martedì 5 marzo 2013

Una recensione sbagliata (su un film): Detachment


Ieri era ho guardato un film, Detachment – Distacco, che parla di insegnanti.
È un film verità, in tutti i suoi aspetti: gli attori narrano la verità, attraverso i loro i corpi, le loro espressioni, il suono della loro voce; la storia è verità, perché quella storia sono gli insegnanti, sono i ragazzi, sono la scuola; l’ambiente, che si trasforma da realtà a pensiero, un edificio scolastico che interpreta la devastata casa Husher, nelle cui mura diroccate abita uno spirito affine a quello che dorme, inquieto, nelle mura della scuola.
I miei genitori sono insegnanti: mia madre insegna matematica e scienze alla scuola media, mio padre storia e filosofia alla scuola superiore. Insegnano da quando avevano ventisei anni ed ora hanno quasi trent’anni di carriera. Io sono nata quando di anni ne avevano vent’otto e quindi li ricordo: i giovani insegnanti. Giovani e belli, magri ed energici, stanchi.
Ricordo i miei genitori stanchissimi e poveri, la sera, nella nostra casa di cinque stanze in cui abitavamo in cinque. Ricordo i loro occhi sgranati quando si raccontavano di chi li aveva offesi, di chi aveva deturpato il loro nome, di chi aveva pianto a dirotto, delle ore passate a sentirsi gli avvocati delle cause perse. Io li ho visti in quel film, Detachment, ieri sera, e forse è per questo che mi sono così commossa.
Il film ha definito ciò che io molto profondamente desidero definire, sempre, forse senza riuscirci: gli insegnanti. In questo paese, forse in tutti, gli insegnanti non sono amati: ho ascoltato le stesse frasi pronunciate da tutti, coetanei, genitori di amici, commesse, impiegati del comune, verdurai, camionisti, medici, giudici e avvocati, giornalisti, politici.
Sono le stesse frasi che una serie di facce anonime, riprese da molto vicino, pronunciano durante i titoli d’apertura del film: basta telefonare, dire che si sta male e non vai al lavoro. Le ferie di tre mesi durante l’estate. L’orario di lavoro ridotto a sei ore, soltanto la mattina. Fannulloni, marajà, privilegiati, questi insegnanti. Ladri.
Queste cose le ho sempre sentite dire e non mi sono mai trattenuta dopo, dal dire: i miei genitori sono insegnanti, entrambi. E dal dichiarare che queste sono tutte balle, balle, balle, balle.
So che è difficile difendere la categoria. Infatti loro non la difendono: la condannano. Si scontrano con i colleghi arrivisti, che pensano alle pubblicazioni e non ai ragazzi, cercano di proteggere gli stuendenti da chi ha occupato un posto soltanto per un contratto a tempo indeterminato.
A volte piangono, come il protagonista del film. A volte avvicinano la mano al telefono che squilla così lentamente che io credo che non lo prenderanno mai, mai.
So che la categoria non è difendibile. Questo è ben visibile anche nel film: ci sono porci, ci sono ignoranti, incompetenti. Quello con cui ci si scontra, se stai nella scuola e sei davvero un insegnante, è l’ingiustizia. Credo che sia la professione che sta più vicina all’ingiustizia, più della guardia carceraria, più del magistrato anti-mafia, più dell’attivista per i diritti umani.
L’ingiustizia è una presenza invisibile che li tocca, li scarna, cancella loro il volto, esige il loro distacco, il loro fuoco freddo per combatterla.
Harry, il professore del film, ne parla proprio così, parafrasando: noi stiamo vicino ai giovani e li vediamo disperati. Li vediamo che non credono, vediamo il terrore di ciò che li aspetterà, il nulla che vedono e non possiamo far altro che essere noi stessi. Non possiamo far niente, possiamo soltanto essere lì e poi lasciarli andare al loro destino di gocce nell’oceano.
Questa è un’esperienza terribile: nessuno dice grazie ed il fallimento aleggia, sempre, nella vita comune ed ingiusta che quei bambini, alle porte della vita adulta, si avviano a condurre da soli, fuori dall’aula dell’insegnante che li ha amati.
Tutti gli insegnanti, nel film, oltre ad essere stanchi e continuamente provati dalla commozione, sono soli. Questo è il particolare che ho notato con più chiarezza.
Per lunghi anni mi sono chiesta perché i miei genitori siano così soli: hanno pochi amici, escono poco, il fine settimana non sanno mai cosa fare. Mi dicevo: i genitori dei miei amici non sono così. Escono con tavolate di conoscenti a mangiare la pizza, partono per il fine settimana, vanno all’Ikea.
Dalle parole di un’insegnante del film: il venerdì sera mi dispero. L’idea del fine settimana da passare da sola mi distrugge.
Ora ho capito. I miei genitori sono soli perché sono insegnanti. Gli insegnanti sono soli, soli al mondo.
L’identità tra loro ed i personaggi del film mi ha impressionato: loro mi hanno fatto vedere tutto quello che non ho mai raccontato di loro e mi sono sentita grata. Vorrei che tutti lo vedessero, che tutti sapessero. Vorrei che ascoltassero Adrien Brody, che interpreta il protagonista, il professor Barthes: osservassero il suo viso scavato, ognuno dei suoi lineamenti che interpreta ognuna delle sue parole, e dopo tornassero a guardare il volto di mia madre, mio padre, il mio, che sono la loro figlia. Capirebbero lei, capirebbero lui, capirebbero me, che ne sono il frutto e partecipo della loro vita. Capiterebbero la loro tristezza, la loro solitudine e parte della mia.
Non so se è lecito, ma questo film che ho guardato lo dedico a loro e a tutti gli insegnanti, degni di esser chiamati tali, che ho conosciuto. Forse il mio punto di vista è privilegiato, perché loro mi hanno generato, ma c’è molto dolore anche in quelli di loro che sono più piccoli, più deboli, più schiacciati, perché non c’è davvero nessuna gloria in questo mestiere, e ci si riempie di polvere.
Per quelli che odiano gli insegnanti, giustamente avendo avuto esperienze terribili con matti, porci, violenti, ignoranti, macellai e dittatori (che ho provato anche io, intendiamoci), fate così, da oggi: cercate lo sguardo triste degli insegnanti, quelli veri. Aiutateli, in quella lotta impari contro l’ingiustizia, contro le persone prive di consapevolezza, perché
"È facile essere indifferenti, l'interesse richiede coraggio e il coraggio richiede carattere!"
Mi sento in colpa ogni giorno, per la solitudine dei miei genitori, in quanto giovane. A volte è difficile sopportarli ma ogni giorno io attingo pazienza ed idee per suggerire loro qualche appiglio e forse…sono diventata anche io un po’ insegnante.

Di più non dico. Se avrete l’occasione di leggere questo post, se siete una di quelle tante persone, come lo sono io, che hanno provato lo schifo della scuola pubblica, ma siete ancora privi di consapevolezza e questa rabbia non sapete dove dirigerla, se non sulle persone, non fermatevi alle mie parole. Guardate il film, Detachment. Certe cose vanno fatte dire a chi ha gli strumenti per farlo, a chi lo sa fare. Malgrado io abbia la tristezza, forse io non li ho quegli strumenti, non ancora.  

 

3 commenti:

Anonimo ha detto...

Davvero un bel post, mi hai suggerito un bel film da vedere. Aggiungo inoltre che il produttore è lo stesso che ha girato "the hurt locker", grandissimo film a mio parere

Unknown ha detto...

Grazie, del commento e del consiglio di rimando! :)

Anonimo ha detto...

ciao. bell'articolo.
ho pubblicato sul mio profilo FB
(https://www.facebook.com/luigi.porchi)

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