domenica 14 aprile 2013
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A leggere Joseph Roth ho avuto
esattamente questa sensazione: che Roth si fosse messo
silenziosamente e fluentemente a scrivere sul suo quaderno, durante
una mite serata di aprile, direttamente sul mio scrittoio. Alle prime
luci dell'alba, che si fosse alzato ed allontanato percorrendo le
strade ancora addormentate, guidato dal canto degli uccelli. Quando
mi sono svegliata, ho trovato le sue parole, lì, e mi sono stupita
che potesse essersi già allontanato tanto. Dove sei, Joseph? Come è
possibile che le tue parole, adagiate con grazia sulle pagine, siano
ancora così fresche, come se fossero state concepite dalla sua mente
soltanto un momento fa? E' incredibile: è un libro caldo, tiepido
come la sensazione che si ha toccando con la mano la pelle di un
uomo. C'è qualcosa di immortale in quel modo di scrivere, qualcosa
fatto di spirito. Sono pagine che hanno continuato a scriversi, a
partire dal 1925, tutti i giorni, fino ad adesso, e continuano a
suonare, in divenire.
Il libro che ho amato di
più, tra quelli che ho letto - La Cripta dei Cappuccini, Ebrei
Erranti, Le Città Bianche, La Ribellione e la Leggenda del Santo
Bevitore - è stato le Città Bianche: si tratta di quello che noi
oggi chiameremmo un reportage giornalistico sui luoghi storici del
Sud della Francia, come uno di quello di cui godiamo, pubblicati
nella sezione della cultura dei nostri quotidiani, raccolti e scritti
da Paolo Rumiz.
E' un libro breve,
significativo e coinvolgente per tutta la sua lunghezza. Nella breve
"introduzione", virgolettata perché in realtà non è in
discontinuità con il resto del libro, Roth parla di sé: si
definisce un giovane di trent'anni e si descrive in funzione della
sua giovane età, della sua esperienza in guerra e di cosa il suo
nuovo impiego, il giornalismo, ha significato per lui. Per quel che
riguarda questo ultimo punto, egli ci confida che questo ha
costituito per lui una svolta, cioè mettersi in viaggio, uscire
dalla Germania, il paese nel quale un ragazzo come lui vede
rappresentata fin troppo visceralmente la sua identità come quella
di un perdigiorno, per di più ebreo, con tutto ciò che all'epoca
significava e che egli racconta in Ebrei Erranti con la tenerezza
mista ad l'incredulità che ci ispirano tutte le assurdità
socialmente determinate a cui fin dalla nascita siamo abituati (io,
sono italiana, e questo lo so fin troppo bene!). Il viaggio del Roth
giornalista è l'esperienza che gli permette di conoscere il
movimento alternativo a quello che ha costituito per lui una sorta di
imprinting, cioè l'allontanamento forzato che la guerra ha richiesto
ai giovani. Questo passaggio è sublime: soltanto Roth è riuscito a
chiarirmi quale immane tragedia è stata per l'Europa e la
generazione appena nata dei primi anni del novecento la Prima Guerra
Mondiale. Noi non conosciamo le radici dell'odio e della diffidenza
che aleggiano in questo nostro gremito continente, del nichilismo e
della sfiducia nell'economia e negli stati, il difficoltoso procedere
delle masse e delle istituzioni nel costruire qualcosa che sia
duraturo, nel prestare la nostra fede in ciò che può essere
costuito nell'unirci tra singole individualità: ecco, questo è
cominciato lì, con le leve militari tra l'estate del 1914 e la fine
del 1918. E' un'epoca così lontana, eppure Roth non è lontano. Ve
l'ho detto, ha lasciato la mia stanza soltanto una mezz'ora fa, le
sue pagine sono ancora flesse a causa del tocco delle sue dita e
della sua penna.
La generazione di Roth è
stata violentata, disanimata. Ciò che egli descrive ritrae le stesse
sfumature che sono tratteggiate nelle poesie di Giuseppe Ungaretti:
questi due uomini sono senza dubbio della stessa specie, due
navigatori del buio e del sottomarino, che attingono a quel "nulla
d'inesauribile segreto", che forse era maturato, nell'esperienza
di Roth, a causa del vuoto lasciato da un sistema scolastico che lo
valorizzava ma senza dimenticare la sua etnia di provenienza, da una
passione per la letteratura tedesca che fu la base per l'evoluzione
della Germania in un Impero che avrebbe messo in atto lo sterminio
del suo popolo, da una guerra che non solo dissolse la sua identità
come uomo ma anche come cittadino di uno stato, a seguito della
traumatizzante dissoluzione dell'Impero Austro-Ungarico, dalla moglie
che presa dalla follia abbandona anche lei le sembianze di una
giovinezza promettente e finisce per scomparire tragicamente. Nelle
prime pagine delle Città Bianche, è questo di cui parla: di una
stagione rubata, di una giovinezza conosciuta soltanto
anagraficamente, alla quale si crede soltanto per merito dei
documenti che attestano che è passata, dove e quando.
Intraprendendo il viaggio
in Francia, Roth assaggia in ritardo quello che non concepiva nemmeno
di poter più desiderare: il sole, la campagna, i monumenti
misteriori, i suoni della gente. Finisce per descrivere tutto questo
in un modo che non ha pari.
Una delle cose che mi ha
maggiormente colpito è stato il fatto che Roth compie questo viaggio
a piedi: me ne sono accorta ad un certo punto, quando egli racconta
di essersi attardato lungo la strada tra due città e si ferma a
dormire in un bosco. Potete immaginare un tempo, non troppo lontano,
in cui un uomo si sposta a piedi tra le città, per centinaia di
chilometri, e nei momenti in cui si sposta è solo, introvabile, e
soltanto lui può poi metterci da parte, soltanto con la forza delle
parole, di ciò che ha vissuto? Si tratta di una dimensione che
abbiamo perso, completamente. Ma se desideriamo immaginarlo, c'è
Roth, appena uscito dalla nostra stanza, che ci ha lasciato qualche
pagina scritta di fresco.
Roth ha una scrittura
poetica ed un modo multisensoriale di descrivere ciò che vede. Non
si tratta di una guida turistica, ma di un viaggio. Devo ammetterlo,
non ho mai letto un libro tanto bello.
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1 commenti:
Un libro non appartiene all'autore, una volta partorito possiede una sua vita autonoma e continua ad essere scritto dai lettori che ne sono conquistati. La bellezza del libro, insomma, si prolunga nel tuo commento e il mondo alla fine risulta migliore.
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