giovedì 30 agosto 2012

E' un capitolo primo: Klara e la storia


Parigi, 1949

Klara era molto giovane: questo era chiaro a tutti.
Era giunta a Parigi da pochi mesi, grazie alla donazione di un lontano parente che viveva negli Stati Uniti, desideroso di essere il benefattore di quella piccola macchiolina europea.
Quell’uomo di famiglia e d’impresa le aveva proposto di attraversare l’oceano e raggiungere la sua casa, le sue proprietà, perché ne potesse usufruire come una figlia generata dalla sua carne.
Klara aveva rifiutato: desiderava rimanere quanto più vicino possibile al luogo dove era nata e rimanere in ascolto per tutto il tempo in cui sarebbe stata ancora giovane. Viveva in attesa di un piccolo segnale di resa da parte di quella distesa di terre e persone, cercava nei loro volti la tenerezza ed il rilassamento della vecchiaia. Amava molto coloro che le erano rimasti accanto e non era ansiosa che diventassero vecchi e morissero: desiderava ardentemente che piegassero il collo e posassero la testa sulla sua spalla, chiudendo gli occhi, come dei guerrieri che si fossero finalmente arresi alla speranza e ne subissero le dolci conseguenze. Il futuro a quel punto sarebbe arrivato a loro con i lenti passi di una ballerina classica ad inizio atto, alta e lineare, che imita con graziosi gesti la goffaggine ed il disorientamento di chi si trova in terra sconosciuta.
Il lontano parente americano le aveva scritto che era rimasto molto colpito dalla sua risposta, dalla poesia di cui le sue parole erano intrise. Scrisse che era certo che quell’elevazione delle sue modalità espressive era dovuto alla sua storia ed al motivo della sua sofferenza.
Il luogo nel quale lei si era sviluppata rendeva straordinario il suo modo di esprimere tali pensieri ed aspettative e concluse rimarcando – si trattava della prima persona che glielo diceva – che era davvero giovane. Klara rilesse quella parola diverse volte: in quel termine il lontano congiunto aveva concentrato tutta l’enfasi del suo stupore. Nelle righe seguenti lui chiedeva che cosa le sarebbe piaciuto fare, in Europa, nell’attesa che le riserve di chi aveva intorno si sciogliessero in quella primavera dell’anima, che sarebbe giunta inaspettatamente in pieno inverno.
Klara rispose che sognava di studiare canto a Parigi.
Amava cantare, suonare, ballare. La musica per lei, ed il racconto attraverso la musica, erano motivo di grande gioia.
Il vecchio ebreo, che custodiva ed elargiva ad i nipoti d’oltre oceano i dolci ricordi di una sinagoga polacca in cui le donne e gli uomini cantavano divinamente, pianse sulle pagine della lettera di Klara e le rispose che le avrebbe inviato il denaro necessario per trasferirsi a Parigi ed iniziare i suoi studi.
Klara accettò, non aveva niente se non sé stessa, il corpo e la mente, ed era abituata a ricevere ed a vivere grazie ai doni gratuiti degli altri. Aveva assistito alla morte di coloro che non avevano accettato la generosità altrui. Rispose dunque con un laconico sì, come una sposina predestinata, senza profondersi in ringraziamenti, visto che il lontano parente aveva mostrato piacere nel constatare che lei era una creatura straordinaria.
Quando giunse a Parigi fu accolta da una famiglia che era stata contattata dal parente americano.
Le affittarono una stanza nella loro casa e la aiutarono a trovare un lavoretto. Klara cominciò a prendere lezioni di canto e si iscrisse al conservatorio. I suoi spiriti erano molto ardenti ed difficile valutare oggettivamente se avesse del talento, perché la sua volontà e la sua struggente vitalità oscuravano tutte le doti che da lei potevano sgorgare con naturalezza come da una sorgente. La famiglia che la ospitava la amava, malgrado la trattasse con una sorta di reverenziale timore, come se Klara fosse un automa il cui meccanismo di funzionamento mistico fosse per loro oggetto di studio e motivo di fascinazione. La ragazza incontrò difficoltà simili anche con alcuni dei suoi professori: in molti si lasciavano trasportare dal pregiudizio, esagerandone le qualità positive o negative. La professoressa di armonia la accusava continuamente, interrompendo ogni sua esecuzione: sosteneva che la sua storia non consisteva una giustificazione per la mancanza di esercizio e di doti musicali. Non si vergognava di esplicitare testardamente la sua impressione, ostentando un atteggiamento educatore, rimproverandola per la sua pigrizia, tratteggiandola come un imperdonabile e lascivo vizio capitale, e rimarcando ogni sua difficoltà. Klara pianse nella sua stanza a causa di quelle parole e concluse la giornata certa che quella donna nascondesse una fede nel partito nazista ed un odio contro l’ebreo. Cambiò professore di armonia e non volle più avere niente a che fare con quella donna, che omettendo di osservare la sua dedizione ed i suoi progressi la accusava di difettare sia nell’impegno che nel talento, contro i fatti.
Klara era molto carina ed alcuni conoscenti la invitarono a cantare nei loro locali. Molti avventori ne furono affascinati per la sua abilità con il pianoforte e la sua audacia nell’accostare la bocca ad un clarinetto. Le chiesero come si chiamava e l’assonanza esotica e dura del suo nome li fece rimanere di sasso.
Klara Kalovi continuava a lavorare e due o tre volte la settimana cantava e suonava nei locali. Conobbe molte persone e tutte manifestavano il loro stupore verso la sua persona concentrandola in quelle due parole, proprio come aveva fatto il lontano parente: sei giovane.
Avevano nostalgia della giovinezza e vedevano in lei l’ideale dell’incostanza, della vaghezza, della gioia effimera della bellezza. Klara riconosceva di essere giovane, e si sorprendeva a sua volta, perché questo fatto era in contrasto con ogni sua precedente previsione: aveva compiuto diciotto anni quando pochi anni prima era quasi certa che sarebbe morta. Aveva avuto la scabbia e la polmonite. Era diventata pazza per la stanchezza e l’umiliazione. Aveva lavorato con le sue piccole mani sporche.
Alle persone non sfuggivano le cifre numeriche tatuate sul suo polso. Klara non aveva mai parlato con nessuno di quella parte della sua vita e temeva il momento in cui avrebbe dovuto farlo.
Aveva paura che d’improvviso si sarebbe accorta che non era giovane, ma vecchia, incapace di gioire e cantare, un corpo provato dalla ricerca della riabilitazione dei sensi.
Viveva la vita a Parigi con tutta l’intensità della condannata a morte, come era avvezza a fare. Baciava gli uomini come se avesse dovuto dir loro addio il giorno seguente, era ingorda di sapere e di libri, studiava fino alla tarda ora in cui era venuta l’ora di coricarsi.
Si vestiva semplicemente e non applicava particolari abbellimenti sulla sua persona: se amava godere, al contrario non amava mangiare, provava una sorta di diffidente avversione per il cibo, soprattutto se solido, e per questo motivo era molto magra. I vestiti che indossava le cadevano addosso come una seconda pelle sgualcita, dai colori tenui e mai sgargianti. L’unica originalità che si permetteva erano cappotti e cappelli: d’inverno indossava una pesante pelliccia e si copriva la testa e le orecchie con grandi copricapi o turbanti. Questo suo modo di vestire era interpretato come stravaganza, è così giovane, dicevano, anche se Klara sceglieva quegli abiti impegnativi per un gran senso del freddo. Era freddolosissima e se usciva di casa con la testa scoperta aveva la sensazione di star per svenire.
Klara entrò a far parte di alcuni circoli di universitari. La divertiva ascoltarli parlare di arte e letteratura, confrontava quelle lezioni gratuite a quelle che le erano impartite dai suoi professori, a scuola, e le trovava infinitamente migliori. Chiedeva ai suoi amici di ripetere i nomi difficili e di rinfrescarle la memoria su argomenti che avevano discusso durante gli incontri precedenti e loro rispondevano a quelle domande con trasporto ed abnegazione. Sapevano che Klara veniva dalla Polonia, avevano sbirciato la serie di numeri sul suo polso tagliente e coccolavano con le loro attenzioni e la loro pazienza l’immagine della sua magrezza di usignolo, che tanto bene si accordava con la sua voce paradisiaca. Era la più giovane di loro, la più audace, la più ingenua, la più decisa. Se voleva qualcosa, anche fosse la soddisfazione della propria ignoranza, la chiedeva senza vergogna, perché ciò di cui le importava era soltanto la propria realizzazione.

La domanda le fu posta una sera in cui si trovava a casa di un amico. Avevano cenato tutti assieme, bevendo e scherzando. Klara aveva cantato per loro, accompagnando con la sua voce da mezzosoprano il coro degli studenti, guidandoli attraverso il testo della canzone senza ostentare le sue doti di comando ed il suo carisma.
Dopo cena tutti gli invitati si spostarono nel grande salotto, le cui pareti erano completamente occupate da librerie, che ospitavano una collezione ammirevole di volumi. Di fronte al caminetto bianco si apriva una grande porta finestra attraverso la quale si accedeva dalla terrazza: da lì si godeva di una bella vista di Parigi. Quando tutti si furono seduti, il padrone di casa andò verso la finestra e la spalancò, lasciando entrare la fresca aria primaverile dentro la stanza. Tutti espressero la loro ammirazione, come se soltanto adesso potessero osservare la città che al buio si manifestava come una costellazione, e si avvicinarono all’apertura, chi trascinando chi sollevando la sedia.
Klara rimase dov’era, lontana dalla terrazza. L’aria fredda della notte non le ispirava nessun desiderio di vicinanza e le generava un tremito.
Forse la domanda fu ispirata dal suo controllato immobilismo, che non si concedeva al tremore, forse dalla sua figura longilinea che era rimasta in penombra, illuminata soltanto dalle luci delle lampade.
“Klara, parlaci della tua vita nel campo di concentramento.”
Klara non rispose.  Non sentiva timidezza né orgoglio: niente che le impedisse di parlare. Era quello che aveva sempre temuto. Ma non appena iniziò a parlare, capì che qualcuno era giunto a salvarla nel momento del bisogno.
“Quando ero bambina, vivevo con mia madre e mio padre a Varsavia. Eravamo una grande famiglia e vivevamo felici. Ricordo che un giorno giunse a vivere con noi il nipote di mio padre. Per me fu come se fosse giunto il fratello maggiore dopo un lungo viaggio. Ricordo che prima della guerra mia madre, le sue sorelle e zie prepararono una grande cena e furono invitati tutti i parenti e gli amici che vivevano a Varsavia. Io non avevo voglia di aiutarla, così mi nascosi in giardino. Mi addormentai nascosta in un cespuglio. Fu mio cugino a svegliarmi e per divertirmi mi mise in testa un’idea: mi disse che avrei dovuto inventare una storia e raccontargliela l’indomani. Ricordo che per tutta la sera intervistai i parenti e gli amici musicisti: li feci suonare per me uno per uno. Saltavo in mezzo a loro mentre suonavano i duetti. Tutto era musica, quella sera, e la mia storia fu ebbra di musica. Nel momento di coricarmi ero sfinita: la mia storia era affollatissima di personaggi e canzoni ma io non riuscivo a formularla. La mattina seguente confessai a mio cugino il deludente epilogo: lui fu molto dolce e mi disse che il mio era stato il miglior risultato possibile. In molti riuscivano a decidere la loro storia in una sera soltanto, è un privilegio di pochi invece rimanere nell’attesa ed osservare il mondo più a lungo, facendo crescere la storia come un giardino. Mi disse che la mia storia sarebbe sbocciata nella stagione primaverile. Mi disse che avrei dovuto sempre ricordare i personaggi che avevo scelto ed osservare le loro gesta, apparentemente sconclusionate, per il tempo che sarebbe bastato. La mia era una storia in divenire.”
Sorrise al ricordare suo cugino Adam. Aveva voglia di abbracciarlo e carezzare quei suoi riccioli selvaggi. Nella stanza attorno a lei era silenzio. Una storia su un argomento del genere non avrebbe potuto essere interrotta, per quanto assurda e scollegata dalla realtà.
“Poco tempo dopo, noi ebrei di Varsavia fummo costretti ad indossare una stella gialla sui vestiti. Non potevamo entrare nei ristoranti, passeggiare nei parchi, camminare sul marciapiede. I miei genitori ed io fummo costretti a trasferirci nel ghetto. Mio padre morì. I tedeschi ci fecero uscire tutti dalle case e io persi mia madre. Giunsi da sola al campo di concentramento. Non è stato facile sopravvivere, a causa della violenta fisicità di quel luogo. Ho nuotato per anni su un’onda lunga, che non si è mai infranta, fino a quando non ci hanno liberato. Molti di noi sono impazziti, accecati dal dolore e dalle privazioni. Erano muti, smettevano di mangiare, non ci riconoscevano più. Io ero molto forte e disumana. Io ho continuato ad immaginare la mia storia di musicisti e musica. Ho continuato a pensare a mio cugino Adam, quasi ogni sera mi sono addormentata pensando al fatto che il giorno dopo gli avrei raccontato un nuovo episodio. I personaggi che avevo individuato la sera della grande cena erano lì, attorno a me: il rabbino, il cantore, il violinista rom, il trombettista che ha perso il l’amore, il direttore d’orchestra, il contralto dalla bella bocca carnosa e drammatica…I personaggi erano brutti e sporchi, vestiti male e tristi, ma erano lì, attorno a me. La storia era secca, al momento, ma in divenire.”
Klara sospirò profondamente e qualcuno tra gli ascoltatori la imitò, forse commosso.
“Volete sentire la storia che raccontavo a mio cugino Adam?”
Qualcuno annuì, senza parlare.
“La storia narra di un medico. E’ la storia di una bambina, siate magnanimi, ve ne risparmierò i particolari più infantili. C’era una volta un medico. Essendo giovane e senza conoscenze, dovette ingegnarsi per trovare dei dipendenti da assumere a poco prezzo nel suo ospedale. Lesse sul giornale che il teatro della città aveva chiuso i battenti e decise di andar ad offrire un posto di segretaria ad una delle artiste che aveva perduto il lavoro. Disse loro che avrebbero svolto i colloqui sul palco, ormai vuoto da spettacoli. Dovette esaminare attrici, acrobate, mangiatrici di spade, clownesse e cantanti. Una gli recitò la patetica morte di un’innamorata, mentre fingeva di rispondere al telefono, una fissò un appuntamento mentre si contorceva, tutta sotto sopra, un’altra lo chiamò, Dottore! Dottore, un’emergenza! Concludendo con una nota acutissima da valchiria wagneriana. Il medico stava per gettare la spugna quando una gentile signorina si fece avanti e si propose come segretaria. Era stata licenziata dal coro del teatro ed era in cerca di miglior fortuna. Lui prese la palla al balzo ed assunse la signorina alle sue dipendenze. Ben presto fece di lei il suo braccio destro: la signorina ammansiva i pazienti impegnandoli in cori patriottici, domava i vecchi capricciosi cantando le loro canzoni preferite e calmava i bambini isterici con dolci nenie. Ben presto l’ospedale fu tanto gremito che il dottore dovette cercare altro personale. Naturalmente affidò il compito alla signorina, che si affrettò ad assumere tutti i musicisti del vecchio teatro. Così, l’ospedale divenne il tempio della musica: ogni reparto aveva una sua orchestrina, i pazienti cantavano accompagnati dalla musica del violino e del contrabbasso, i bambini ricoverati erano istruiti sull’uso dello strumento. Il successo della struttura fu enorme ed il medico fu chiamato dal sindaco per ricevere i complimenti per la geniale trovata con la quale lui aveva inventato un nuovo tipo di ospedale…”
Klara si fermò perché si accorse che una delle sue amiche stava piangendo. La guardò a lungo, prima di riuscire a dirle qualcosa.
“Non devi piangere, è una storia buffa!”
Il padrone di casa raggiunse l’amica e la abbracciò, accogliendo sulla propria spalla i suoi singhiozzi, quindi rivolse un sorriso mansueto a Klara.
“E’ vero, Klara. È solo che la tua storia è molto dura. La nostra amica si è messa nei tuoi panni ed ha provato dolore. Ti siamo molto vicini e soffriamo con te.”
Klara continuò a guardare la ragazza scossa dai singhiozzi. Il suo amico aveva ragione: la storia era buffa ma trattandosi della sua storia era dura. La storia del medico e della signorina era buffa ed ingenua, non avrebbe potuto far piangere nessuno, ma soltanto uno sciocco avrebbe potuto credere che si trattava della storia del medico e della segretaria. Era la storia di Klara. Eppure, Klara avrebbe voluto che la sua amica si asciugasse le lacrime grazie all’intuizione che quella ridicola storia rappresentava un’ancora di salvezza alla realtà, l’amata realtà di Klara. Se solo la ragazza avesse potuto vedere la faccia, rugosa come una pergamena, della nonna Sarah, che aveva una voce tanto flebile e commuovente da ricordare quella di una bambina, oppure i baffi dello zio Konrad che ondeggiavano selvaggiamente, come due serpi, mentre lui suonava la viola, o l’audacia del piccolo Filip che malgrado le sue dita fossero corte e paffute cercava di spodestare il suo anziano padre e dominare la sua fisarmonica, o ancora le sorelle Anna ed Elisheva che cantavano come due angeli ma nel mezzo della canzone scoppiavano a ridere come due iene e non la smettevano più, tanto che rotolavano a terra, mentre la musica continuava…
Klara era consapevole di essere l’unica superstite di quella concitata orchestra che aveva visto la luce quella sera, nella sua casa di Varsavia, alla cena offerta dai suoi genitori. All’epoca, le era permesso di cantare come è permesso a tutti i bambini e nessuno le chiedeva di essere coerente, bastava che vivesse e si divertisse, aggirandosi liberamente tra quei musicisti e scegliendo ogni momento un nuovo favorito a cui ispirare le sue scelte future.
La sua famiglia era sterminata ed aveva rivisto alcuni di loro nel campo di concentramento: si trattava di incontri sfuggenti e di scambi di parole poco approfondite, prive di coraggio. Nessuno aveva voglia di parlare con Klara, una bambina senza genitori che avrebbe potuto lasciarli da un momento all’altro. Nessuno dei suoi eroi aveva il suo strumento con sé: erano folli e stanchi, pieni di pulci. Eppure la visione di quei visi familiari, di quelle mani che un tempo si erano contorte sullo strumento loro amico le regalava un istante di ebbrezza e di aspettativa, che si spandeva sui nodi delle sue deboli forze e donava loro nuova robustezza. Aveva immaginato che la sorte degli altri personaggi della sua storia (della cugina Halina e di suo figlio Moses, dei fratelli Jurek e Stefan…) fosse stata del tutto simile e così, giorno dopo giorno, il teatro era stato smantellato e tutti i musicisti si erano trovati nel campo di concentramento, nudi ed affamati. I loro strumenti erano stati venduti sulle bancarelle in cambio di un pezzo di pane, di una coperta, il teatro era stato dimenticato e le bombe ed i cannoni non lo avevano risparmiato, ciechi di fronte a quella reliquia a cui nessun uomo faceva più attenzione. Klara aveva scrutato per anni al di sopra delle teste che affollavano il campo, mentre lavorava: lei aveva la fortuna di sapere in anticipo che sarebbe giunto il dottore, così avrebbe giocato d’astuzia, per il bene di tutti, ed avrebbe fatto in modo di presentarsi in modo consono per essere assunta per il posto di segretaria, accedere al mondo lindo dell’ospedale e poi fondare una nuova orchestra.
Sapeva che la maggior parte di coloro che avevano ispirato la sua fantasia erano morti o non avrebbero mai più suonato. Non appena uscita dal campo, questo pensiero l’aveva resa triste. Poco tempo dopo essere stata liberata fu trovata da suo cugino Adam.
Lui stette a lungo con lei, in ospedale, insistette affinché lei gli raccontasse quella storia che tanti anni prima lei aveva detto esser ancora incompiuta e non adatta all’ascolto di un pubblico.
Dapprima Klara si era molto irritata a causa di questa richiesta, gli aveva chiesto di andarsene ed aveva mostrato indifferenza. Un istinto irresistibile le suggeriva di tenere nascosta la storia ad Adam, di non confidarla mai a lui né a nessun altro. Presto sarebbe uscita dall’ospedale e sarebbe tornata alla sua vita, una vita senza famiglia, amici né orchestre.
Di fronte all’insistenza del cugino, Klara aveva ceduto ed aveva confessato il motivo delle sue rimostranze.
“Provo molto dolore. Tutti coloro che erano musicisti nella mia storia sono morti. Li ho visti consumarsi.”
Adam la aveva abbracciata e le aveva baciato la fronte come se la pelle di Klara fosse una cosa sacra. Klara aveva tremato e poi aveva percepito il segno umido di quel bacio in mezzo alla propria fronte, come se lui vi avesse dipinto qualcosa.
“Sono felice che tu abbia conservato quei nostri musicisti nella tua storia.”
Klara aveva pianto, disperata.
“Sono rimasti i musicisti, le maschere della mia fantasia. Le persone sono morte.”
Adam aveva parlato a lungo. Le aveva detto che molti anni prima lei aveva scelto un manipolo di musicisti ubriachi per quella storia che doveva soltanto divertirla. La scelta era stata tanto azzeccata che i musicisti erano rimasti con lei per molti anni ancora. Aveva riconosciuto i loro volti e le loro mani anche in assenza degli strumenti. Aveva provato nostalgia per la loro musica, aveva desiderato cantare.
Le chiese se si ricordava come era nata quella storia.
Lei disse di no e lui le raccontò di una bambina che gli aveva detto di aver sognato, dopo aver dormito sul prato. Lui le chiese che sensazione le aveva trasmesso, quel sogno, e lei aveva risposto: che ho voglia di cantare.
Il canto è una cosa che viene prima di noi, Klara.
Così le aveva detto.
La musica noi la raccogliamo ma esiste anche oltre i confini dell’uomo.
Klara pensò all’inumano campo, che si trovava ben oltre i suoi confini. Pensò al silenzio orribile, alle orchestre animate dai prigionieri su cui grava una condanna senza giustificazione. Quella era la musica dell’inferno, quello era un impasto che le soffocava la mente.
Adam le aveva toccato il cuore, con una mano. Premette le dita sullo sterno, con decisione.
Klara, la tua storia sta andando. La tua storia sei te. È cominciata quando hai sognato, è cominciata quando hai avuto voglia di cantare. Tu non hai mai smesso di aver voglia di cantare, non hai mai smesso di cercare chi suonasse.
L’unica speranza contro la diseredazione è fare della storia la nostra storia. Tu hai rifiutato quella terribile storia che ogni giorno ti si propinava ed hai vissuto la tua storia. Sei sopravvissuta. La tua storia è qui, tu sei qui. Vivila. Raccontami.
In quel momento Adam stava piangendo. Klara lo aveva osservato, senza muovere nemmeno un dito per asciugare quelle lacrime. Erano le lacrime di un giudice buono, che le annunciava il proscioglimento, che la avrebbe abbracciata una volta che la seduta fosse stata tolta. Osservò con intensità quelle lacrime trasparenti, avrebbe voluto berle, nutrirsene, impastare la propria bocca con il liquido che proveniva dai suoi occhi. Si sentiva bene, di fronte al cugino piangente, protetta dalla sua guida, dalla storia che lui diceva essere sua.
Glielo disse e lui smise immediatamente di piangere ed invece sorrise. Le disse che era stato istruito, in tal senso, da uno spirito incontrato nell’immenso e sterminato bosco. Gli insegnamenti di quel folletto gli avevano salvato la vita in più di un occasione.
Ed ecco che inizia un’altra storia, la tua, gli disse Klara, ed entrambi furono felici di aver parlato e di essersi ritrovati.
Klara si alzò ed andò vicino alla sua amica, mentre il padrone di casa le lasciava lo spazio dovuto, la abbracciò e la baciò su una guancia, teneramente.
“Su, su, non piangere. È la mia storia, lo so. È la storia che mi ha salvato, è una storia in divenire.”
La ragazza alzò verso il suo volto uno sguardo inargentato di lacrime, parlò, scossa dai singhiozzi.
“E cosa succederà ora?”
Klara sorrise e le accarezzò i capelli. Tutti gli invitati si erano riuniti attorno a loro, attendevano con impazienza che Klara condividesse con loro un pronostico. La giovane cantante si sentì molto felice: erano catturati dalla sua storia. Adam ne sarebbe stato soddisfatto: quello era un segno che il racconto dei musicisti stava crescendo su un fertile terreno.
Quando avrai un pubblico, proverai il piacere di sentire la tua storia vivere.
Aveva ragione, come sempre. I suoi consigli, e quelli del suo folletto silvestre, non sbagliavano mai in fatto di storie.
“Ho voglia di guadagnare di più e studiare di più. Ma più che altro, ho voglia di cantare. Sarebbe bello formare un’orchestrina. Qualche elemento qui a Parigi lo potrei trovare. Ho contatti con un parente americano. Sarebbe bello andare in America e scoprire qualcosa sulla musica che fanno là. Cantare nei loro locali, sperimentare nuovi strumenti.”
Strinse tra le dita la mano della ragazza, che non piangeva più, ma splendeva di pianto mentre sorrideva intensamente, e si eresse in piedi, invitando gli altri a seguirla, con un gesto eloquente del braccio.
“Andiamo, siete tutti invitati! Vi assumeremo in ospedale e poi tutti insieme in tournèe negli Stati Uniti!”
I suoi amici risero e Klara si unì a loro, felice ma allo stesso tempo un po’ scossa. Dopotutto, era la prima volta che raccontava quella storia. Qualcuno avrebbe potuto accusarla di leggerezza. Avrebbero potuto pensare che aveva tralasciato i fatti e tratteggiato in modo fantasioso i suoi ricordi soltanto per conquistarsi la simpatia di quella compagnia. Chi erano questi accusatori?
Klara li immaginava cilindrici, alti, ed impugnavano una frusta. Li conosceva bene e sapeva che potevano essere mortali. Ma in quel caso, sapeva anche cosa rispondere loro: non mancava di rispetto a se stessa per una questione di vanità. Impugnava l’unico modo utile che le avevano insegnato per sopravvivere, a parte bere e mangiare. Cosa c’era di vergognoso in questo? Avrebbe dovuto dispiacersi di essere individuale, diversa dagli altri? Aveva combattuto con una divisa a righe e con tutte le arpie che popolavano gli incubi per non ridursi ad un granello di terra e l’ideologia del lutto non l’avrebbe avuta vinta. Non si fidava di chi oggi ostentava un lutto: un domani avrebbe desiderato seppellire lei e tutti coloro che erano diversi, per nuovo motivo, venuto alla luce con l'ingannatore sembiante di un bimbo.
Alcuni degli accusatori avevano tuttavia un aspetto diverso: si trattava della coppia francese che le affittava la stanza, della professoressa di armonia, degli avventori dei pub, delle amiche di scuola, dei fidanzati. Alcuni di loro sorridevano, inteneriti, di fronte al suo modo di essere, e sospiravano, ricolmi di ammirazione: sei giovane. Questo non sarebbe durato per sempre. L’influsso del suo aspetto sarebbe venuto meno e mano a mano il ricordo del campo si sarebbe affievolito nella mente dei suoi alleati. Contemporaneamente, le righe verticali della sua divisa sarebbero riaffiorate dalla sua pelle e niente sarebbe valso a nasconderle. La serie numerica sul polso avrebbe luccicato, come Lucifero, invitando amici e conoscenti ad una festa che non era un concerto. Non le avrebbero chiesto di cantare, le avrebbero chiesto, con il solo sguardo, di non essere sconveniente e non risvegliare la tristezza, di non attardarsi nei pensieri e di agire, di non distinguersi dalla massa per futili motivi. Le avrebbero chiesto di dimenticare, non appena il puzzo di cenere e polvere si fosse alzato dalle loro città, portato via dal vento.
Klara era certa che sarebbe accaduto: la sentiva come una maledizione a tempo, rodata da secoli, nei quali le vittime, i carnefici ed i misfatti erano scivolati via dalla mente di tutti.
Klara avrebbe combattuto: non si trattava semplicemente della Storia, tanto ineluttabile e disumana. Si trattava della sua storia ed in quella sua storia lei avrebbe rifiutato le accuse ingiuste ed avrebbe continuato a raccontare, a coltivare quelle piante e quei fiori nell’alternarsi delle stagioni.
Alla fine della serata Klara uscì dalla casa dell’amico e si avviò a piedi verso l’ospedale. Il dottore l’attendeva dietro l’angolo, appoggiato ad un lampione. Klara non fu sorpresa di vederlo ma allo stesso tempo se ne sentì affascinata: era così bello, con il volto magro incorniciato da una nuvola di fumo, mentre la debole luce arancione del mozzicone incandescente si irradiava sui suoi lineamenti.
“Non pensavo che saresti venuto a prendermi.”
“Ho finito il turno ed ho pensato che non sarebbe stato conveniente farti accompagnare a casa da uno di quei tuoi amici artistici.”
“Ma io sono sempre andata da sola fino a casa.”
“Non stasera. Sono un medico e preferisco prevenire che curare.”
Il dottore le offrì il braccio e si misero a camminare sul marciapiede, l’uno accanto all’altra.
“Sai, l’ospedale va bene, avremo bisogno di nuovo personale. Avrei piacere che fossi tu ad occupartene, ma non sono certo che sia una buona idea.”
“Ma certo che lo è! Lo farò con molto piacere, tesoro!”
“Infermieri, biologi…sei una cantante, per quanto buon senso tu possa avere, dove credi di poterli andare a scovare?”
“Ho già in mente qualcuno. Provare per credere.”
“Va bene. Credo che in fondo tu meriti la mia fiducia.”
Klara rise e gli dette un bacio sulla guancia, alzandosi sulla punta dei piedi.
“Sai, stasera abbiamo parlato di mio cugino Adam. Credo che dovrei scrivergli.”
“Quel matto, quel bel matto. Sì scrivigli. È da quando ti sei addormentata sul prato che non sento la sua voce. Avrei piacere di conversare un po’ con lui. Avrei voglia di chiedergli cosa sia la fantasia, cosa la realtà. Ho una certa difficoltà nel distinguerle. Forse perché sono un prodotto della fantasia e fa parte della normalità della mia vita provare questo disagio.”
“Ti assicuro che anche per me è così.”
“Ma allora siamo uguali. È davvero difficile riuscire a distinguere. Scrivi a tuo cugino, ti prego, vorrei sentire il suo parere.”




domenica 19 agosto 2012

Una recensione sbagliata: L'immortalità, di Milan Kundera


Come è lecito parlare di una cosa del genere?
Comincerò con il dire che cosa ho fatto: ho letto un libro. Ho letto L’immortalità di Milan Kundera. Non è stata una lettura facile, il libro è complesso, non mi sento di designarlo con l’avverbio molto per la grande plasticità della scrittura che trasporta verso l’avanti ed oltre la fine del libro, nel futuro e verso l’ignoto. (Ah, e credo di doverlo dire...questo commento contiene spoiler!)
Vorrei cominciare con il dire che il narratore, Kundera stesso, è un personaggio che si trova nel libro ed a volte ricopre un ruolo fondamentale negli eventi del racconto, rendendosi causa, con le sue azioni e le proprie motivazioni, di ciò che avviene ai personaggi. Rompe quell’illusione letteraria del narratore a noi contemporaneo ed oggettivo, facendo parte di un tempo di azione dei personaggi che non è il nostro. L’autore è con loro, è uno di loro. E noi, che siamo come lui, che cosa siamo? Tutto il racconto e tutto il mondo che vi ha luogo è parte della sua soggettività che è cosa tanto vera da costituire il reale. Il professor Avenarius, un personaggio tanto tenero da farmi venire voglia di abbracciarlo, ascolta il racconto di Kundera e ne fa parte a sua volta, incontra i personaggi e li conosce di persona in luoghi dove potremmo passeggiare noi stessi, Kundera, io e te. Ogni piano, quello del racconto e quello della realtà finta sono collegati dalla casualità e dalla contemporaneità.
Il caso che determina gli incontri e gli eventi dei personaggi viene fatto risalire al caso quotidiano di Kundera, che ha la reale conseguenza di mettere in moto la sua immaginazione. Il caso è l’immaginazione che è la realtà. Non siamo altro che noi con la nostra miglior capacità creatrice, di idee, di relazioni, di immaginare le menti degli altri, dei morti, dei personaggi, dei conoscenti. L’Immortalità, sotto questo punto di vista, è la generazione spontanea dell’invenzione, che determina anche la supremazia della biografia sulla letteratura prodotta dagli stessi autori Goethe ed Hemingway che si personificano in alcuni capitoli del racconto. Goethe non risulta morto, coerentemente alla trama del romanzo, perché continuiamo ad immaginare lui e ad imparare dall’immagine che rinnoviamo. La dimensione storica in progressione è costituita dalla capacità immaginativa, ma qui entra in scena il paradosso: l’immaginazione necessariamente lascia da parte la coerenza e si rischia infine di imparare a spese di Goethe e di stravolgere ciò che lui aveva vissuto nel suo presente. Così il mondo si popola di asini integrali e di simpatici alleati dei propri becchini.
Per quel che riguarda la trama del libro, questa ripercorre la storia del gesto, del saluto fatto con il braccio e con la mano dall’anziana signora, dalla segretaria del padre, da Agnes e da Laura. La storia non ha un lieto fine: interpretato da Laura e misinterpretato da Paul il gesto finisce per morire per mano di coloro che non lo avevano compreso e chissà quando mai tornerà a vivere. Vedo in quel gesto l’amore morente, essendo vissuto ormai come personificazione completa e svuotato del suo assoluto, divenendo così inspiegabile ed incomprensibile (l’amore non può essere spiegato con le persone, l’amore c’è, esiste anche in assenza delle persone: l’amore esiste oltre i confini dell’amore). Paul e Laura, uccidendo Agnes, hanno ucciso l’amore. Nel romanzo si incontrano ancora molti altri gesti che si ripetono e caratterizzano i personaggi e le idee di cui si costituiscono ambasciatori: il gesto di Brigitte, osservato da Agnes all’inizio del romanzo, nello spogliatoio della piscina, interpretato dalla ragazza simile ad un angelo: Brigitte e l’angelo parlano concitatamente alzando le spalle e le sopracciglia contemporaneamente, in un movimento che io immagino simile a quello del coperchio sulla pentola che trabocca. È il gesto di coloro che sentono di star difendendo il diritto umano, secondo la concezione illustrata da Kundera. 
Non si tratta di un vero e proprio gesto, ma possiede i personaggi come interpreti con la sua stessa modalità: il rossore indotto dal pudore, che caratterizza i due punti di maggior erotismo di tutto il romanzo.
I gesti sono tanto importanti che l’eroina del romanzo, Agnes, nasce come la Venere rinascimentale dal più dolce ed affascinante di questi: il gesto del saluto con la mano che ha il potere di gettare un velo dorato ed irresistibile sulla realtà che si trova attorno. Kundera descrive la sensazione che prova quando Agnes viene alla luce da quel gesto, che lui ha osservato interpretato dalla signora sessantenne a bordo piscina: la nostalgia. Kundera ha nostalgia di Agnes, Agnes nasce dalla nostalgia. Questa sensazione che incontriamo al primo capitolo mi richiama con grande forza un’affermazione di Paul che si trova nell’ultimo capitolo del libro: la donna è il futuro dell’uomo. Agnes è la donna integrale, vera, che sente il suo corpo come un corpo di donna e non come un vestito.
Dunque io direi che Agnes è il futuro dell’uomo, che la nostalgia di Agnes è il futuro dell’uomo.
E questo è dimostrato dalla realtà, visto che Kundera ha nostalgia di Agnes.
Il futuro è la nostalgia di Agnes (e della donna) perché Agnes è morta, la donna è morta, uccisa e sostituita dal suo simulacro, Laura.
Paul ha dimenticato Agnes, non spende una sola parola per lei e preferisce la sua nuova moglie alla vecchia, tuttavia è ancora possibile che Agnes, la donna e l’amore, rinascano, se la nostalgia crea una sensazione evocativa nell’uomo. Ed ecco che infatti, all’inizio del romanzo (e non alla fine! E questo è molto importante perché l’inizio non è soltanto l’inizio del romanzo, è un inizio assoluto, è l’inizio dell’immaginazione), Kundera ha nostalgia della donna e dell’amore ed ecco che Agnes nasce, percorre la strada, ha pensieri, si avvia verso il suo futuro. Purtroppo la storia è circolare, perché una volta nata Agnes è destinata ad andare incontro alla morte e piombare di nuovo nella dimenticanza, fino a che Kundera o chi per esso non si distrarrà dal suo simulacro e la farà risorgere come l’araba fenice.
Agnes è la fautrice di notevoli pensieri e ragionamenti per tutto il romanzo, tuttavia io ho trovato una sottile connessione a prima vista non eclatante, tra lei ed un personaggio che sembra avere molto più a che fare ad altri che si riferiscono al tema dell’immortalità.
Goethe stesso, Hemingway e Paul sostengono con decisione che i biografi hanno preso il sopravvento sulla letteratura prodotta consapevolmente dallo stesso autore.
L’unico passo in cui questa verità apparentemente inconfutabile viene contrastata è quello in cui Agnes ricorda la poesia in lingua tedesca che il padre le aveva insegnato e sulle parole della quale solevano marciare durante le passeggiate in montagna: la poesia è riportata integralmente e l’autore, Goethe, non viene nemmeno nominato!
In questa forma, la poesia acquisisce grande importanza per Agnes ed il padre e lo spirito del Goethe reale viene perfettamente rispettato.
In questo passo, l’immortalità di Goethe non è illusoria, ma è reale. Da qui si desume che nel libro è nascosta non tanto una teoria sull’immortalità, ma una disputa tra l’immortalità silenziosa di chi apparentemente sparisce, come Agnes e suo padre, ma può risorgere evocato dalla nostalgia generata da un gesto o da una poesia, e l’immortalità apparente dei biografi che rianimano continuamente le carcasse di Hemingway e Goethe per violentarli.
Un’altra cosa che mi ha colpito è l’assoluta predominanza in questo romanzo dell’erotismo sull’amore: l’amore viene definito una volta soltanto, nell’episodio di Goethe e Bettina, ed è identificato con la figura del figlio. La paternità (o la maternità) può essere teoricamente rifiutata ma viene involontariamente provocata nel momento in cui si vive un amore vero. L’amore inoltre viene beffardamente fatto galleggiare sulle ardenti immagini rispecchiate dagli eroi della letteratura europea, che sono incapaci di conciliare l’amore vero con il sesso, relegando il primo ad un’esperienza extracoitale (e sterile, separata dalla generazione del frutto naturale, il figlio). Da questo paletto culturale, la triste fine come grassa morsicatrice della possente moglie di Goethe, Christiane, che se Bettina non ha potuto scacciare dal suo letto e dal suo tetto lo ha potuto fare, nella dimensione dell’immortalità, la tendenza degli scrittori verso l’erotismo puro.
Collateralmente a questo argomento si svolge anche la storia tra Agnes e Rubens: lei non pensa a lui neppure per un attimo, durante tutto il romanzo. Lo nomina di sfuggita una volta come un volto anonimo, per il semplice motivo che nel momento rievocato dalla sua memoria si trovava con lei. Ma a quel punto del romanzo noi non sappiamo chi sia Rubens e non immaginiamo nemmeno che gli sarà dedicato il lungo, penultimo capitolo, e dunque passiamo sopra a questa fotografia con la stessa noncuranza con cui vi passa Agnes, presa da ben altre riflessioni. Anche nel momento della morte, Agnes non lo rievoca neppure per un istante. Rubens è il vero mortale e ne diventa consapevole sul finale del capitolo in cui prende la parola.
Questo libro parla di morte e rinascita, che duettando cantano l’essenza dell’immortalità. La morte dell’amore ed il momentaneo sopravvento del simulacro detengono già in sé la rinascita dell’amore stesso (che non avverrà alla fine, ma all’inizio, un inizio che sta sempre all’inizio anche se in realtà è la fine), perché l’amore esiste, come i gesti, al di là dei confini dell’amore che può essere vissuto nel momento corrente. In quanto a Goethe, riposa anch’esso, ruht er auch, immortale, nei propri versi inimitabili che vengono rievocati da una figlia, per amore del padre, senza che nemmeno lei si ricordi chi li ha scritti. 

venerdì 10 agosto 2012

La Tempesta, i pensieri di Ariel


Ho perduto le mie rotelle.
Sospiri ed urla di normalità, in strada. Soltanto ora ti sei accorta che sono io, a parlare? Sorrido. Lo annoto perché so che potresti non notarlo. Dicono tante cose di me. Le scrivono. In pochi le leggono. Il Padrone le legge. E le scrive. Lui legge e scrive tutto il giorno. È un uomo di legge.
Tra queste mura, nelle stanze, sospirano e non dicono mai cosa sta succedendo. Le finestre sono chiuse ed i rumori che giungono poco utili. Mi interessa poco questo modo di vedere le cose. Posso correre con la mente ad alcune più importanti. Per esempio, ricordarmi dove ho messo le mie rotelle. Al dottore non l'ho detto, che le ho perse. Lui mi rispetta come se io incarnassi un sogno smeraldo. Non gli dirò che ho perso le rotelle se non sarà necessario. Vedete, queste sono molto importanti. Non si tratta di un oggetto magico o ripieno di qualche proprietà speciale. Serve per entrare in comunicazione. Grazie alle rotelle, riuscirò finalmente a raccontare ed a capire le storie di queste persone. Il Padrone mi dice molte cose ma io difficilmente riesco, quando sono sola, a raccontarmele. Immagina. Immagina improvvisamente di voler raccontare. Desiderare che le parole senza esitazione fuoriescano dalla tua bocca, in un flutto abbondante, indecente. Come se io, senza alcun preavviso, cominciassi a parlare a te, a raccontare a te. Di me. Se tutto ad un tratto la voce di un'altra persona, la raffigurazione di un momento violento, intriso di una forte emozione, facesse tremare il canale uditivo e la vibrazione mandasse in mille pezzi la lingua, i cui frammenti cadrebbero sulle labbra, tra i denti, per terra, addosso a te, ai passanti. Mi sembra di vederti. Io mi copro il viso insanguinato con entrambe le mani. Tu ti chini a raccogliere una delle piccole schegge ed ammiri il riflesso della luce.
Per il momento le rotelle non le trovo e non posso raccontare niente, nemmeno la verità. Nemmeno ciò che so può essere raccontato. È sconvolgente. Viene taciuto perché questa è la caratteristica della condizione presente. Tace. E poi piange, nascostamente, quando Dio le ricorda che ha perso le sue rotelle. Ma se io le ritrovassi e qualcuno mi raccontasse.
Cosa potrei? Davanti a me ho uno specchio. Mi guardo, cerco di replicare il sorriso cieco di mia nonna che guida la bicicletta. Ho voglia di raccontarmi uscita la mattina di casa, a camminare sulla sabbia. Indosso un vestito rosa, largo, larghissimo, sparisco. Non ho mai avuto un vestito rosa e sono anni che non cammino sul mare. Chissà perché mi è piaciuto raccontare una cosa del genere, una cosa inventata. Mi sento un'analfabeta. Non so raccontare. Come può una persona che non possiede la dolcezza di saper ascoltare un altro e poi raccontarselo? Mia nonna si trova nella stanza accanto. Sospira. Si è stancata perché si è arrabbiata ed è stanca di esserlo. Non riesco a vederla. Ho perso i miei colori. Vorrei stendermi sui colori e dormirci. Svegliarmi colorata, lavata e colorata, senza noia. Detesto le parole volgari del corridoio. Non posso andarmene ho perso le mie rotelle. Loro dicono fica, cazzo, culo. Sono parole che non comprendo. Approvo il loro utilizzo satirico, ma sono venti discutibili quelli che te le recapitano senza un motivo. Io sono un soffio educato. So suonare, tessere melodie. Posso soffiare tra gli alberi per intere vallate. Quello di Dino Buzzati, quel vento infranto, un po' vecchiarello, ecco, come quello. Se fossi un vento non mi lascerei infilare in un bagno, in un letto, in un giardino. Più passa il tempo più i passeri che si siedono con me divengono insopportabili. Ma ricordo il motivo per cui ho perso le mie rotelle. L'altra piangeva, in un angolo, visto che Dio le ricordava che aveva perso le sue. Alcune persone non vogliono vivere senza rotelle. È incredibile a dirsi, l'essere umano non ha ali ma può morire quando non ha rotelle per volare. Io questo lo compresi al volo e me lo accollai. È una scelta di grande vecchiaia. Osservo le soddisfazioni finzioni e temo il momento in cui il Padrone mi lascerà libera. Sono Ariel, non umana, non capisco queste cose di umani. 


domenica 5 agosto 2012

La Tempesta, Scena III - Entra Miranda


Cammino lentamente tra gli scaffali della libreria. Sono bassi, posso osservare i volti degli altri mentre chini leggono i titoli delle copertine. Le loro palpebre nascondono gli occhi ma la loro espressione lascia intuire sorpresa, concentrazione, vacuità. Mi piacciono le librerie perché in qualche modo hanno un effetto amalgamante sull’umanità: non trovi più uomini e donne, belli e brutti, a contratto e disoccupati, soltanto unità silenziose che ripetono più o meno gli stessi gesti e sono presi nella lettura di brevi frasi, accomunati da una lingua che in quel momento è sovrana nelle loro menti. Nelle librerie si vive il sogno di quella incompiuta torre di Babele le cui maestranze Dio ritenne di dover disperdere, come se la tecnica fosse un pericolo per la biodiversità. E’ una dimostrazione di saggezza ambientalista e a favore delle piccole comunità tradizionali che ancora oggi viene insidiata dai costruttori. Tuttavia, io amo quel silenzio laborioso che regna nella libreria, mentre qualche idea nasce o rimane sopita, un sogno viene richiamato alla mente, un nome viene annotato nella memoria, una copertina viene ammirata. Mi auguro che l’uomo che esce raccolga altri uomini per costruire un giardino piuttosto che una torre. Mi piacciono i giardini e le storie in cui il giardino è un protagonista mancato. E’ un luogo in cui più facilmente può essere evocato il genius loci, visto che l’essere umano lo coltiva con amore e per amore della bellezza delle cose che crescono.
Oggi sono libera, dai tirocini, dai colloqui con qualcuno che potrebbe offrirmi qualcosa ma poi immancabilmente preferisce di no, sono venuta qui alla libreria perché nella libreria mi sento a casa. Non compro spesso, ma passo in un luogo come questo quasi due ore, a volte. Leggo la presentazione che si trova sul retro, sfoglio i libri di foto, esploro i titoli dei dvd, accarezzo le copertine e a volte osservo la traccia opaca del dito che il mio tocco ha lasciato. Mi soffermo sui libri piccoli, sulle raccolte di poesie, ne rubo qualcuna a memoria. A casa abbiamo moltissimi libri, romanzi, trattati, enciclopedie, garzatine. Di tutti i generi, sentimentale, storico, filosofico, scientifico, avventuroso, medico, di tutte le età, in cima alla libreria grandi volumi rilegati di libri di scienza dell’ottocento, in fondo alla libreria i costolini arancioni dell’edizione Feltrinelli, di tutte le provenienze, l’eredità dell’anziana zia, i regali dei parenti e degli amici, gli acquisti di mio padre, mia madre, miei, qualche misterioso che non reca un mittente. Casa mia è una specie di libreria da cui puoi togliere il primo libro che ti serve da qualsiasi scaffale. Potrei passare una giornata in una libreria. Non mi accade la stessa cosa con i mercatini di libri. Credo che mi disorienti il fatto che si trovino all’aperto. Cosa succederebbe se mettessimo tutti i nostri libri in giardino? Faremmo un’altra cosa, di certo non li sceglieremmo per leggerli. Forse ne aprirei un buon numero e poi mi distenderei sulle pagine. La carta così ammonticchiata deve essere morbida. Nessuno si distende sui libri quando vado ai mercatini.
Dopo che ho finito il mio giro me ne torno a casa. Oggi non lavoro, oggi non studio, non compro libri perché a casa ne ho più di quanti io potrò mai leggere vivendo questo tipo di vita. E’ un po’ una tortura ed a volte sento che mi si spezza il cuore. Non è una ribellione la mia, verso la cultura e l’investimento di mio padre e mia madre, è una sconfitta mia contro il tempo e gli impegni che ho contratto firmando un foglio bianco. Non c’è licenziamento da questo tipo di contratto, perché il tirarsi indietro equivarrebbe ad un suicidio volontario, ad un abbandono delle responsabilità e ad un porsi languidamente alle aspettative di chi ha finanziato, sia i libri che il mio contratto. Così, io ed i libri ci guardiamo dall’esterno, loro chiusi ed io vuota delle loro parole, passo accanto a loro facendo finta di non vederli, ma loro in ogni momento mi adocchiano e mi sorridono increspando quelle due righe di lettere in cui v’è scritto l’autore ed il titolo. Ogni tanto mi concedo una lettura ma non sono abituata (non più). Vorrei provare com’è leggere molto ora che sono più matura. Quando ero piccola leggere era una cosa molto privata: nel primo pomeriggio, quando ognuno dormiva, io mi chiudevo nella mia stanzetta oppure nello studio vuoto e leggevo per qualche ora, divoravo parole, lettere e situazioni, molto intimamente coinvolta. Non parlavo molto delle trame e dei libri che leggevo perché ciò che mi suscitavano erano pure emozioni, che sgorgavano come improvvisi rigurgiti da una fonte altrimenti tranquilla. Mi mancava il fiato alle scene di baci ed effusioni, dovevo allontanare il libro e fare una pausa di cinque minuti, miagolando, quando le parole scambiate tra i personaggi erano troppo toccanti.
Leggevo Jolanda, la figlia del Corsaro Nero, quando lessi una frase che mi è rimasta impressa fino ad adesso, mi si è sussurrata nelle orecchie negli ultimi quindici anni.
Jolanda ha molto paura perchè Henry Morgan, pirata ed ex luogotenente di suo padre, il Corsaro Nero, che la ha protetta per tutta la durata del romanzo, si avvia da solo all’estrema pugna.
Così le risponde Henry Morgan, pirata: se dovessi morire, morirò con il vostro nome sulle le labbra.
Non mi aspettavo una risposta del genere, proprio come non se la aspettava Jolanda, mi emozionai fino al tracollo ed ebbi la sensazione di traboccare. Questa frase bastò a scatenare nella mia fantasia tutta una serie di seguiti ed oltrepassamenti che presero vita una volta chiuso il libro.
Non è straordinario?
Ora non leggo più.
Leggo un po’, non quanto e quando vorrei. La mia mente trabocca di desiderio.
A volte penso che molto di quello che sono l’ho preso dai libri. La domanda è implicita: cosa c’era di così più interessante nei libri? La risposta mi suona tanto scontata quanto piena di incredulità. Incredulità, devo ammettere, perché se ora conosco il mondo almeno nelle sue grandi parate, non molto tempo fa ci sono state lacrime e sorpresa alla scoperta progressiva che il mondo degli altri, di quelli come me, era costituito di merda e di merde, che tutto quello che potevano rivolgerti i tuoi coetanei erano sguardi e non parole. Avrei dovuto dimenticare Henry Morgan ma…come avrei potuto? Come si può dimenticare la sorpresa seguita a quella risposta?
Non ricordo la sequenza esatta degli eventi: se prima sia arrivato l’amore per i libri ed i racconti orali (i miei genitori e nonni e conoscenti mi hanno sempre raccontato e cantato un sacco di storie), oppure l’insofferenza verso un mondo privo di fascino, oppure l’abbrutimento fisico, oppure la paura di quello che gli altri vedevano in me e quello che mostravo (sono due cose diverse, da questa imparità nasce un’estenuante incomunicabilità), oppure l’accettazione di una situazione di stallo in cui ciò che era desiderato non poteva essere conquistato con questo corpo e questa mente.
La sequenza mi è ignota ma quel che accadde è che per molti anni ho avuto molta paura ed ho amato molto. Avevo amore, un amore tremendo, così incontenibile che a volte scrivevo lettere d’amore sulle pagine di alcuni miei quadernini. Ho scritto e scritto e scritto quasi senza pensare e adesso sorrido se rileggo quegli scritti ripieni di un’energia adolescenziale anomala. Ho affascinato molte persone, vivendo in questo modo, ma le stesse che ho affascinato le ho anche mortalmente spaventate. La maledizione della bruttezza e della solitudine calò su di me come un velo di oscurità. Suppongo che alcuni anni della propria vita non andrebbero vissuti così, ma non ne ho conosciuto altri. Adesso, che corro dietro a tirocini e contratti stagionali, risparmio per gli stage, ripenso a quell’epoca con mutata tenerezza. E’ tutta colpa della Ragione, di quel positivistico istinto umano nello scindere percepito e reale. Io non voglio essere scissa dal mondo e da me ed a questo punto mi metto a canticchiare la canzone di Gaber, La libertà. Libertà è partecipazione.
Sono quasi arrivata a casa.
Devo ammettere di essere fatta di pensiero. E di pensare molto a me stessa. Non per tutto il tempo o tutti i giorni, ma spesso, ma è inevitabile: conosco bene me stessa, l’umanità meno, pensandovi sono presa dai dubbi ed il ragionamento si inceppa facilmente. Conosco bene me stessa, sì, ma per quel che riguarda i pensieri, dei quali sono ben consapevole. Anche mio padre parla spesso di sé, comunque include una moltitudine di persone in questo suo racconto. I suoi genitori, i suoi nonni, i suoi vecchi compagni di scuola, i suoi colleghi. Tutte queste persone gli hanno fatto qualcosa per cui egli si sente sempre in relazione con loro e si intaglia di fronte ai miei occhi come una persona differente. Ed io a volte gli lascio intendere che vorrei chiedergli: cessa questa tua battaglia di senso! Quanta polvere abbiamo sugli occhi a causa di queste diatribe. Chi giungerà vicino a noi se trucideremo ognuno? Chiedendoglielo lui si placa. Non lo dichiara apertamente, ma comincia ad adularmi ed a complimentarsi con me, senza un reale motivo, soltanto perché da un momento all’altro si è messo a guardarmi ed a pensare a quello che sono ed a quello che faccio. Io capisco che è in pace ed allora mi sorgono nuove domande: chi sono io? Tu che mi lodi, tu che mi ami, tu che non mi fai sentire sola, dimmi di che materia sono fatta e rivelami la mia identità. Mio padre, come un Dio, non risponde. Non ancora. Alcune risposte arrivano con il sogno.
Stanotte ha piovuto molto. Tutte le strade sono ancora bagnate. Sale un vapore appena percettibile che ha fatto lievitare il sole lieve. Questa mattina presto abbiamo avuto una vera e propria tempesta. Mi ha svegliata e sono rimasta nel letto a sbirciare l’agitarsi dell’acqua che impregnava l’aria vorticosa, attraverso la finestra. La luce dei lampioni era maculata e sinistra. Ora la città è tranquilla e lavata, in molti si aggirano per le strade che questa notte erano vuote.