domenica 5 agosto 2012

La Tempesta, Scena III - Entra Miranda


Cammino lentamente tra gli scaffali della libreria. Sono bassi, posso osservare i volti degli altri mentre chini leggono i titoli delle copertine. Le loro palpebre nascondono gli occhi ma la loro espressione lascia intuire sorpresa, concentrazione, vacuità. Mi piacciono le librerie perché in qualche modo hanno un effetto amalgamante sull’umanità: non trovi più uomini e donne, belli e brutti, a contratto e disoccupati, soltanto unità silenziose che ripetono più o meno gli stessi gesti e sono presi nella lettura di brevi frasi, accomunati da una lingua che in quel momento è sovrana nelle loro menti. Nelle librerie si vive il sogno di quella incompiuta torre di Babele le cui maestranze Dio ritenne di dover disperdere, come se la tecnica fosse un pericolo per la biodiversità. E’ una dimostrazione di saggezza ambientalista e a favore delle piccole comunità tradizionali che ancora oggi viene insidiata dai costruttori. Tuttavia, io amo quel silenzio laborioso che regna nella libreria, mentre qualche idea nasce o rimane sopita, un sogno viene richiamato alla mente, un nome viene annotato nella memoria, una copertina viene ammirata. Mi auguro che l’uomo che esce raccolga altri uomini per costruire un giardino piuttosto che una torre. Mi piacciono i giardini e le storie in cui il giardino è un protagonista mancato. E’ un luogo in cui più facilmente può essere evocato il genius loci, visto che l’essere umano lo coltiva con amore e per amore della bellezza delle cose che crescono.
Oggi sono libera, dai tirocini, dai colloqui con qualcuno che potrebbe offrirmi qualcosa ma poi immancabilmente preferisce di no, sono venuta qui alla libreria perché nella libreria mi sento a casa. Non compro spesso, ma passo in un luogo come questo quasi due ore, a volte. Leggo la presentazione che si trova sul retro, sfoglio i libri di foto, esploro i titoli dei dvd, accarezzo le copertine e a volte osservo la traccia opaca del dito che il mio tocco ha lasciato. Mi soffermo sui libri piccoli, sulle raccolte di poesie, ne rubo qualcuna a memoria. A casa abbiamo moltissimi libri, romanzi, trattati, enciclopedie, garzatine. Di tutti i generi, sentimentale, storico, filosofico, scientifico, avventuroso, medico, di tutte le età, in cima alla libreria grandi volumi rilegati di libri di scienza dell’ottocento, in fondo alla libreria i costolini arancioni dell’edizione Feltrinelli, di tutte le provenienze, l’eredità dell’anziana zia, i regali dei parenti e degli amici, gli acquisti di mio padre, mia madre, miei, qualche misterioso che non reca un mittente. Casa mia è una specie di libreria da cui puoi togliere il primo libro che ti serve da qualsiasi scaffale. Potrei passare una giornata in una libreria. Non mi accade la stessa cosa con i mercatini di libri. Credo che mi disorienti il fatto che si trovino all’aperto. Cosa succederebbe se mettessimo tutti i nostri libri in giardino? Faremmo un’altra cosa, di certo non li sceglieremmo per leggerli. Forse ne aprirei un buon numero e poi mi distenderei sulle pagine. La carta così ammonticchiata deve essere morbida. Nessuno si distende sui libri quando vado ai mercatini.
Dopo che ho finito il mio giro me ne torno a casa. Oggi non lavoro, oggi non studio, non compro libri perché a casa ne ho più di quanti io potrò mai leggere vivendo questo tipo di vita. E’ un po’ una tortura ed a volte sento che mi si spezza il cuore. Non è una ribellione la mia, verso la cultura e l’investimento di mio padre e mia madre, è una sconfitta mia contro il tempo e gli impegni che ho contratto firmando un foglio bianco. Non c’è licenziamento da questo tipo di contratto, perché il tirarsi indietro equivarrebbe ad un suicidio volontario, ad un abbandono delle responsabilità e ad un porsi languidamente alle aspettative di chi ha finanziato, sia i libri che il mio contratto. Così, io ed i libri ci guardiamo dall’esterno, loro chiusi ed io vuota delle loro parole, passo accanto a loro facendo finta di non vederli, ma loro in ogni momento mi adocchiano e mi sorridono increspando quelle due righe di lettere in cui v’è scritto l’autore ed il titolo. Ogni tanto mi concedo una lettura ma non sono abituata (non più). Vorrei provare com’è leggere molto ora che sono più matura. Quando ero piccola leggere era una cosa molto privata: nel primo pomeriggio, quando ognuno dormiva, io mi chiudevo nella mia stanzetta oppure nello studio vuoto e leggevo per qualche ora, divoravo parole, lettere e situazioni, molto intimamente coinvolta. Non parlavo molto delle trame e dei libri che leggevo perché ciò che mi suscitavano erano pure emozioni, che sgorgavano come improvvisi rigurgiti da una fonte altrimenti tranquilla. Mi mancava il fiato alle scene di baci ed effusioni, dovevo allontanare il libro e fare una pausa di cinque minuti, miagolando, quando le parole scambiate tra i personaggi erano troppo toccanti.
Leggevo Jolanda, la figlia del Corsaro Nero, quando lessi una frase che mi è rimasta impressa fino ad adesso, mi si è sussurrata nelle orecchie negli ultimi quindici anni.
Jolanda ha molto paura perchè Henry Morgan, pirata ed ex luogotenente di suo padre, il Corsaro Nero, che la ha protetta per tutta la durata del romanzo, si avvia da solo all’estrema pugna.
Così le risponde Henry Morgan, pirata: se dovessi morire, morirò con il vostro nome sulle le labbra.
Non mi aspettavo una risposta del genere, proprio come non se la aspettava Jolanda, mi emozionai fino al tracollo ed ebbi la sensazione di traboccare. Questa frase bastò a scatenare nella mia fantasia tutta una serie di seguiti ed oltrepassamenti che presero vita una volta chiuso il libro.
Non è straordinario?
Ora non leggo più.
Leggo un po’, non quanto e quando vorrei. La mia mente trabocca di desiderio.
A volte penso che molto di quello che sono l’ho preso dai libri. La domanda è implicita: cosa c’era di così più interessante nei libri? La risposta mi suona tanto scontata quanto piena di incredulità. Incredulità, devo ammettere, perché se ora conosco il mondo almeno nelle sue grandi parate, non molto tempo fa ci sono state lacrime e sorpresa alla scoperta progressiva che il mondo degli altri, di quelli come me, era costituito di merda e di merde, che tutto quello che potevano rivolgerti i tuoi coetanei erano sguardi e non parole. Avrei dovuto dimenticare Henry Morgan ma…come avrei potuto? Come si può dimenticare la sorpresa seguita a quella risposta?
Non ricordo la sequenza esatta degli eventi: se prima sia arrivato l’amore per i libri ed i racconti orali (i miei genitori e nonni e conoscenti mi hanno sempre raccontato e cantato un sacco di storie), oppure l’insofferenza verso un mondo privo di fascino, oppure l’abbrutimento fisico, oppure la paura di quello che gli altri vedevano in me e quello che mostravo (sono due cose diverse, da questa imparità nasce un’estenuante incomunicabilità), oppure l’accettazione di una situazione di stallo in cui ciò che era desiderato non poteva essere conquistato con questo corpo e questa mente.
La sequenza mi è ignota ma quel che accadde è che per molti anni ho avuto molta paura ed ho amato molto. Avevo amore, un amore tremendo, così incontenibile che a volte scrivevo lettere d’amore sulle pagine di alcuni miei quadernini. Ho scritto e scritto e scritto quasi senza pensare e adesso sorrido se rileggo quegli scritti ripieni di un’energia adolescenziale anomala. Ho affascinato molte persone, vivendo in questo modo, ma le stesse che ho affascinato le ho anche mortalmente spaventate. La maledizione della bruttezza e della solitudine calò su di me come un velo di oscurità. Suppongo che alcuni anni della propria vita non andrebbero vissuti così, ma non ne ho conosciuto altri. Adesso, che corro dietro a tirocini e contratti stagionali, risparmio per gli stage, ripenso a quell’epoca con mutata tenerezza. E’ tutta colpa della Ragione, di quel positivistico istinto umano nello scindere percepito e reale. Io non voglio essere scissa dal mondo e da me ed a questo punto mi metto a canticchiare la canzone di Gaber, La libertà. Libertà è partecipazione.
Sono quasi arrivata a casa.
Devo ammettere di essere fatta di pensiero. E di pensare molto a me stessa. Non per tutto il tempo o tutti i giorni, ma spesso, ma è inevitabile: conosco bene me stessa, l’umanità meno, pensandovi sono presa dai dubbi ed il ragionamento si inceppa facilmente. Conosco bene me stessa, sì, ma per quel che riguarda i pensieri, dei quali sono ben consapevole. Anche mio padre parla spesso di sé, comunque include una moltitudine di persone in questo suo racconto. I suoi genitori, i suoi nonni, i suoi vecchi compagni di scuola, i suoi colleghi. Tutte queste persone gli hanno fatto qualcosa per cui egli si sente sempre in relazione con loro e si intaglia di fronte ai miei occhi come una persona differente. Ed io a volte gli lascio intendere che vorrei chiedergli: cessa questa tua battaglia di senso! Quanta polvere abbiamo sugli occhi a causa di queste diatribe. Chi giungerà vicino a noi se trucideremo ognuno? Chiedendoglielo lui si placa. Non lo dichiara apertamente, ma comincia ad adularmi ed a complimentarsi con me, senza un reale motivo, soltanto perché da un momento all’altro si è messo a guardarmi ed a pensare a quello che sono ed a quello che faccio. Io capisco che è in pace ed allora mi sorgono nuove domande: chi sono io? Tu che mi lodi, tu che mi ami, tu che non mi fai sentire sola, dimmi di che materia sono fatta e rivelami la mia identità. Mio padre, come un Dio, non risponde. Non ancora. Alcune risposte arrivano con il sogno.
Stanotte ha piovuto molto. Tutte le strade sono ancora bagnate. Sale un vapore appena percettibile che ha fatto lievitare il sole lieve. Questa mattina presto abbiamo avuto una vera e propria tempesta. Mi ha svegliata e sono rimasta nel letto a sbirciare l’agitarsi dell’acqua che impregnava l’aria vorticosa, attraverso la finestra. La luce dei lampioni era maculata e sinistra. Ora la città è tranquilla e lavata, in molti si aggirano per le strade che questa notte erano vuote. 


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