domenica 6 gennaio 2013

Ottobre 1937, Varsavia

Adam sedette sull’erba e passò le dita sulla superficie dei piccoli fiori che risaltavano come capocchie colorate.

Incrociò le braccia e si distese, inclinando lentamente la schiena magra all’indietro, rimirando il cielo al di sopra di lui ed individuando con curiosità le nuvole e gli uccelli migratori che ancora si attardavano sopra alla città.

L’autunno era lento e solerte, con un soffio svogliato incrinava ogni traccia d’estate e la lasciava languire, attenendo che si spegnesse di sua spontanea volontà, priva ormai di ogni speranza e dimentica dei semi che i frutti avevano nascosto, sotto le macerie della primavera, nel terreno.

A contatto con la terra e l’erba, inumidite dagli sospiri dei vegetali che, riconoscendo l’abituale imbrunire della notte, trasudavano milioni di perle trasparenti, il corpo di Adam fu percorso da un forte brivido. Chiuse gli occhi, con un sospiro: si era rifugiato nel silenzio del giardino nella speranza di udire il battito, situato profondamente, ormai quasi irriconoscibile, del cuore antico, di pietre e mattoni, della città dove aveva vissuto quegli ultimi lunghi mesi. Era certo che i suoi abitanti fin dalla nascita traessero nutrimento dalla linfa vitale che quel cuore costante elargiva, con la sua forza di sorgente, mantenendo in piedi palazzi, facendo zampillare fontane, scorrere marciapiedi e rotaie del treno.

I cittadini correvano di qua e di là, chiacchierando nella loro lingua come se si trattasse di una lingua assoluta ed impeccabile, ascoltavano canzoni, accompagnate da orchestre di ogni tipo, bevevano e mangiavano, poco interessati a tutto ciò che avveniva al di fuori delle mura, della chiesa, della biblioteca, dell’osteria e così via.

Così i diversi mondi, animati dalla stessa linfa, non si incontravano in nessuna stagione per bruciare le messi secche ed augurare un futuro nuovo e non riciclato.

Adam osservava questa situazione con una certa, crescente ansia: aveva viaggiato fin da bambino, parlava tedesco, russo ed yiddish, oltre che il polacco. Non conosceva quale fosse la lingua dei propri genitori: suo padre alternava il tedesco, il polacco e lo yiddish. Non era tuttavia un gran trasformista: ogni sua frase era ritmata da un marcato accento che richiamava l’attenzione sulla sua voce ovunque lui fosse, richiedendo tutta la sua pazienza ed il suo impegno per rendere le parole ed il loro significato altrettanto forti quanto quel ritmo dissonante. Suo padre pronunciava il proprio nome e quello dei suoi familiari, compreso il suo, Adam, con inflessioni contrastanti, come se lui stesso fosse confuso a proposito della propria lingua originaria. Non era così per i nonni, che avevano vissuto per lungo tempo insieme a loro: parlavano yiddish, tra loro e con chiunque altro. Adam era molto predisposto ad imparare in breve tempo molte altre lingue, udendole parlare dagli uomini delle varie nazioni, aiutato in un primo momento dai loro gesti e dalle loro espressioni. Così si era istruito, soltanto ascoltando, sui rudimenti del ceco, del moldavo e di alcuni strani dialetti che aveva sentito in Germania. Per lui era un passatempo che non avrebbe scambiato con nessun altro al mondo e quando rimaneva in silenzio amava far circolare nella propria mente vocaboli ed espressioni nelle varie lingue, ricreando un turbine di bandiere fatte da caratteri. Questa era una dimensione liberatoria che aveva covato per lunghi anni dentro di sé ed in qualche modo lo aveva preservato dall’austera vigilanza che era imposta a lui e alla sua famiglia.

Avevano vissuto a Berlino sin da quando era piccolo, città nella quale avevano piantato tende provvisorie i nonni paterni, che erano giunti in Germania con il progetto di dirigersi verso Amsterdam. Mantenendo quel proposito, i nonni avevano vissuto trent’anni a Berlino con la valigia sotto il letto. Il padre di Adam li aveva raggiunti credendo di viaggiare sulla spinta della marea montante, contava di creare a Berlino una base dalla quale riuscire a guadagnarsi un lasciapassare per una vita girovaga, visitando atenei, università, confrontandosi con studiosi di molto lontano. Si trattava di un sogno conforme al suo ideale di intellettuale moderno: la cosa più importante per quell’uomo era lo studio e la comunicazione della propria serendipità e dopo che si fu stabilito a Berlino lavorò come segretario, contabile, operaio, deformando il proprio corpo ed affievolendo la propria vista come un cavaliere intrepido in cerca. Con fatica riuscì a diventare professore in una scuola secondaria. Fu il suo primo incarico e neanche l’ultimo perché non di rado perdeva il lavoro ed era costretto a ricominciare da capo. Il padre di Adam era stato molto infelice allora ed in quel periodo tornò nella cittadina dove era nato e sposò una giovane compaesana, la madre del suo unico figlio. Adam ricordava che spesso litigavano ed in quelle occasioni lei era solita accusarlo di averla sposata e portata a Berlino soltanto perché aveva bisogno di una donna che lavasse le sue camice, perché egli aveva timore dello scherno dei presidi ed dei colleghi tedeschi, che forse sussurravano dietro alle sue spalle: che odore! Perché non si era sposato una tedesca, allora?

Adam sorrise, era certo che suo padre avesse amato molto la mamma. La trattava e la usava come se si trattasse di un gioiello e quando la abbracciava timidamente, senza mai stringerla,  la chiamava zucchero e strofinava il naso contro la sua guancia.

La vita a Berlino era costellata di piccoli ricordi che avevano in potere di intenerirlo, tuttavia Adam non sarebbe ritornato in quella città per niente al mondo. Trasferendosi a Varsavia aveva reciso i suoi legami con quella città dove insieme a suo padre aveva dovuto far balletti come un saltimbanco da una scuola all’altra, pregare perché gli fosse ceduto il passo. Stentava a provare gratitudine o nostalgia per i loro amici tedeschi: la sensazione di essere altro rispetto a loro, in senso strettamente razziale, aveva lasciato un sapore di rancido nella sua bocca. Era cresciuto a Berlino ma si sentiva di esser cresciuto in un altro luogo, sebbene questo processo fosse avvenuto a sua insaputa. Dopotutto, una volta giunto in Polonia, aveva scoperto di avere gambe, braccia e testa, elementi che aveva dubitato di possedere o che erano rimasti nascosti per i lunghi anni di quella militanza in terra germanica. A Varsavia la vita non era così insopportabile. Lo zio con il quale viveva e la sua famiglia erano rilassati ed estroversi, cittadini con un piede su una zolla di campagna, paurosi topolini colti, agricoltori impeccabili della propria costanza.

Gli abitanti della città gli sembravano vivere in uno stato di soporifera ebbrezza, grazie alla quale esploravano le possibilità della loro terra e della loro personalità, sempre più sicuri ed egoisti. Adam osservava con paura il profilo della città e temeva il sorgere di quei pinnacoli ben conosciuti e che potevano rendere grigia la vita. Diffidava di ogni slancio patriottico, nel suo intimo ne era inorridito: era stato costretto ad allontanarsi dal paese nel quale era cresciuto a causa della dirompente passione dei tedeschi per la loro nazionalità. Inoltre amava le sue lingue, che gli permettevano di esprimere gli stessi concetti con suoni e parole diverse, sfumando verbi e tempi alla maniera del pittore, roteando pennelli sulla lingua ed indugiando su una tela grande, sulla quale erano rappresentati il cielo, la terra, il mare, il sottosuolo e gli alberi, dalla loro cima su cui dormivano e vivevano gli uccelli, al tronco al quale si appoggiavano gli innamorati, alle radici che elaborano pazientemente la vita, nel buio della tomba.

Se la vita glielo avesse permesso, avrebbe aperto una libreria sulla grande piazza e sarebbe campato vendendo libri scritti in tutte le lingue. Avrebbe disposto accanto, sullo stesso scaffale, il manoscritto in lingua originale e le sue traduzioni migliori, da lui personalmente scelte. Così, quando un cliente avrebbe espresso il desiderio di comprare un certo romanzo, lui gli avrebbe domandato:

In quale lingua? Whelcher Sprache? 'yn ww’ás şpr’ak? w jakim języku? Dans quelle langue?

Socchiuse gli occhi rivolti verso il cielo, richiamato dal verso di alcuni uccelli ritardatari, che dall’altezza dei loro nidi non si curavano delle notizie di un inverno imminente. Il cielo era ormai molto scuro ed era capace di immaginare l’esatta posizione delle stelle, malgrado il loro chiarore non fosse ancora ben definito. Avrebbe voluto scommettere ed attendere la loro apparizione, per vincere, visto che con un solo battito di palpebra avrebbe potuto far apparire una di quelle luci di fronte al suo occhio. Allungò le braccia attorno al corpo e le stirò, girando il collo da una parte all’altra, pronto ad alzarsi e raggiungere gli altri, quando si accorse che ciò che con le dita stava toccando, alla sua destra, non era la foglia particolarmente soffice proveniente da uno dei cespugli, ma dei ciuffi di capelli umani. Si voltò in quella direzione e riconobbe la sagoma appallottolata di un bambino che riposava, respirando profondamente, rannicchiato tra le frasche di uno dei cespugli che erano sparsi per il prato, ai piedi di un giovane cedro. I suoi capelli erano lisci e lunghi, raccolti in una lunga treccia che aveva perduto il proprio laccino e dunque si avviava al disfacimento. I ciuffi liberi, ondulati come un gruppo di serpentelli, si diradavano come dei raggi, percorrendo il breve spazio di prato che separava Adam dal cedro.

Adam si girò, appoggiando il torace al terreno, e si aiutò con i gomiti ad avanzare verso il bambino. Quando gli fu appresso, allungò il capo per sorpassare la sua spalla, che nascondeva il volto, e riconobbe il viso alabastrino e dai lineamenti sottili della piccola nipote di sua padre, Klara.

Le soffiò in un orecchio e la bambina mugulò, infastidita, quindi, quando lui ebbe smesso, alzò un braccio e cercò di farlo allontanare, puntandoglielo alla faccia.

Adam prese in una mano l’intero avambraccio di Klara e lo tenne fermo con dolcezza, quindi soffiò di nuovo nell’orecchio della bambina, che questa volta si rigirò con uno scatto repentino sulla schiena e poi su un fianco, liberando il braccio dalla presa e alzando il capo, fissando Adam con uno sguardo che costituiva un avvertimento della sua possibile collera. Adam rise e portò le mani di fronte alla faccia, allungando il volto in un’espressione che voleva imitare lo spavento, mentre Klara si metteva in piedi e si spolverava il vestito con entrambe le mani.

"Non stavo dormendo.”

Adam le puntò un dito sulla pancia, quindi affondò, gonfiando le guance e fissandola con gli occhi sgranati. Klara si allontanò con un balzo e strillò, agitando poi le braccia contro di lui.

"Sei uno scemo! Mi dai sempre noia! Stavo dormendo!”

Adam aggrottò le sopracciglia, con fare insospettito.

"Ma non hai appena detto che non stavi dormendo?”

Klara alzò lo sguardo, posizionandolo al di sopra di lui, sul tetto della casa a poca distanza da loro, alla fine del prato, quindi alzò anche le braccia, allungandole verso il cielo, completando quel movimento con un grande sbadiglio.

"Invece dormivo. Ho fatto un sogno, ma era più bello di quelli che faccio di notte, nel mio letto.”

Adam sorrise e dandole la schiena portò a sua volta lo sguardo sulla casa: intravedeva le sagome scure che si affrettavano ad accendere le lampade nella cucina e nella sala da pranzo, passando attraverso le nuvole di fumo che salivano ben dense e bianche dalle padelle e commentando a gran voce gli odori ed i sapori della cena che si preparava.

"E’ naturale. I sogni che si fanno a letto sono sogni da letto. I sogni che si fanno sul treno sono sogni da treno. I sogni fatti sul prato sono i sogni del prato.”

La bambina rise ed emise un grido divertito, si abbassò e strappò alcuni fili d’erba. Dopo averli trattenuti tra le mani e fissati da vicino li lanciò in aria, facendo volteggiare le braccia ed il corpo.

"I sogni del prato, i sogni del prato! Ho sognato insieme al prato?”

Adam sporse le labbra, fingendosi dubbioso, quindi annuì con un fare non troppo convinto.

"Potrebbe anche essere. Ci sono spiriti in tutti i luoghi che sono fatti di pensiero e se abbandoniamo la logica, il mondo della veglia, possiamo vedere con i loro occhi.”

"Anch’io! Anch’io!”

"Cosa hai sognato?”

Klara smise di saltare e si portò le dita alla bocca, bagnando di saliva i polpastrelli.

"Non lo so.”

Adam sorrise e si alzò, le andò vicino e la prese per mano, conducendola poi con sè verso la casa.

"Ma certo, certo che non lo sai. "

"Mi piacerebbe ricordarmelo.”

"Ma certo. Magari te lo ricorderai tra qualche tempo. A volte, i sogni li dimentichiamo. Ma possiamo divertirci nel frattempo servendoci della sensazione che ci hanno lasciato. Possiamo inventare una storia!”

"Sì!”

"Bene! Allora, che sensazione ti ha lasciato questo sogno che non ricordi?”

"Che ho voglia di cantare.”

"Ottimo. Ora pensa bene ad un personaggio che ha tanta voglia di cantare. Chi potrebbe essere?”

"Una segretaria.”

Adam rise, imitato quasi immediatamente da Klara.

"Beh, una segretaria ha sicuramente più voglia di cantare rispetto ad una cantante lirica.”

"E poi?”

"Mi racconterai il resto della storia domattina. Stasera mangeremo tanto e tutti gli zie e gli zii canteranno fino a notte fonda. Tu guardali bene e cerca di trarre ispirazione. Ricorda sempre però che si tratta di un gioco. È molto importante divertirsi, fa parte delle regole. Ora corriamo a cercare la segretaria!”

Cominciarono a correre, Klara saltava in alto nel tentativo di non farsi trascinare da quel parente tanto più alto di lei e nel mentre apriva un braccio verso l’esterno, fendendo l’aria, modulando un mugolio vibrante con le labbra e la lingua per imitare un aeroplano.

I due entrarono in casa ed immediatamente la madre di Klara, che stringeva tra le mani i manici di un’enorme pentola, la protese verso di loro facendola pericolosamente oscillare, si rivolse alla bambina chiedendole dove si fosse nascosta per tutto il pomeriggio, poi alzò lo sguardo sul ragazzo, minacciandolo sotto voce di impegnarlo con i preparativi della cena se un episodio del genere si fosse ripetuto. Adam andò verso di lei e prese a sua volta i manici della pentola tra le mani, tirandola verso di sè senza che lei cedesse la presa.

"Ottimo! Morivo dalla voglia che una di voi vestali del cappone e della teglia imburrata cedeste a uno di noi uomini il mantice per ravvivare il fuoco che arde nell’ara dell’acquolina!”

Molte delle donne si voltarono verso di lui e gli fecero segno di andarsene, scuotendo il capo e sbuffando al suono a quelle parole.

"Che spreco di fiato, Kalovi, solo per prenderci in giro!”

La madre di Klara tirò verso di sè la pentola ed Adam si lasciò trascinare in avanti da quel gesto repentino, piombando sulle ginocchia davanti a lei ed appoggiando il mento alla sua pancia.

"Oh, Sofjia, Sofjia, io farei qualsiasi cosa per esserti utile!”

"Razza di buffone!”

Sofja lo spinse indietro, arrossendo e trattenendo il riso mentre tutte le donne presenti nella stanza, compresa la minuscola Klara, si distraevano per un attimo dalla loro mansione e si fermavano a ridere, con gli occhi socchiusi, colte da un’improvvisa ed inaspettata ondata di tenerezza verso il giovane che proveniva dalla Germania.

Sofja le guardò tutte, increspando gli angoli della bocca, quindi rivolse di nuovo lo sguardo ad Adam, alzando un sopracciglio.

"Guarda che cosa hai fatto.”

"Proprio niente! Perchè ti stupisci, ritieni forse le tue consorelle delle vecchie scope incapaci di scuotersi come le scintille originate da una marmitta?”

Un brusio divertito sorse nuovamente dalla turba di donne indaffarate, qualche mano si attardò ad accarezzare una piuma bianca prima di staccarla con decisione, un mestolo ondeggiò con grazia mentre il polso si fermava a pensare nel bel mezzo della piroetta, un mento compariva sul fondo di un viso che si era alzato ha un ripiano infarinato.

Klara stava saltando dietro alle spalle di Adam, che era rimasto seduto con le ginocchia a terra, e si dava saltuariamente uno slancio verso l’altro appoggiando le mani alle sue scapole. Sofja cercò di richiamare la sua attenzione con un gesto della mano, indicandole lo spazio compreso nella cucina, ma Klara si nascose dietro alle spalle del giovane.

"Klara! Cosa ne diresti di aiutare un po’? Vuoi giocare tutto il giorno?”

"Sì. Giocare e poi mangiare.”

Adam appoggiò la sua risposta annuendo con aria seria, fino a che Sofja non si avvicinò a lui ed allungò un colpo lieve sulla sua testa ricciuta.

"Bene! Allora Adam farà le veci di Klara e mi aiuterà!”

Klara irruppe in un grido di gioia ed in pochi secondi si allontanò da loro e scomparve lungo il corridoio. Sofja sospirò, facendo poi segno ad Adam di alzarsi ed avvicinarsi alla pentola che aveva appoggiato su un angolo del tavolo.

"Sarà andata diritta ad infastidire suo padre. Ma lui tollera qualsiasi scherzo da Klara. Per fortuna non sa che sei tu l’ideatore di tutti i suoi scherzi più elaborati!”

Adam si sporse al di sopra della pentola e mostrò la lingua ad un cumulo di patate da sbucciare, mentre Sofja gli metteva un coltello tra le mani. Voltò la testa verso di lei e sorrise con aria innocente, mostrandole il coltello mentre mascherava la voce con un tono quasi femmineo.

"Quale patata vuole che uccida, mia signora?”

Sofja gli girò la testa, sgranando gli occhi ed alzandosi sulle punte, fremendo di rabbia.

"Basta! Per quale motivo devi fare il buffone tutto il tempo?”

Adam alzò le spalle ed agguantò una patata, cominciò a sbucciarla lentamente, assumendo d’un colpo un espressione molto calma e rilassata.

"E’ il minimo. Cosa potrei fare per te e lo zio, che mi ospitate nella vostra casa come se fossi il fratellone di Klara? Sarò il vostro saltimbanco. Per quanto possa farvi piangere di rabbia, almeno vi farò ridere in egual misura.”

Sofja aggrottò la fronte e si avvicinò a lui, abbassando la voce per parlare.

"Ma che argomento. Come se tu ci fossi d’impaccio. Lascia che te lo dica, un altro uomo in casa di questi tempi non è che una benedizione. Chiedilo a tutte queste donne, ognuna di queste che si trovano nella stanza. Hanno figli piccoli, genitori anziani, un solo uomo che può garantire protezione a loro e a tutti questi deboli agnellini. Pagherebbero perchè giungesse un nipote grande a stare in casa loro.”

Sofja non era donna da dichiarazioni dirette di affetto: era stata educata a ragionare in termini economici e di razionamento, per cui chi la conosceva sapeva che ogni concessione, espressa attraverso le parole, a gesti o con le azioni, di cui si faceva interprete erano un segno di grande considerazione. Ciò che aveva appena confidato ad Adam era la pura verità e desiderava che lui la conoscesse perchè non avesse il sospetto di costituire un peso alla loro famiglia. Il concetto di utilità si costituiva per Sofja all’interno del territorio dell’affettività: tendeva a ritenere utili soltanto i propri parenti o amici. Per lei chiedere un favore pratico era quasi equivalente a domandare una dimostrazione di affetto.

Adam, vivendo con lo zio e sua moglie Sofja da alcuni mesi, si era accorto di questa particolarità caratteriale e si era divertito a sperimentare i risultati dell’estrema gentilezza con cui si prodigava per Sofja e sua figlia Klara. In poco tempo Sofja, che non era molto più vecchia di lui, era arrivata quasi ad includerlo nel proprio grembo ed a partorirlo così com’era, già grande e fatto, con le proprie idee e la propria barba. Lo vestiva e lo nutriva, gli affidava Klara e teneva di conto la sua opinione.
Adam aveva temuto che lo zio potesse ingelosirsi, dopotutto Sofja non aveva nemmeno dieci anni più di lui, così aveva ben presto confidato all’uomo che incontrare una donna come lei aveva finalmente ricolmato il suo desiderio di conoscere una donna che assomigliasse a sua madre e di poter dare a lei quello che non aveva potuto dare a quella debole creatura, scomparsa prematuramente. Lo zio era rimasto molto commosso da questo pensiero e gli aveva cantato una canzone che si ispirava al grande amore del figlio per i genitori. 

Varsavia

venerdì 4 gennaio 2013

(Non sono la Lady di Shalott!)


Sono nell'ospedale. Qui lavoro, non c'è molto altro da dire. 
Non mi pagano, il mio non è un lavoro come tanti altri. Sono una studentessa. Ascolto tutto ciò che gli altri mi dicono e mi costringo a valorizzarlo, a farne tesoro, che si tratti di una merda o di una perla. Gli altri mi trovano magica e lo manifestano comportandosi come se loro stessi fossero meravigliosi depositari del sapere. Qualsiasi cosa abbiano da dire, va bene. L'infermiera, spostati, il paziente, mi passa la bottiglietta, il medico, in questa stanza siamo troppi, lo specializzando, aspettate un attimo, l'altro studente, e che vuoi fare?  
Il vortice del sapere si articola in tutte le sue più interessanti sfaccettature e la mia psychè, la mia anima, ne risulta molto frustrata: mi sento arida. 
Quando sto qui dentro molte ore non ho più fame, non mi scappa più la pipì, non sento più le gambe, la mia capacità di ragionamento si addormenta. 
Se poi un baldo ecografista  si decide all'improvviso a fare una domanda, ragazzi, cosa pensate che sia questo?, si stupisce se non ho idea della risposta. 
Forse la so, ma in questo momento non ho idea di cosa voglia dire pensare, esprimersi. Questo dovrei rispondergli. 
C'è molto male in tutto questo. Ciò che devo superare è la demolizione dell'anima. Devo sforzarmi per imparare, di nascosto, e a non farmi lavare via da tutto questo. Cinque anni, così. 
Intorno a questo ospedale non c'è niente. Come si fa, a costruire così? Vedi che non è soltanto una malattia dei miei insegnanti, ma anche degli insegnanti degli architetti. Non si tratta di una malattia, altrimenti sarebbero malati ed esisterebbe una cura, oppure si direbbe che sono affetti da un male incurabile e si venderebbero stelle di natale nelle piazze per loro. Ci sarebbe speranza. Ma non c'è. Per loro, non ce n'è.
Questo ospedale sta nel mezzo del nulla, nel mezzo di campi che non sono più campi, sono ammassi di sterpi. Le case popolari arrivano fino all'ospedale, di lato ad esso ci sono cantieri, stanno costruendo fondamenta per il prossimo ampliamento. Al di dietro di esso, c'è qualche baracca. Molto, molto lontani, i monti pisani, ancora più lontane, verso nord, le alpi apuane. Non si vede nulla, c'è foschia, ma io lo so. Me ne sto qui a questa finestra dal vetro caldo, qui tutto è caldo, l'intero ospedale è un termosifone, il corridoio è vuoto. Non ci sono sedie lungo il corridoio, nessuno può sedersi. Tutte le sedie sono dentro alla stanze. Le stanze medici e le stanze degli infermieri sono chiuse, le stanze dei pazienti sono aperte ma loro tacciono e sonnecchiano, hanno la televisione schermo piatto, andare a chiacchierare con loro mi sembra innaturale. Lo vedono che non faccio nulla, che non so fare nulla che a loro serva. Non soddisfo alcun loro bisogno e capiscono che sono sommamente insoddisfatta. Viaggia molta energia negativa tra tutte le persone che si trovano in questo luogo. 
Una volta, una volta sola mi sono quasi messa a piangere di fronte ad una paziente. 
Il tutor di turno mi aveva rimproverato della mia ignoranza, sbattendomi in faccia il disprezzo di due occhietti vecchi e di un paio di enormi baffi grigi, dopo aver declamato il giorno precedente che la miglior qualità di un medico è sempre l'umiltà. Rimanemmo soli nella stanza dei pazienti, io ero l'unica dei tirocinanti ad esser stata demolita, qualcuno era stato lodato, e con l'euforia della disperazione mi rivolsi calorosamente alla paziente, che si avviava ad una operazione chirurgica, per salutarla. Avevo le lacrime qui. Tutto tremava. La paziente era anziana e molto magra, indossava un pigiama rosa brillante. Mi guardò con espressione molto dolce e mi disse coraggio, si deve solo andare avanti. E io ansimai, ormai il pianto era diffuso ovunque malgrado non lo lasciassi uscire, e le dissi speriamo, speriamo, dopo tutto questo, lo spero, ma è così dura, davvero non è facile crederci. La paziente continuò a guardarmi, sorrideva con dolcezza. Credo fosse d'accordo con me. Entrambe in un certo senso stavamo facendo i conti con un'operazione a cielo aperto.
Intorno a questo ospedale non c'è nulla. Forse un tempo in questa zona Cisanello c'erano i boschi, campi coltivati, ora, più nulla, degli stupidi palazzi culoni che il suolo non vuol far crescere in altezza. Una volta ci mettevano i matti, o i sanatori, in posti così. 
Non è vero: i sanatori stavano in posti belli, dove arrivava l'aria bella, dove i malati si consumavano con dolcezza, eremiti della società moderna. Ed i matti stavano in luoghi più intimi, come la collina di Maggiano, la collina delle Ville Sbertoli. 
Nessuno è mai stata confinato nelle lande desolate fuori dalle città, se non i morti ed i lebbrosi. Questo è un luogo deprimente e cimiteriale. Vorrei andar via, ma devo rimanere qua per delle ore, per niente. Mi piace andare in giro, fare le foto, fare gli acquarelli. Mi piace riempirmi di cose e di visioni. Questo posto è il vuoto, una dimensione chiusa nella quale il big bang non è ancora avvenuto. 
Non riesco a capire come lavorano. Li guardo senza che mi dicano niente, che interagiscano. Non hanno niente da insegnarmi, niente da mostrarmi, devo star qui per un fine che non esiste. Niente in questo luogo può essere utilizzato come materia prima. È molto snervante. Odio fare i tirocini. Odio l'ospedale. Non so se odio i medici e gli specializzandi, sono una specie di caratteri etruschi senza suono e senza significato. Una lingua che non parla e che non scrive. Mi sento molto a disagio con me stessa in questa situazione. Non trovo mai cosa dire, la noia è eccessiva. Anche i pensieri faticano. Il cuore sanguina per qualcosa in cui si voleva credere ma che non è stata altro che una delusione. Tuttavia credo in me stessa, molto più di un tempo, perché non avrei mai immaginato di possedere una tale capacità di resistenza. Sono un'ottima autodidatta. Ingollo l'acido e lo trasformo in miele. È molto difficile ma lo faccio, per me stessa, per le persone che mi amano. Voglio essere così e combatto per me stessa, sono la mia armata. Sto studiando per diventare me stessa, altro che per diventare un medico.

La poesia è il linguaggio attraverso il quale più spontaneamente si esprimono i pensieri, soprattutto quelli nascosti, che non trovano parole. Ne sono fermamente convinta. Se dovessi far parlare un paziente di sé ed egli ne fosse incapace, lo inviterei ad utilizzare un linguaggio poetico. Questo posto è così lontano dalla poesia! Nessuno vorrebbe tornarci, nemmeno con il ricordo. Tutto qui è una congiura contro la poesia: il treno, l'autobus, il traffico, il giro del parcheggio, le macchinette del caffè, i bagni, i corridoi, le persone. Non sopporto la confusione della fila al bar. Prima di tutto il bar è un prefabbricato di plastica. Poi le persone concitate si mettono in fila con i pacchetti di patatine in mano per fare lo scontrino e comprare altro cibo. Sembrano invasati, non sanno cosa mangiare per pranzo perché sono disponibili soltanto piccoli tramezzini e presi dal panico finiscono per spendere venti euro. Confusi pagano alla cassa e poi ordinano, dopo aver scrutato frettolosamente la vetrina, pronti a scattare verso la fila. La trovi lì a tutte le ore, la folla. Tutto questo non è naturale, né per una colazione, per un pranzo, per una cena. Neanche per un caffè.
Alla fine del tirocinio, si necessita della verbalizzazione. Significa crediti, significa riconoscimento delle ore passate in reparto ai fini del raggiungimento di un punteggio per la laurea. Mica male, eh. La verbalizzazione è digitale, basterebbe che una segretaria fornita di terminale inserisca il codice dell'insegnamento, il numero di matricola dello studente ed in trenta secondi tutto ciò che è dovuto allo studente che ha compiuto il suo dovere è riconosciuto. Purtroppo per tradizione esiste un libretto che per tradizione, ma inutilmente, deve essere firmato dal tutor. Le segretarie raramente accettano di verbalizzare attraverso il terminale se il tutor non ha firmato il libretto. Così, si cerca il tutor, si consegna a lui il libretto. Il tutor tiene il libretto per circa dieci giorni, senza firmarlo, lo fa ed infine la segretaria verbalizza il tirocinio. Si tratta tuttavia di una gran semplificazione, spiegata così. Che qualcuno che ti tratta come un mobile brutto si tenga il tuo libretto per dieci giorni mantenendo in sospeso l'accreditamento della mia permanenza nel limbo mi fa sentire schiacciata, mi crea un sentimento di dipendenza e schiavitù da una forza malefica. 
Non ho cominciato a voler bene a nessuno in questo posto. Quando sono qui, mi sembra di voler bene da lontano. Credo che mi sentire meno lontana se mi trovassi in Alaska, ma stessi forgiando la mia anima.
Non che la mai anima qui si fermi o muoia, semplicemente soffre. Si rimpicciolisce e fischia come un petardo, pronto a scoppiare, ma non lo fa, fino alla prossima ora, fino alla prossima corsa all'autobus, fino alla prossima vista dell'Arno, dei colori di una via in cui si infila il vento, di alcune porte di cui ho le chiavi nel mio mazzo, di alcuni momenti in cui mi sento così forte da giocare e creare qualcosa, pur se stanca ed affranta. 
So bene che c'è qualcosa di molto vitale là fuori e dentro di me, anche se per la partecipazione di molte cause questo qualcosa è informe. Si trova un po' spezzettato, nelle persone, nei volti, nelle vetrine, nei pochi soldi, nelle padelle in cui soffriggo l'aglio e nelle cose che scrivo, disegno, leggo. 
Si tratta di una sorta di esperimento alchemico che riguarda le mie capacità e le mie finalità, e se le prime sono confuse le seconde sono molto nebulose, al momento, ma si tratta di avere un sogno, ed è davvero difficile quando ogni materia da sogni è materializzata ed in plastica in qualsiasi casa, agenzia, cestino della spazzatura. Credo che la mia generazione sia nata con scarsa capacità di sognare: quei famosi pensieri felici, quei sogni che fanno volare nella stanza dei bambini con Peter Pan. Credo che siamo una generazione a cui hanno tolto i sogni. Purtroppo la mia generazione, pur arrabbiata, non ha capito che i sogni, ormai tolti, non vengono mai restituiti. L'unica strada è farne di nuovi, tornare a sognare. Chissà chi lo capirà. Devo dire che cercare di realizzare un sogno frequentando i tirocini di medicina è molto stancante. Ma cosa mi illudo...tutte le situazioni non sono forse simili? Siamo tutti nella stessa stanza, con il lenzuolo tirato fin sopra la testa. Mammina, io non voglio crescere
E chi lo vuole. Ma se poi si inizia a sognare, ci ritroviamo sopra il letto ed adulti. Il bambino diviene adulto quando impara a sognare. 






mercoledì 2 gennaio 2013

Appunti di viaggio...


La libertà…la libertà sta nel libero uso del linguaggio, nell’utilizzare coscientemente l’espressione estroversa ed introversa per comunicare la propria personalità.
Ho difficoltà a formulare discorsi, creare personaggi. Rimangono come fuochi fatui nella palude della mia immaginazione e non mi aiutano ad esprimere sentimenti. Un tempo, scrivere era per me il modo più intenso di esprimermi che mi permetteva di sentirmi ricolma di un sentimento reale. Il linguaggio scritto ed il redigere un discorso ha perso per me questo primato e questo mi è chiaro quando mi cimento in questa azione, che diviene in qualche modo l’espressione del mio struggimento nel silenzio della ragione di fronte all’inspiegato. Ho voglia di essere sintetica, ho voglia di esprimere un’idea o delle idee ma fatico a comprenderle all’interno di un discorso. In senso più letterale, molto spesso non comprendo il senso di queste idee, come se io stessa fossi un discorso e tra le mie estensioni linguistiche, la mia cultura e le cose nuove che sento di star costituendo mancasse un nesso fondamentale vacante a causa di una mia incapacità.

Non mi sento padrona del mio linguaggio, del mio stile, mi sento acerba ed l’idea del futuro mi angoscia perché appare come una dimensione peggiorativa del presente. Non so contro cosa ribellarmi –contro tutto –ma non so cosa sia davvero rinnovabile. Ogni cosa è d’aria ed indistruttibile perché incontrollabile. Il debito, il declino, la fame, l’industria, la politica. Non posso credere che il mio mondo rifletta continuamente su tali illusioni –debito, debito, debito, crisi, crisi, parole che vengono ripetute in continuazione. Come se per fare qualcosa noi ci si sentisse motivati solo in previsione dei soldi che ne verranno. Mi sveglio la mattina incredula e mi sento estraniata perfino dalle persone che mi sono più vicine perché c’è qualcosa di agghiacciante nel loro sorriso e nella loro soddisfazione, nella loro motivazione o non-motivazione per partecipare alla vita della comunità e dello stato, in ciò che loro interpretano e giustifica come istinti, sentimenti o cose della ragione. Tutte queste cose dà loro un odore di decomposizione. Mi sento eterna e labile in mezzo a loro, mossa da una corrente che loro non riconoscono. Mi sento destrutturata e denaturata –natura, che parola. Una parola a cui non so più dare un significato, se non aggrappandomi ai miei riecheggiamenti filosofici. Non so tramutare i miei pensieri in idee forti e vorrei chiedere aiuto ma le persone che vorrei raggiungere o sono morte o sono inarrivabili. Mi sento gravata dalla scorza della mediocrità e dell’anonimato, come le donne romane che non possedevano nome proprio, mi aggiro tra libri e foto nel disperato bisogno di riempirmi ma non sono mai sazia. 
Le parole ed i personaggi efficaci non spuntano mai e questo è snervante.
Ho perso le illusioni e con esse il grande potere dell’evocazione. Ho voglia di un sogno vero, di quelli sognati, da cui sgorghi un’idea vera, di quelle ideate, per intraprendere un combattimento che sia il senso stesso della realtà. Ho paura di morire per quello che potrebbe non avvenire prima.
Ho realizzato questa grande sfiducia e mi sento come il mio borsellino vuoto.

Vorrei passare accanto a Corrado Augias, a David Grossmann, a Charlotte Bronte, a Roberto Vecchioni, a Giorgio Basaglia ad un delfino e ad uno scimpanzé e chiedere loro come si sentono. Vorrei essere un sordo da sempre vissuto tra udenti che incontra un altro sordo e finalmente cominciare a parlare, esprimere i pensieri nella lingua adatta che si è stabilita nello stesso istante in cui la comunicazione è stata possibile. Vorrei leggere le parole da me scritte su una pagina e riconoscermi come mi accade con una fotografia che ritrae il mio viso. Lo sanno fare alcuni scrittori con me ma io non lo so fare con me stessa. E’ come se la mia voce provenisse dall’esterno e non dall’interno. E’ molto doloroso aver ammesso questo.
Desidero essere toccata da un bosone di Higgs.
Vorrei avere le parole per fare quello che mi piace. Le vecchie parole, quelle dell’adolescente, non vanno più bene. Sono alla ricerca di nuove parole. Sono molto spaventata dalla vuotezza di significato con cui molte di essere vengono usate nel mondo degli adulti. Mi spaventa la parola amore, la parola morte, la parola Dio, la parola separazione, la parola matrimonio, la parola gioia e dolore. 

Christina's World by Andrew Wyeth (1948)