giovedì 30 agosto 2012
Parigi, 1949
Klara era molto giovane: questo era chiaro a tutti.
Era giunta a Parigi da pochi mesi, grazie alla donazione
di un lontano parente che viveva negli Stati Uniti, desideroso di essere il
benefattore di quella piccola macchiolina europea.
Quell’uomo di famiglia e d’impresa le aveva proposto di
attraversare l’oceano e raggiungere la sua casa, le sue proprietà, perché ne
potesse usufruire come una figlia generata dalla sua carne.
Klara aveva rifiutato: desiderava rimanere quanto più
vicino possibile al luogo dove era nata e rimanere in ascolto per tutto il
tempo in cui sarebbe stata ancora giovane. Viveva in attesa di un piccolo
segnale di resa da parte di quella distesa di terre e persone, cercava nei loro
volti la tenerezza ed il rilassamento della vecchiaia. Amava molto coloro che
le erano rimasti accanto e non era ansiosa che diventassero vecchi e morissero:
desiderava ardentemente che piegassero il collo e posassero la testa sulla sua
spalla, chiudendo gli occhi, come dei guerrieri che si fossero finalmente
arresi alla speranza e ne subissero le dolci conseguenze. Il futuro a quel
punto sarebbe arrivato a loro con i lenti passi di una ballerina classica ad
inizio atto, alta e lineare, che imita con graziosi gesti la goffaggine ed il
disorientamento di chi si trova in terra sconosciuta.
Il lontano parente americano le aveva scritto che
era rimasto molto colpito dalla sua risposta, dalla poesia di cui le sue parole
erano intrise. Scrisse che era certo che quell’elevazione delle sue modalità
espressive era dovuto alla sua storia ed al motivo della sua sofferenza.
Il luogo nel quale lei si era sviluppata rendeva
straordinario il suo modo di esprimere tali pensieri ed aspettative e concluse
rimarcando – si trattava della prima persona che glielo diceva – che era
davvero giovane. Klara rilesse quella parola diverse volte: in quel termine il
lontano congiunto aveva concentrato tutta l’enfasi del suo stupore. Nelle righe
seguenti lui chiedeva che cosa le sarebbe piaciuto fare, in Europa, nell’attesa
che le riserve di chi aveva intorno si sciogliessero in quella primavera
dell’anima, che sarebbe giunta inaspettatamente in pieno inverno.
Klara rispose che sognava di studiare canto a
Parigi.
Amava cantare, suonare, ballare. La musica per
lei, ed il racconto attraverso la musica, erano motivo di grande gioia.
Il vecchio ebreo, che custodiva ed elargiva ad i
nipoti d’oltre oceano i dolci ricordi di una sinagoga polacca in cui le donne e
gli uomini cantavano divinamente, pianse sulle pagine della lettera di Klara e
le rispose che le avrebbe inviato il denaro necessario per trasferirsi a Parigi
ed iniziare i suoi studi.
Klara accettò, non aveva niente se non sé stessa,
il corpo e la mente, ed era abituata a ricevere ed a vivere grazie ai doni
gratuiti degli altri. Aveva assistito alla morte di coloro che non avevano
accettato la generosità altrui. Rispose dunque con un laconico sì, come una
sposina predestinata, senza profondersi in ringraziamenti, visto che il lontano
parente aveva mostrato piacere nel constatare che lei era una creatura
straordinaria.
Quando giunse a Parigi fu accolta da una famiglia
che era stata contattata dal parente americano.
Le affittarono una stanza nella loro casa e la
aiutarono a trovare un lavoretto. Klara cominciò a prendere lezioni di canto e
si iscrisse al conservatorio. I suoi spiriti erano molto ardenti ed difficile
valutare oggettivamente se avesse del talento, perché la sua volontà e la sua
struggente vitalità oscuravano tutte le doti che da lei potevano sgorgare con
naturalezza come da una sorgente. La famiglia che la ospitava la amava,
malgrado la trattasse con una sorta di reverenziale timore, come se Klara fosse
un automa il cui meccanismo di funzionamento mistico fosse per loro oggetto di
studio e motivo di fascinazione. La ragazza incontrò difficoltà simili anche
con alcuni dei suoi professori: in molti si lasciavano trasportare dal
pregiudizio, esagerandone le qualità positive o negative. La professoressa di
armonia la accusava continuamente, interrompendo ogni sua esecuzione: sosteneva
che la sua storia non consisteva una giustificazione per la mancanza di
esercizio e di doti musicali. Non si vergognava di esplicitare testardamente la
sua impressione, ostentando un atteggiamento educatore, rimproverandola per la
sua pigrizia, tratteggiandola come un imperdonabile e lascivo vizio capitale, e
rimarcando ogni sua difficoltà. Klara pianse nella sua stanza a causa di quelle
parole e concluse la giornata certa che quella donna nascondesse una fede nel
partito nazista ed un odio contro l’ebreo. Cambiò professore di armonia e non
volle più avere niente a che fare con quella donna, che omettendo di osservare
la sua dedizione ed i suoi progressi la accusava di difettare sia nell’impegno
che nel talento, contro i fatti.
Klara era molto carina ed alcuni conoscenti la
invitarono a cantare nei loro locali. Molti avventori ne furono affascinati per
la sua abilità con il pianoforte e la sua audacia nell’accostare la bocca ad un
clarinetto. Le chiesero come si chiamava e l’assonanza esotica e dura del suo
nome li fece rimanere di sasso.
Klara Kalovi continuava a lavorare e due o tre
volte la settimana cantava e suonava nei locali. Conobbe molte persone e tutte
manifestavano il loro stupore verso la sua persona concentrandola in quelle due
parole, proprio come aveva fatto il lontano parente: sei giovane.
Avevano nostalgia della giovinezza e vedevano in
lei l’ideale dell’incostanza, della vaghezza, della gioia effimera della
bellezza. Klara riconosceva di essere giovane, e si sorprendeva a sua volta,
perché questo fatto era in contrasto con ogni sua precedente previsione: aveva
compiuto diciotto anni quando pochi anni prima era quasi certa che sarebbe
morta. Aveva avuto la scabbia e la polmonite. Era diventata pazza per la
stanchezza e l’umiliazione. Aveva lavorato con le sue piccole mani sporche.
Alle persone non sfuggivano le cifre numeriche
tatuate sul suo polso. Klara non aveva mai parlato con nessuno di quella parte
della sua vita e temeva il momento in cui avrebbe dovuto farlo.
Aveva paura che d’improvviso si sarebbe accorta
che non era giovane, ma vecchia, incapace di gioire e cantare, un corpo provato
dalla ricerca della riabilitazione dei sensi.
Viveva la vita a Parigi con tutta l’intensità
della condannata a morte, come era avvezza a fare. Baciava gli uomini come se
avesse dovuto dir loro addio il giorno seguente, era ingorda di sapere e di
libri, studiava fino alla tarda ora in cui era venuta l’ora di coricarsi.
Si vestiva semplicemente e non applicava
particolari abbellimenti sulla sua persona: se amava godere, al contrario non
amava mangiare, provava una sorta di diffidente avversione per il cibo,
soprattutto se solido, e per questo motivo era molto magra. I vestiti che
indossava le cadevano addosso come una seconda pelle sgualcita, dai colori
tenui e mai sgargianti. L’unica originalità che si permetteva erano cappotti e
cappelli: d’inverno indossava una pesante pelliccia e si copriva la testa e le
orecchie con grandi copricapi o turbanti. Questo suo modo di vestire era
interpretato come stravaganza, è così giovane, dicevano, anche se Klara
sceglieva quegli abiti impegnativi per un gran senso del freddo. Era
freddolosissima e se usciva di casa con la testa scoperta aveva la sensazione
di star per svenire.
Klara entrò a far parte di alcuni circoli di
universitari. La divertiva ascoltarli parlare di arte e letteratura,
confrontava quelle lezioni gratuite a quelle che le erano impartite dai suoi
professori, a scuola, e le trovava infinitamente migliori. Chiedeva ai suoi
amici di ripetere i nomi difficili e di rinfrescarle la memoria su argomenti
che avevano discusso durante gli incontri precedenti e loro rispondevano a
quelle domande con trasporto ed abnegazione. Sapevano che Klara veniva dalla
Polonia, avevano sbirciato la serie di numeri sul suo polso tagliente e
coccolavano con le loro attenzioni e la loro pazienza l’immagine della sua
magrezza di usignolo, che tanto bene si accordava con la sua voce paradisiaca.
Era la più giovane di loro, la più audace, la più ingenua, la più decisa. Se
voleva qualcosa, anche fosse la soddisfazione della propria ignoranza, la
chiedeva senza vergogna, perché ciò di cui le importava era soltanto la propria
realizzazione.
La domanda le fu posta una sera in cui si trovava
a casa di un amico. Avevano cenato tutti assieme, bevendo e scherzando. Klara
aveva cantato per loro, accompagnando con la sua voce da mezzosoprano il coro
degli studenti, guidandoli attraverso il testo della canzone senza ostentare le
sue doti di comando ed il suo carisma.
Dopo cena tutti gli invitati si spostarono nel
grande salotto, le cui pareti erano completamente occupate da librerie, che
ospitavano una collezione ammirevole di volumi. Di fronte al caminetto bianco
si apriva una grande porta finestra attraverso la quale si accedeva dalla
terrazza: da lì si godeva di una bella vista di Parigi. Quando tutti si furono
seduti, il padrone di casa andò verso la finestra e la spalancò, lasciando
entrare la fresca aria primaverile dentro la stanza. Tutti espressero la loro
ammirazione, come se soltanto adesso potessero osservare la città che al buio
si manifestava come una costellazione, e si avvicinarono all’apertura, chi
trascinando chi sollevando la sedia.
Klara rimase dov’era, lontana dalla terrazza.
L’aria fredda della notte non le ispirava nessun desiderio di vicinanza e le
generava un tremito.
Forse la domanda fu ispirata dal suo controllato
immobilismo, che non si concedeva al tremore, forse dalla sua figura longilinea
che era rimasta in penombra, illuminata soltanto dalle luci delle lampade.
“Klara, parlaci della tua vita nel campo di
concentramento.”
Klara non rispose. Non sentiva timidezza né orgoglio: niente che le impedisse di
parlare. Era quello che aveva sempre temuto. Ma non appena iniziò a parlare,
capì che qualcuno era giunto a salvarla nel momento del bisogno.
“Quando ero bambina, vivevo con mia madre e mio
padre a Varsavia. Eravamo una grande famiglia e vivevamo felici. Ricordo che un
giorno giunse a vivere con noi il nipote di mio padre. Per me fu come se fosse
giunto il fratello maggiore dopo un lungo viaggio. Ricordo che prima della
guerra mia madre, le sue sorelle e zie prepararono una grande cena e furono
invitati tutti i parenti e gli amici che vivevano a Varsavia. Io non avevo
voglia di aiutarla, così mi nascosi in giardino. Mi addormentai nascosta in un
cespuglio. Fu mio cugino a svegliarmi e per divertirmi mi mise in testa
un’idea: mi disse che avrei dovuto inventare una storia e raccontargliela
l’indomani. Ricordo che per tutta la sera intervistai i parenti e gli amici
musicisti: li feci suonare per me uno per uno. Saltavo in mezzo a loro mentre
suonavano i duetti. Tutto era musica, quella sera, e la mia storia fu ebbra di
musica. Nel momento di coricarmi ero sfinita: la mia storia era affollatissima
di personaggi e canzoni ma io non riuscivo a formularla. La mattina seguente
confessai a mio cugino il deludente epilogo: lui fu molto dolce e mi disse che
il mio era stato il miglior risultato possibile. In molti riuscivano a decidere
la loro storia in una sera soltanto, è un privilegio di pochi invece rimanere
nell’attesa ed osservare il mondo più a lungo, facendo crescere la storia come
un giardino. Mi disse che la mia storia sarebbe sbocciata nella stagione
primaverile. Mi disse che avrei dovuto sempre ricordare i personaggi che avevo
scelto ed osservare le loro gesta, apparentemente sconclusionate, per il tempo
che sarebbe bastato. La mia era una storia in divenire.”
Sorrise al ricordare suo cugino Adam. Aveva voglia
di abbracciarlo e carezzare quei suoi riccioli selvaggi. Nella stanza attorno a
lei era silenzio. Una storia su un argomento del genere non avrebbe potuto
essere interrotta, per quanto assurda e scollegata dalla realtà.
“Poco tempo dopo, noi ebrei di Varsavia fummo
costretti ad indossare una stella gialla sui vestiti. Non potevamo entrare nei
ristoranti, passeggiare nei parchi, camminare sul marciapiede. I miei genitori
ed io fummo costretti a trasferirci nel ghetto. Mio padre morì. I tedeschi ci
fecero uscire tutti dalle case e io persi mia madre. Giunsi da sola al campo di
concentramento. Non è stato facile sopravvivere, a causa della violenta
fisicità di quel luogo. Ho nuotato per anni su un’onda lunga, che non si è mai
infranta, fino a quando non ci hanno liberato. Molti di noi sono impazziti, accecati
dal dolore e dalle privazioni. Erano muti, smettevano di mangiare, non ci
riconoscevano più. Io ero molto forte e disumana. Io ho continuato ad
immaginare la mia storia di musicisti e musica. Ho continuato a pensare a mio
cugino Adam, quasi ogni sera mi sono addormentata pensando al fatto che il
giorno dopo gli avrei raccontato un nuovo episodio. I personaggi che avevo
individuato la sera della grande cena erano lì, attorno a me: il rabbino, il
cantore, il violinista rom, il trombettista che ha perso il l’amore, il
direttore d’orchestra, il contralto dalla bella bocca carnosa e drammatica…I
personaggi erano brutti e sporchi, vestiti male e tristi, ma erano lì, attorno
a me. La storia era secca, al momento, ma in divenire.”
Klara sospirò profondamente e qualcuno tra gli
ascoltatori la imitò, forse commosso.
“Volete sentire la storia che raccontavo a mio
cugino Adam?”
Qualcuno annuì, senza parlare.
“La storia narra di un medico. E’ la storia di una
bambina, siate magnanimi, ve ne risparmierò i particolari più infantili. C’era
una volta un medico. Essendo giovane e senza conoscenze, dovette ingegnarsi per
trovare dei dipendenti da assumere a poco prezzo nel suo ospedale. Lesse sul
giornale che il teatro della città aveva chiuso i battenti e decise di andar ad
offrire un posto di segretaria ad una delle artiste che aveva perduto il
lavoro. Disse loro che avrebbero svolto i colloqui sul palco, ormai vuoto da
spettacoli. Dovette esaminare attrici, acrobate, mangiatrici di spade,
clownesse e cantanti. Una gli recitò la patetica morte di un’innamorata, mentre
fingeva di rispondere al telefono, una fissò un appuntamento mentre si
contorceva, tutta sotto sopra, un’altra lo chiamò, Dottore! Dottore,
un’emergenza! Concludendo con una nota acutissima da valchiria wagneriana. Il
medico stava per gettare la spugna quando una gentile signorina si fece avanti
e si propose come segretaria. Era stata licenziata dal coro del teatro ed era
in cerca di miglior fortuna. Lui prese la palla al balzo ed assunse la
signorina alle sue dipendenze. Ben presto fece di lei il suo braccio destro: la
signorina ammansiva i pazienti impegnandoli in cori patriottici, domava i
vecchi capricciosi cantando le loro canzoni preferite e calmava i bambini
isterici con dolci nenie. Ben presto l’ospedale fu tanto gremito che il dottore
dovette cercare altro personale. Naturalmente affidò il compito alla signorina,
che si affrettò ad assumere tutti i musicisti del vecchio teatro. Così,
l’ospedale divenne il tempio della musica: ogni reparto aveva una sua orchestrina,
i pazienti cantavano accompagnati dalla musica del violino e del contrabbasso,
i bambini ricoverati erano istruiti sull’uso dello strumento. Il successo della
struttura fu enorme ed il medico fu chiamato dal sindaco per ricevere i
complimenti per la geniale trovata con la quale lui aveva inventato un nuovo
tipo di ospedale…”
Klara si fermò perché si accorse che una delle sue
amiche stava piangendo. La guardò a lungo, prima di riuscire a dirle qualcosa.
“Non devi piangere, è una storia buffa!”
Il padrone di casa raggiunse l’amica e la abbracciò,
accogliendo sulla propria spalla i suoi singhiozzi, quindi rivolse un sorriso
mansueto a Klara.
“E’ vero, Klara. È solo che la tua storia è
molto dura. La nostra amica si è messa nei tuoi panni ed ha provato dolore. Ti
siamo molto vicini e soffriamo con te.”
Klara continuò a guardare la ragazza scossa dai
singhiozzi. Il suo amico aveva ragione: la storia era buffa ma trattandosi
della sua storia era dura. La storia del medico e della signorina era
buffa ed ingenua, non avrebbe potuto far piangere nessuno, ma soltanto uno
sciocco avrebbe potuto credere che si trattava della storia del medico e della
segretaria. Era la storia di Klara. Eppure, Klara avrebbe voluto che la sua
amica si asciugasse le lacrime grazie all’intuizione che quella ridicola storia
rappresentava un’ancora di salvezza alla realtà, l’amata realtà di Klara. Se
solo la ragazza avesse potuto vedere la faccia, rugosa come una pergamena,
della nonna Sarah, che aveva una voce tanto flebile e commuovente da ricordare
quella di una bambina, oppure i baffi dello zio Konrad che ondeggiavano
selvaggiamente, come due serpi, mentre lui suonava la viola, o l’audacia del
piccolo Filip che malgrado le sue dita fossero corte e paffute cercava di
spodestare il suo anziano padre e dominare la sua fisarmonica, o ancora le
sorelle Anna ed Elisheva che cantavano come due angeli ma nel mezzo della
canzone scoppiavano a ridere come due iene e non la smettevano più, tanto che
rotolavano a terra, mentre la musica continuava…
Klara era consapevole di essere l’unica superstite
di quella concitata orchestra che aveva visto la luce quella sera, nella sua
casa di Varsavia, alla cena offerta dai suoi genitori. All’epoca, le era
permesso di cantare come è permesso a tutti i bambini e nessuno le chiedeva di
essere coerente, bastava che vivesse e si divertisse, aggirandosi liberamente
tra quei musicisti e scegliendo ogni momento un nuovo favorito a cui ispirare
le sue scelte future.
La sua famiglia era sterminata ed aveva rivisto
alcuni di loro nel campo di concentramento: si trattava di incontri sfuggenti e
di scambi di parole poco approfondite, prive di coraggio. Nessuno aveva voglia
di parlare con Klara, una bambina senza genitori che avrebbe potuto lasciarli
da un momento all’altro. Nessuno dei suoi eroi aveva il suo strumento con sé:
erano folli e stanchi, pieni di pulci. Eppure la visione di quei visi
familiari, di quelle mani che un tempo si erano contorte sullo strumento loro
amico le regalava un istante di ebbrezza e di aspettativa, che si spandeva sui
nodi delle sue deboli forze e donava loro nuova robustezza. Aveva immaginato
che la sorte degli altri personaggi della sua storia (della cugina Halina e di
suo figlio Moses, dei fratelli Jurek e Stefan…) fosse stata del tutto simile e
così, giorno dopo giorno, il teatro era stato smantellato e tutti i musicisti
si erano trovati nel campo di concentramento, nudi ed affamati. I loro
strumenti erano stati venduti sulle bancarelle in cambio di un pezzo di pane,
di una coperta, il teatro era stato dimenticato e le bombe ed i cannoni non lo
avevano risparmiato, ciechi di fronte a quella reliquia a cui nessun uomo
faceva più attenzione. Klara aveva scrutato per anni al di sopra delle teste
che affollavano il campo, mentre lavorava: lei aveva la fortuna di sapere in
anticipo che sarebbe giunto il dottore, così avrebbe giocato d’astuzia, per il
bene di tutti, ed avrebbe fatto in modo di presentarsi in modo consono per
essere assunta per il posto di segretaria, accedere al mondo lindo dell’ospedale
e poi fondare una nuova orchestra.
Sapeva che la maggior parte di coloro che avevano
ispirato la sua fantasia erano morti o non avrebbero mai più suonato. Non
appena uscita dal campo, questo pensiero l’aveva resa triste. Poco tempo dopo
essere stata liberata fu trovata da suo cugino Adam.
Lui stette a lungo con lei, in ospedale,
insistette affinché lei gli raccontasse quella storia che tanti anni prima lei
aveva detto esser ancora incompiuta e non adatta all’ascolto di un pubblico.
Dapprima Klara si era molto irritata a causa di
questa richiesta, gli aveva chiesto di andarsene ed aveva mostrato
indifferenza. Un istinto irresistibile le suggeriva di tenere nascosta la
storia ad Adam, di non confidarla mai a lui né a nessun altro. Presto sarebbe
uscita dall’ospedale e sarebbe tornata alla sua vita, una vita senza famiglia,
amici né orchestre.
Di fronte all’insistenza del cugino, Klara aveva
ceduto ed aveva confessato il motivo delle sue rimostranze.
“Provo molto dolore. Tutti coloro che erano
musicisti nella mia storia sono morti. Li ho visti consumarsi.”
Adam la aveva abbracciata e le aveva baciato la
fronte come se la pelle di Klara fosse una cosa sacra. Klara aveva tremato e
poi aveva percepito il segno umido di quel bacio in mezzo alla propria fronte,
come se lui vi avesse dipinto qualcosa.
“Sono felice che tu abbia conservato quei nostri
musicisti nella tua storia.”
Klara aveva pianto, disperata.
“Sono rimasti i musicisti, le maschere della mia
fantasia. Le persone sono morte.”
Adam aveva parlato a lungo. Le aveva detto che
molti anni prima lei aveva scelto un manipolo di musicisti ubriachi per quella
storia che doveva soltanto divertirla. La scelta era stata tanto azzeccata che
i musicisti erano rimasti con lei per molti anni ancora. Aveva riconosciuto i
loro volti e le loro mani anche in assenza degli strumenti. Aveva provato
nostalgia per la loro musica, aveva desiderato cantare.
Le chiese se si ricordava come era nata quella
storia.
Lei disse di no e lui le raccontò di una bambina
che gli aveva detto di aver sognato, dopo aver dormito sul prato. Lui le chiese
che sensazione le aveva trasmesso, quel sogno, e lei aveva risposto: che ho
voglia di cantare.
Il canto è una cosa che viene prima di noi, Klara.
Così le aveva detto.
La musica noi la raccogliamo ma esiste anche oltre
i confini dell’uomo.
Klara pensò all’inumano campo, che si trovava ben
oltre i suoi confini. Pensò al silenzio orribile, alle orchestre animate dai
prigionieri su cui grava una condanna senza giustificazione. Quella era la
musica dell’inferno, quello era un impasto che le soffocava la mente.
Adam le aveva toccato il cuore, con una mano.
Premette le dita sullo sterno, con decisione.
Klara, la tua storia sta andando. La tua storia
sei te. È cominciata quando hai sognato, è cominciata quando hai avuto voglia
di cantare. Tu non hai mai smesso di aver voglia di cantare, non hai mai smesso
di cercare chi suonasse.
L’unica speranza contro la diseredazione è fare
della storia la nostra storia. Tu hai rifiutato quella terribile storia
che ogni giorno ti si propinava ed hai vissuto la tua storia. Sei
sopravvissuta. La tua storia è qui, tu sei qui. Vivila. Raccontami.
In quel momento Adam stava piangendo. Klara lo
aveva osservato, senza muovere nemmeno un dito per asciugare quelle lacrime.
Erano le lacrime di un giudice buono, che le annunciava il proscioglimento, che
la avrebbe abbracciata una volta che la seduta fosse stata tolta. Osservò con
intensità quelle lacrime trasparenti, avrebbe voluto berle, nutrirsene,
impastare la propria bocca con il liquido che proveniva dai suoi occhi. Si
sentiva bene, di fronte al cugino piangente, protetta dalla sua guida, dalla
storia che lui diceva essere sua.
Glielo disse e lui smise immediatamente di
piangere ed invece sorrise. Le disse che era stato istruito, in tal senso, da
uno spirito incontrato nell’immenso e sterminato bosco. Gli insegnamenti di
quel folletto gli avevano salvato la vita in più di un occasione.
Ed ecco che inizia un’altra storia, la tua, gli
disse Klara, ed entrambi furono felici di aver parlato e di essersi ritrovati.
Klara si alzò ed andò vicino alla sua amica,
mentre il padrone di casa le lasciava lo spazio dovuto, la abbracciò e la baciò
su una guancia, teneramente.
“Su, su, non piangere. È la mia storia, lo so. È la
storia che mi ha salvato, è una storia in divenire.”
La ragazza alzò verso il suo volto uno sguardo
inargentato di lacrime, parlò, scossa dai singhiozzi.
“E cosa succederà ora?”
Klara sorrise e le accarezzò i capelli. Tutti gli
invitati si erano riuniti attorno a loro, attendevano con impazienza che Klara
condividesse con loro un pronostico. La giovane cantante si sentì molto felice:
erano catturati dalla sua storia. Adam ne sarebbe stato soddisfatto: quello era un
segno che il racconto dei musicisti stava crescendo su un fertile terreno.
Quando avrai un pubblico, proverai il piacere di
sentire la tua storia vivere.
Aveva ragione, come sempre. I suoi consigli, e quelli del
suo folletto silvestre, non sbagliavano mai in fatto di storie.
“Ho voglia di guadagnare di più e studiare di più.
Ma più che altro, ho voglia di cantare. Sarebbe bello formare un’orchestrina.
Qualche elemento qui a Parigi lo potrei trovare. Ho contatti con un parente
americano. Sarebbe bello andare in America e scoprire qualcosa sulla musica che
fanno là. Cantare nei loro locali, sperimentare nuovi strumenti.”
Strinse tra le dita la mano della ragazza, che non
piangeva più, ma splendeva di pianto mentre sorrideva intensamente, e si eresse
in piedi, invitando gli altri a seguirla, con un gesto eloquente del braccio.
“Andiamo, siete tutti invitati! Vi assumeremo in
ospedale e poi tutti insieme in tournèe negli Stati Uniti!”
I suoi amici risero e Klara si unì a loro, felice
ma allo stesso tempo un po’ scossa. Dopotutto, era la prima volta che
raccontava quella storia. Qualcuno avrebbe potuto accusarla di leggerezza.
Avrebbero potuto pensare che aveva tralasciato i fatti e tratteggiato in modo
fantasioso i suoi ricordi soltanto per conquistarsi la simpatia di quella
compagnia. Chi erano questi accusatori?
Klara li immaginava cilindrici, alti, ed
impugnavano una frusta. Li conosceva bene e sapeva che potevano essere mortali.
Ma in quel caso, sapeva anche cosa rispondere loro: non mancava di rispetto a
se stessa per una questione di vanità. Impugnava l’unico modo utile che le
avevano insegnato per sopravvivere, a parte bere e mangiare. Cosa c’era di
vergognoso in questo? Avrebbe dovuto dispiacersi di essere individuale, diversa
dagli altri? Aveva combattuto con una divisa a righe e con tutte le arpie che
popolavano gli incubi per non ridursi ad un granello di terra e l’ideologia del
lutto non l’avrebbe avuta vinta. Non si fidava di chi oggi ostentava un lutto:
un domani avrebbe desiderato seppellire lei e tutti coloro che erano diversi,
per nuovo motivo, venuto alla luce con l'ingannatore sembiante di un bimbo.
Alcuni degli accusatori avevano tuttavia un
aspetto diverso: si trattava della coppia francese che le affittava la stanza,
della professoressa di armonia, degli avventori dei pub, delle amiche di
scuola, dei fidanzati. Alcuni di loro sorridevano, inteneriti, di fronte al suo
modo di essere, e sospiravano, ricolmi di ammirazione: sei giovane. Questo
non sarebbe durato per sempre. L’influsso del suo aspetto sarebbe venuto meno e
mano a mano il ricordo del campo si sarebbe affievolito nella mente dei suoi
alleati. Contemporaneamente, le righe verticali della sua divisa sarebbero
riaffiorate dalla sua pelle e niente sarebbe valso a nasconderle. La serie
numerica sul polso avrebbe luccicato, come Lucifero, invitando amici e
conoscenti ad una festa che non era un concerto. Non le avrebbero chiesto di
cantare, le avrebbero chiesto, con il solo sguardo, di non essere sconveniente
e non risvegliare la tristezza, di non attardarsi nei pensieri e di agire, di
non distinguersi dalla massa per futili motivi. Le avrebbero chiesto di
dimenticare, non appena il puzzo di cenere e polvere si fosse alzato dalle loro
città, portato via dal vento.
Klara era certa che sarebbe accaduto: la sentiva
come una maledizione a tempo, rodata da secoli, nei quali le vittime, i
carnefici ed i misfatti erano scivolati via dalla mente di tutti.
Klara avrebbe combattuto: non si trattava
semplicemente della Storia, tanto ineluttabile e disumana. Si trattava della sua
storia ed in quella sua storia lei avrebbe rifiutato le accuse ingiuste ed
avrebbe continuato a raccontare, a coltivare quelle piante e quei fiori
nell’alternarsi delle stagioni.
Alla fine della serata Klara uscì dalla casa
dell’amico e si avviò a piedi verso l’ospedale. Il dottore l’attendeva dietro
l’angolo, appoggiato ad un lampione. Klara non fu sorpresa di vederlo ma allo
stesso tempo se ne sentì affascinata: era così bello, con il volto magro
incorniciato da una nuvola di fumo, mentre la debole luce arancione del
mozzicone incandescente si irradiava sui suoi lineamenti.
“Non pensavo che saresti venuto a prendermi.”
“Ho finito il turno ed ho pensato che non sarebbe
stato conveniente farti accompagnare a casa da uno di quei tuoi amici
artistici.”
“Ma io sono sempre andata da sola fino a casa.”
“Non stasera. Sono un medico e preferisco
prevenire che curare.”
Il dottore le offrì il braccio e si misero a
camminare sul marciapiede, l’uno accanto all’altra.
“Sai, l’ospedale va bene, avremo bisogno di nuovo
personale. Avrei piacere che fossi tu ad occupartene, ma non sono certo che sia
una buona idea.”
“Ma certo che lo è! Lo farò con molto piacere,
tesoro!”
“Infermieri, biologi…sei una cantante, per quanto
buon senso tu possa avere, dove credi di poterli andare a scovare?”
“Ho già in mente qualcuno. Provare per credere.”
“Va bene. Credo che in fondo tu meriti la mia
fiducia.”
Klara rise e gli dette un bacio sulla guancia,
alzandosi sulla punta dei piedi.
“Sai, stasera abbiamo parlato di mio cugino Adam.
Credo che dovrei scrivergli.”
“Quel matto, quel bel matto. Sì scrivigli. È da
quando ti sei addormentata sul prato che non sento la sua voce. Avrei piacere
di conversare un po’ con lui. Avrei voglia di chiedergli cosa sia la fantasia,
cosa la realtà. Ho una certa difficoltà nel distinguerle. Forse perché sono un
prodotto della fantasia e fa parte della normalità della mia vita provare
questo disagio.”
“Ti assicuro che anche per me è così.”
“Ma allora siamo uguali. È davvero difficile
riuscire a distinguere. Scrivi a tuo cugino, ti prego, vorrei sentire il suo
parere.”
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