole che formavano un mosaico dai contorni confusi, il cui disegno avrebbe potuto essere riconosciuto non appena il sole si fosse affacciato ed avesse trafitto la bassa nube.
Un paio di mani strattonarono il medico e si avvinghiarono alla stoffa della sua manica, costringendolo a voltarsi ed a incontrare uno sguardo incorniciato da un volto rotondo, zigomi serrati al di sopra di una bocca spalancata.
“Mastro Evenfindr, venite subito!”
Evenfindr era tornato al mondo reale, si ricordò chi fosse, per quella gente: le sue mani erano le più morbide del villaggio, il suo tocco quello che risanava le ferite e pestava le erbe fino ad addomesticarle e costringerle a cedere l’anima per servire l’uomo. Si alzò e poggiò le dita sulle spalle della giovane, concedendole un sorriso che non le fece tuttavia mutare espressione.
“Cosa è successo?”
Inaspettatamente la ragazza lanciò un grido, allontanò bruscamente le mani dell'uomo e cercò di gridare ancora, ma le mancò la voce. Si gettò dunque in ginocchio e si lanciò in avanti per circondare le gambe del medico con un abbraccio. 
Evenfindr si spostò ma con eccessiva lentezza, forse ancora invaso dal torpore da cui si era fatto dominare per tutta la mattina, e se la trascinò dietro. Sentì cozzare la sua testa contro le ginocchia e percepì il fremito del petto, scosso da singhiozzi che si soffocavano a vicenda, trasmettendosi alle sue gambe e facendole tremare. Appoggiò una mano sul capo della ragazza e la spinse indietro, allontanandola in fretta, trattenendosi per non balbettare un'esclamazione stizzita. Detestava i moti che gli abitanti del villaggio gli riservavano. Era un uomo timido che amava la solitudine, li toccava soltanto per medicarli, ricucirli, a limite amputare i loro arti. Non riceveva con piacere i loro gesti di gratitudine o cordoglio, il contatto con le loro lacrime o il peso della loro testa su di una spalla.
“No, ti prego alzati…”
Quando si avvide che la giovane non intendeva staccarsi, Evenfindr dovette soffocare la voce in gola per non apparire eccessivamente irato, così la forzò ad allontanarsi dalle sue gambe e si inginocchiò per trovarsi alla sua altezza. Era completamente assorbita dallo sforzo di piangere.
La ragazza sbatté i pugni sul terreno, erano piccoli e bianchi e non si sporcarono né generarono alcun rumore. Lasciò ricadere in basso il busto ed il capo ed appoggiò la guancia all’erba, rivolgendo il volto rigato di lacrime ad Evenfindr.
“Signore, io dico da tutto il giorno che avremmo dovuto parlarne con voi, subito…”
L'uomo aggrottò la fronte, appoggiò una delle mani affusolate sulla nuca della giovane, facendola scivolare tra il collo e la terra, sospingendola dolcemente per farla alzare.
“Parlamene adesso.”
La ragazza seguì con il collo e con il corpo il movimento che le era imposto e rimase in ginocchio di fronte a lui. Le spalle sobbalzavano ad ogni singhiozzo, tra i quali si affrettava a porre le parole.
“Signore, ieri mattina mia sorella è morta.”
Evenfindr sentì la propria mano, a contatto con la guancia calda della giovane, divenire fredda. La ritirò lentamente, non riusciva a smuovere le dita. La depose sulla propria coscia, senza staccare gli occhi scuri dal volto della ragazza.
“Come è successo?”
Il pianto di lei si intensificò, tanto che la giovane dovette coprirsi il viso con le mani.
“Sono sicura che il peggio si sarebbe potuto evitare! Invece ha perso il bambino…”
Evenfindr si lasciò sfuggire un grugnito, chiuse velocemente le mani.
“Hai appena detto che è morta.”
Non lasciò il tempo alla montanara di rispondergli, ed aggiunse con tono asciutto.
“Capisco. Ha abortito ed in seguito è morta. L’avete lasciata morire dissanguata senza mandarmi a chiamare. Posso saperne il motivo?”
La ragazza portò con uno scatto le mani al terreno, per appoggiarsi. In quel momento pareva trattenere il terrore. Cessò i gemiti e parlò scandendo bene le parole.
“L’abbiamo trovata in un campo, in un lago di sangue. Delirava, sosteneva che il marito era stato sbranato, che le avevano portato via il suo bambino. L’abbiamo trasportata a casa e quando l'abbiamo deposta a letto è rimasta improvvisamente silenziosa. Dopo qualche ora è morta…”
Evenefindr non mosse un solo dito verso di lei. Gli sembrava che fosse diventata una statua di melma. La sua sola presenza lo disgustava.
“Chi le ha portato via il bambino?”
Non seppe perché lo aveva chiesto. In realtà, era convinto che la risposta a quella domanda fosse una soltanto. I suoi familiari le avevano portato via la creatura che aveva in grembo, la sua stessa vita. Per cosa? Superstizione, la vergogna, salvaguardia dell'onore in punto di morte... Aveva sperimentato in passato l'ira di qualche marito perché lui, medico e uomo, si era permesso di toccare sua moglie. Percepì le proprie guance che si arroventavano.
“I lupi.”
Evenfrindr quasi non udì la voce. Non si accorse che la giovane aveva parlato fino a quando non voltò gli occhi ed incontrò il suo sguardo. Il velo di lacrime si era estinto e la sua espressione era puntellata di piccole gemme luccicanti di terrore, che risplendevano sul fondo dei suoi occhi.
“Cosa hai detto?”
“Lei lo urlava! Urlava che i lupi che avevano portato via il bambino!”
Il suo tono divenne acuto e le sue parole si conclusero con un gemito soffocato. Evenfindr, ancora incapace di comprendere cosa fosse accaduto, scosse il capo. Che la giovane madre che era morta fosse stata aggredita e ferita da un branco di animali della foresta? I suoi ragionamenti furono interrotti dalle parole affrettate che la ragazza stava rivolgendogli, al colmo del terrore e con la massima accoratezza.
“E ora vogliono tagliarle la testa! Io non posso, devo fare qualcosa…voi dovete fermarli, sono terrorizzati!”
Evenefindr si alzò.
“Così vogliono seppellire la testa in qualche posto nascosto. Dove posso trovarli?”
La giovane agitò convulsamente le braccia, in preda all'esasperazione.
“No, non devono seppellirla! Mia sorella ha ripreso a parlare e muoversi, così loro hanno paura di lei e le vogliono tagliare la testa per liberare la casa dall'infestazione dei demoni che l'hanno uccisa!”
Evenfindr percepì che il suo respiro partiva in avanti verso il luogo a cui avrebbe dovuto correre con urgenza. Così, rimasto senza fiato, lo inseguì, dirigendosi verso la casa della famiglia a cui apparteneva la ragazza.


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