mercoledì 23 ottobre 2013
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a un cerbiatto somiglia il mio amore,
david grossman,
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Questa non è la storia di un grande amore; non parla nemmeno di belle persone.
Non scava nella profondità di una psicologia intricata, le parole di questa storia non ritraggono l’umanità nel suo grande mistero, rivelando ciò che tutti speriamo di scoprire, un giorno, prima che sia troppo tardi.
Si tratta di un’illusione, questa, che il libro smentisce. Come se ad ogni pagina l’autore, David Grossman, si sporgesse sopra le righe, con la spazzola bionda dei suoi capelli ed i suoi azzurri occhi ingranditi dalle lenti, e sussurrasse, tra il dispiaciuto ed il soddisfatto: non è questo, vero, ciò che speravi di trovare? Ho vissuto la stessa esperienza con tutti i libri di Grossman, anche se non nego che lui resta uno dei miei autori preferiti.
Vedi alla voce amore, Che tu sia per me il coltello: forse il segreto dell’illusione è l’allusione del titolo. Solitamente non ci aspettiamo che lo straniamento si annidi in quello che siamo abituati a ritenere una stringata sinossi della trama e del significato del libro: perché l’autore non dovrebbe conformarsi naturalmente a quel titolo – a quel nome proprio – con il quale egli stesso ha deciso di battezzare la sua creatura? L’errore e la sensazione che lo scrittore abbia voluto deliberatamente ingannarci ci inducono forse a tirare troppo presto le conclusioni sul libro in questione, perché in fondo ci hanno insegnato fin da bambini che chi tradisce il proprio nome cela il male, proprio come il Diavolo, che si chiamava Lucifero.
Beh, non fatelo, non con questo libro, che non è un’opera malefica concepita per disturbare il nostro buon umore, ma il fedele racconto di un’esperienza che viviamo tutti i giorni: sognare, desiderare di non destarsi dal sogno ed inevitabilmente, alla fine, cedere alla veglia ed alla crudele luce della vita.
A un cerbiatto somiglia il mio amore. Di David Grossman.
L’analogia con il sogno ed il risveglio, in fondo, funziona fin dal titolo. Questa frase suggerisce uno stato sognante, l’innamoramento; immediatamente immaginiamo di pronunciarla in modo trasognato, sospirante. Dove abbiamo imparato così bene a leggere una frase del genere, ad attribuirla ad un amante e non alla mamma di Bambi? Dai libri, ovviamente – nel caso di qualcuno, dai film. Una frase del genere sarebbe stata una battuta perfetta per Giulietta Capuleti, la più sventurata e romantica fanciulla dal 1594.
Vengo al dunque: qual è la più romantica delle scene della Most Excellent and Lamentable Tragedy of Romeo and Juliet? Proprio quella in cui i due amanti e sposi si stanno per risvegliare, all’alba che segue la loro prima ed ultima notte passata insieme, e maledicono la luce perché capiscono che il sogno, il loro agognato sogno d’amore, è finito. Giulietta cerca addirittura di ingannare Romeo e se stessa: è la civetta, non l’allodola, è ancora notte, è ancora notte, è ancora sogno. Alla fine, i due amanti riescono davvero a rendere il loro sogno eterno, procurandosi l’eterno sonno.
Va bene, A un cerbiatto somiglia il mio amore, non Romeo e Giulietta – chiedo venia, ma come ho inteso precisare nel titolo del post, si tratta di una recensione sbagliata.
Come la si legge sul libro, la storia: tre ragazzi si conoscono in una notte di coprifuoco, all’interno di un ospedale. Non possono né muoversi, perché sono malati, né vedersi, perché è buio, e non è rimasto nessuno nello stabile oltre a loro. La situazione è fuori dal comune ed il ragazzo A si innamora della ragazza A, ma la ragazza A si innamora del ragazzo B. I tre in seguito continuano a frequentarsi e la storia si muoverà sempre nello spazio triangolare che si è creato tra loro.
Tutti e tre i personaggi principali hanno modo, nel lungo romanzo, di aprirci la mente su temi importanti relativi alle loro storie personali: i fantasmi adolescenziali, la paura del terrorismo – la storia ha luogo in Israele – , la disabilità di un figlio, l’orrore della guerra, la fine di un matrimonio.
Eppure questi personaggi ci deludono: la ragazza A, Orah, in particolare. Più i capitoli trascorrono, più si ha la sensazione che la mala fimmina del ragazzo A, Avram, si riveli più superficiale di quanto lo stesso autore si aspettasse quando le ha dato vita in quel primo capitolo. Per quanto mi senta disillusa nei confronti di Orah, devo riconoscere due grandi pregi di questo seccante personaggio: la grande fisicità – se mi capita di provare ad immaginarla, posso quasi vederla – che le è conferita dalla carica emotiva che gravita a pochi millimetri dalla sua chioma rossa, come un’areola; d’altra parte si trova l’amore e la compassione per i suoi figli che lei riesce a far provare a chi legge le sue parole.
Anche per quel che riguarda il ragazzo A ed il ragazzo B, Avram e Ilan, si lasciano facilmente giudicare dal lettore per il loro amore – o non-amore – che appare scarsamente giustificato; sono completamente privi di epica e non ispirano (quasi) alcuna comprensione, vista la loro poco accattivante condotta.
Se lo avete appena comprato e siete incappati in questa recensione spero che siate arrivati fino a questo punto prima di buttarlo nel ripostiglio delle scope.
Se così non è stato, per favore, andate a recuperarlo, perché questo è il momento in cui confesserò che questo libro mi piace, non ho remore nel definirlo un libro bello, bello – sì, proprio così, bello due volte – e che vale la pena leggere.
Non perché parla di caratteri superlativi, di amore, di guerra, delle conseguenze di queste esperienze umane che, se vogliamo, sono state riscritte e rilette in tutte le salse.
Grossman è riuscito nell’intento di stupire e di scrivere qualcosa di completamente innovativo.
Grossman ha descritto un sogno di una notte, un ventennale dormiveglia ed infine un doloroso risveglio.
Il primo capitolo, nel quale i tre protagonisti, al buio, vengono a conoscenza l’uno dell’altro, è sublime. Soltanto il primo capitolo potrebbe valere il prezzo del volume, ammettendo che tutti gli altri potrebbero risultare nettamente inferiori rispetto alle aspettative. L'autore abolisce le virgolette del discorso diretto e ciò che leggiamo è ciò che i ragazzi pensano, si dicono a voce alta e che costituisce la realtà in quella notte di buio, bombardamento, assenza, tragedia, paura di morire.
Avram è il primo a parlare, ad abbandonare la forma del silenzioso embrione nel buio del ventre ospedaliero, e per tutto il libro rimaniamo con la sensazione che sia lui il creatore: Avram ha adescato Orah in una notte in cui poteva anche tacere, Avram accetta l’amore non corrisposto, Avram accetta la scommessa che lo porterà alla tortura, Avram rende possibile il viaggio di Orah con il suo consenso a seguirla.
Avram prova per primo – ben prima di noi, che stiamo ancora divorando quel superbo primo capitolo – che la realtà che sta vivendo non è altro che un sogno, che sarà deteriorato dalla realtà. Immagina il nome della ragazza che non può vedere e quello per lui è pieno di significato, eleva il suo spirito fino alle stelle; quando le chiede il suo vero nome, rimane deluso nell’apprendere la verità e quello è il primo segno riconoscibile del risveglio.
Credendo di trovarsi ancora nel territorio del sogno i tre protagonisti compiono molti errori, alcuni dei quali ci appaiono inspiegabili, eppure non dovrebbero, visto che anche noi sogniamo e nei nostri sogni compiamo con naturalezza le più bizzarre stramberie. La logica di Avram, Orah e Ilan è quella del sogno e li porta, come sonnambuli, a scontrarsi con il muro che delimita il mondo reale, cioè le tragedie della guerra, dei figli, della morte.
All’inizio del racconto, un’Orah adulta chiama per il figlio militare un taxi condotto da un amico di famiglia, un musulmano palestinese, per accompagnarlo al punto di raccolta dell’esercito israeliano: quando l’uno vede l’altro, entrambi vivono con profondo stupore e costernazione l’errore della donna, che sul momento non si spiega come abbia potuto commettere una leggerezza tanto imbarazzante. La furia di Orah ha inizio proprio dopo quel viaggio in macchina: Orah si agita nel lenzuolo, ha capito che è ora di svegliarsi, sta suonando la sveglia. Anche la sveglia di Avram suona: Orah fa squillare continuamente il suo telefono, il suo campanello, fino a che lui stesso non è chiamato a compiere con lei la lunga marcia che li condurrà al doloroso frutteto della realtà, al quale non possiamo sottrarci grazie all’incantesimo del sonno, la cui potenza non risiede nella capacità di controllare o cambiare gli eventi ma nel farci credere che possiamo evitarli senza tener conto di dove si trova il nostro corpo e quello di coloro che amiamo.
Non scava nella profondità di una psicologia intricata, le parole di questa storia non ritraggono l’umanità nel suo grande mistero, rivelando ciò che tutti speriamo di scoprire, un giorno, prima che sia troppo tardi.
Si tratta di un’illusione, questa, che il libro smentisce. Come se ad ogni pagina l’autore, David Grossman, si sporgesse sopra le righe, con la spazzola bionda dei suoi capelli ed i suoi azzurri occhi ingranditi dalle lenti, e sussurrasse, tra il dispiaciuto ed il soddisfatto: non è questo, vero, ciò che speravi di trovare? Ho vissuto la stessa esperienza con tutti i libri di Grossman, anche se non nego che lui resta uno dei miei autori preferiti.
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David Grossman ritratto mentre mi appare tra le righe. |
Beh, non fatelo, non con questo libro, che non è un’opera malefica concepita per disturbare il nostro buon umore, ma il fedele racconto di un’esperienza che viviamo tutti i giorni: sognare, desiderare di non destarsi dal sogno ed inevitabilmente, alla fine, cedere alla veglia ed alla crudele luce della vita.
A un cerbiatto somiglia il mio amore. Di David Grossman.
L’analogia con il sogno ed il risveglio, in fondo, funziona fin dal titolo. Questa frase suggerisce uno stato sognante, l’innamoramento; immediatamente immaginiamo di pronunciarla in modo trasognato, sospirante. Dove abbiamo imparato così bene a leggere una frase del genere, ad attribuirla ad un amante e non alla mamma di Bambi? Dai libri, ovviamente – nel caso di qualcuno, dai film. Una frase del genere sarebbe stata una battuta perfetta per Giulietta Capuleti, la più sventurata e romantica fanciulla dal 1594.
Vengo al dunque: qual è la più romantica delle scene della Most Excellent and Lamentable Tragedy of Romeo and Juliet? Proprio quella in cui i due amanti e sposi si stanno per risvegliare, all’alba che segue la loro prima ed ultima notte passata insieme, e maledicono la luce perché capiscono che il sogno, il loro agognato sogno d’amore, è finito. Giulietta cerca addirittura di ingannare Romeo e se stessa: è la civetta, non l’allodola, è ancora notte, è ancora notte, è ancora sogno. Alla fine, i due amanti riescono davvero a rendere il loro sogno eterno, procurandosi l’eterno sonno.
Va bene, A un cerbiatto somiglia il mio amore, non Romeo e Giulietta – chiedo venia, ma come ho inteso precisare nel titolo del post, si tratta di una recensione sbagliata.
Come la si legge sul libro, la storia: tre ragazzi si conoscono in una notte di coprifuoco, all’interno di un ospedale. Non possono né muoversi, perché sono malati, né vedersi, perché è buio, e non è rimasto nessuno nello stabile oltre a loro. La situazione è fuori dal comune ed il ragazzo A si innamora della ragazza A, ma la ragazza A si innamora del ragazzo B. I tre in seguito continuano a frequentarsi e la storia si muoverà sempre nello spazio triangolare che si è creato tra loro.
Tutti e tre i personaggi principali hanno modo, nel lungo romanzo, di aprirci la mente su temi importanti relativi alle loro storie personali: i fantasmi adolescenziali, la paura del terrorismo – la storia ha luogo in Israele – , la disabilità di un figlio, l’orrore della guerra, la fine di un matrimonio.
Eppure questi personaggi ci deludono: la ragazza A, Orah, in particolare. Più i capitoli trascorrono, più si ha la sensazione che la mala fimmina del ragazzo A, Avram, si riveli più superficiale di quanto lo stesso autore si aspettasse quando le ha dato vita in quel primo capitolo. Per quanto mi senta disillusa nei confronti di Orah, devo riconoscere due grandi pregi di questo seccante personaggio: la grande fisicità – se mi capita di provare ad immaginarla, posso quasi vederla – che le è conferita dalla carica emotiva che gravita a pochi millimetri dalla sua chioma rossa, come un’areola; d’altra parte si trova l’amore e la compassione per i suoi figli che lei riesce a far provare a chi legge le sue parole.
Anche per quel che riguarda il ragazzo A ed il ragazzo B, Avram e Ilan, si lasciano facilmente giudicare dal lettore per il loro amore – o non-amore – che appare scarsamente giustificato; sono completamente privi di epica e non ispirano (quasi) alcuna comprensione, vista la loro poco accattivante condotta.
Se lo avete appena comprato e siete incappati in questa recensione spero che siate arrivati fino a questo punto prima di buttarlo nel ripostiglio delle scope.
Se così non è stato, per favore, andate a recuperarlo, perché questo è il momento in cui confesserò che questo libro mi piace, non ho remore nel definirlo un libro bello, bello – sì, proprio così, bello due volte – e che vale la pena leggere.
Non perché parla di caratteri superlativi, di amore, di guerra, delle conseguenze di queste esperienze umane che, se vogliamo, sono state riscritte e rilette in tutte le salse.
Grossman è riuscito nell’intento di stupire e di scrivere qualcosa di completamente innovativo.
Grossman ha descritto un sogno di una notte, un ventennale dormiveglia ed infine un doloroso risveglio.
Il primo capitolo, nel quale i tre protagonisti, al buio, vengono a conoscenza l’uno dell’altro, è sublime. Soltanto il primo capitolo potrebbe valere il prezzo del volume, ammettendo che tutti gli altri potrebbero risultare nettamente inferiori rispetto alle aspettative. L'autore abolisce le virgolette del discorso diretto e ciò che leggiamo è ciò che i ragazzi pensano, si dicono a voce alta e che costituisce la realtà in quella notte di buio, bombardamento, assenza, tragedia, paura di morire.
Avram è il primo a parlare, ad abbandonare la forma del silenzioso embrione nel buio del ventre ospedaliero, e per tutto il libro rimaniamo con la sensazione che sia lui il creatore: Avram ha adescato Orah in una notte in cui poteva anche tacere, Avram accetta l’amore non corrisposto, Avram accetta la scommessa che lo porterà alla tortura, Avram rende possibile il viaggio di Orah con il suo consenso a seguirla.
Avram prova per primo – ben prima di noi, che stiamo ancora divorando quel superbo primo capitolo – che la realtà che sta vivendo non è altro che un sogno, che sarà deteriorato dalla realtà. Immagina il nome della ragazza che non può vedere e quello per lui è pieno di significato, eleva il suo spirito fino alle stelle; quando le chiede il suo vero nome, rimane deluso nell’apprendere la verità e quello è il primo segno riconoscibile del risveglio.
Credendo di trovarsi ancora nel territorio del sogno i tre protagonisti compiono molti errori, alcuni dei quali ci appaiono inspiegabili, eppure non dovrebbero, visto che anche noi sogniamo e nei nostri sogni compiamo con naturalezza le più bizzarre stramberie. La logica di Avram, Orah e Ilan è quella del sogno e li porta, come sonnambuli, a scontrarsi con il muro che delimita il mondo reale, cioè le tragedie della guerra, dei figli, della morte.
All’inizio del racconto, un’Orah adulta chiama per il figlio militare un taxi condotto da un amico di famiglia, un musulmano palestinese, per accompagnarlo al punto di raccolta dell’esercito israeliano: quando l’uno vede l’altro, entrambi vivono con profondo stupore e costernazione l’errore della donna, che sul momento non si spiega come abbia potuto commettere una leggerezza tanto imbarazzante. La furia di Orah ha inizio proprio dopo quel viaggio in macchina: Orah si agita nel lenzuolo, ha capito che è ora di svegliarsi, sta suonando la sveglia. Anche la sveglia di Avram suona: Orah fa squillare continuamente il suo telefono, il suo campanello, fino a che lui stesso non è chiamato a compiere con lei la lunga marcia che li condurrà al doloroso frutteto della realtà, al quale non possiamo sottrarci grazie all’incantesimo del sonno, la cui potenza non risiede nella capacità di controllare o cambiare gli eventi ma nel farci credere che possiamo evitarli senza tener conto di dove si trova il nostro corpo e quello di coloro che amiamo.
martedì 15 ottobre 2013
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Quando avevano invitato Alice a vivere in casa con loro, i
genitori avevano chiesto a Gaspare di amarla.
Gaspare non fu ispirato in tal senso fin dall’inizio:
osservava la giovane orfana come se fosse una mosca. Aveva l’impressione che si
posasse sui mobili, sul cibo, sulle mani e che si aggirasse per le stanze con
una velocità (del pensiero) che a loro che vi abitavano da tanti anni era del
tutto sconosciuta.
La richiesta dei genitori era suscitata dalla pietà di cui
erano convinti che Alice dovesse essere oggetto; tuttavia il motivo di tale
obbligo gli era rimasta a lungo incomprensibile visto che non aveva ascoltato
la sua triste storia.
Alice non era bella, non proveniva da una terra lontana, non
sospirava: avrebbe potuto entrare in casa con il titolo di inserviente e
nessuno di loro, tanto meno i suoi genitori, si sarebbero accorti di lei o del
suo vissuto.
Un evento del passato legava suo padre al padre di Alice e
doveva bastare per rispettarla: se fossi nei panni di mio padre mi sarei
comportato allo stesso modo, si diceva Gaspare, facendo l’equazione della
morale, pur non conoscendo l’argomento in questione.
Durante le prime settimane Alice si dimostrò abbastanza
solitaria, guadagnandosi gli appellativi di riservata e timida; tuttavia in breve
tempo strinse amicizia con la vecchia nonna di Gaspare, una donna che lui non
considerava di maggior valore della cuffia ricamata che giaceva sui suoi radi
capelli, visto che nella maggior parte delle occasioni si dimostrava incapace
di proferir parola. Dopo che Alice ebbe preso l’abitudine di sedere accanto a
lei, i familiari furono costretti mutare opinione sul livello di partecipazione
alla realtà della vecchia: l’anziana signora rispondeva ad Alice, a patto che
lei le si rivolgesse cantando.
Gaspare si accorse per ultimo, dopo che i genitori gli
ebbero manifestato il loro stupore, che le due chiacchieravano tra loro,
canticchiando a mezza voce. Fu allora che le rivolse la parola per la prima
volta: era curioso di sapere come aveva partorito quell’idea.
I grandi aedi dell’antichità ricordavano lunghissimi poemi
a memoria grazie alla musica: li cantavano, ma non avrebbero forse saputo
mettere per scritto o scandirli senza ritmo. Le parole rimangono nella musica
più a lungo di quanto non rimangano nella nostra razionalità.
Gaspare scoprì che Alice era istruita: non era andata a
scuola ma era stata la pupilla di un vecchio professore che abitava nel suo
paese, che le aveva insegnato il mondo attraverso la poesia e la letteratura.
Così Alice raccontava tutto come se si trattasse di un argomento degno di
un’ode.
In un primo momento Gaspare rise come si ride quando si
ascolta una barzelletta già sentita, ma poi si accorse che i suoi lunghi
discorsi non lo stancavano e questa fu già un’ammissione potente. L’amore per
lei nacque progressivamente, inizialmente senza passione ma con una sete
inestinguibile di vederla e sentirla parlare.
Quando glielo disse, lei gli confessò che ricambiava e
Gaspare scoprì che Alice gli appariva bella, irresistibile. Percepiva il
fremito sulla superficie delle mani di Alice, pronte ad accarezzarlo fino a
consumarsi, e si abbandonò ad un sentimento d’amore che lo faceva sentire, al
contempo, un lattante ed un vecchio.
Decisero di sposarsi, con l’approvazione ma con la preoccupazione
dei genitori di Gaspare: amavano Alice ed avevano invitato il figlio a fare
altrettanto, ma il cambiamento del giovane rampollo lasciava intravedere loro
che il suo destino, che appariva deciso fin dalla sua nascita, era
profondamente mutato. Per loro, in quel momento, risultava imprevedibile: il
ragazzo voleva lavorare e trasferirsi con la giovane moglie nella cittadina
dalla quale lei proveniva.
Cominciare con un magro stipendio e da un luogo provinciale:
per Gaspare la questione era molto più affascinante e non la avrebbe mai
definita con tale parole.
Voleva cominciare la loro vita, con Alice, dai luoghi che le
avevano dato i natali: conoscere quelle dune e gli snelli alberi alla cui ombra
lei era cresciuta ed infine era giunta fino a lui.
Era certo che da quel punto sarebbero giunti al luogo
successivo del loro amore.
Quel luminoso settembre del 1920 si sposarono e ancor
freschi della festa, profumati di borotalco e lavanda, giunsero ad abitare
nella stanza che per la prima volta era interamente loro. Avevano abitato per
qualche settimana nella casa dei genitori di lui ed avevano dormito insieme
nella stanza che Gaspare aveva occupato fin dall’epoca in cui era stato capace
di dormire da solo.
Quella stanza, soprattutto durante la notte, rivelava molto
di ciò che Gaspare era stato, un bambino, fino a poco tempo prima: l’ombra dei
ninnoli e degli appendiabiti sui quali, per un periodo eterno, erano stati
disposti, in un ordine da esposizione universale, i suoi completini ed i suoi
accappatoini, proiettavano la loro ombra sulle pareti.
Durante le loro chiacchierate notturne i due solevano tenere
un lume acceso e la voce di Gaspare rallentava e diveniva nostalgica, mentre il
suo pensiero dava un nome ed una data di nascita a tutte quelle cose con le quali
era cresciuto, che non gli appartenevano ma che erano state sue servitrici.
Alice lo ascoltava, alzava il braccio magro e le indicava, si aggirava per la
stanza con i piedi leggeri, veloce come una zanzara, li toccava, chiedendo a
lui di raccontare il motivo per il quale quel carillon, quel soldatino a
cavallo era rimasto proprio lì, cristallizzato sul suo scrittoio, irrigidito
per la lunga attesa di un ordine. L’odore di quella stanza, dolce come quello
degli unguenti per il bagno, ispirava a Gaspare racconti che difficilmente
avrebbe creduto di poter richiamare alla memoria, con i quali condì l’attesa
che li avrebbe infine portati in Toscana, nella terra natale di lei, nella
piccola cittadina sul lago, vicino alla tenuta nel cui grande parco pascolavano
dromedari, non nella sua casa perché lei non ne aveva.
La stanza che affittarono, con un anticipo fornito dai suoi
genitori, era spoglia e lontana dalla strada. Vi giungevano, pianissimo, i
rumori degli animali del padule, degli agricoltori al lavoro, di qualche
carrozza come quella sulla quale erano giunti.
A volte cerco di immaginare la pineta ed il mare dall’alto, con gli occhi di un uccello: deve apparire così diversa rispetto a come la viviamo a questo livello. Superate le montagne, si scende un po’ e ci si lascia alle spalle il sole appena sorto: dal cielo, l’alternarsi delle dune e degli specchi d’acqua sembra una bandiera scintillante, estesa per chilometri, che poggia sull’invitante verde della vegetazione. Dal basso, non possiamo vedere quello scintillare: dimentichiamo la forza del talismano, fino a che non ci alziamo nuovamente in volo. L’incantesimo, l’attrazione non ricompare fino alla prossima migrazione, quando la stagione ci riporta al di là delle Apuane, sulla costa.
Queste sue parole si ripeteva Gaspare, la notte, quando
abbracciato ad Alice ascoltava il lento, quasi impercettibile movimento del
lago. La casa era di un’amica di Alice e Gaspare si affezionò ben presto
all’odore di quelle stanze, che originava dalla cucina e si intestardiva,
distraendo tutte le loro attività, all’ora dei pasti, richiamandoli come due
topolini in trappola.
Il padre della padrona era proprietario di una serra e
pescatore. Non di rado cacciava anche, con un vecchio fucile che aveva
ereditato e che continuava ad odorare di polvere da sparo molti giorni dopo che
aveva sparato. Così, quando Gaspare scrutava quell’arnese, appeso alla parete,
come un qualsiasi ornamento, provava un senso di sospetto misto a reverenza
quale si prova di fronte ad una belva che sommessamente preannuncia il proprio
ruggito.
Il pensionante lo portò a pesca, la mattina presto e qualche
volta durante la notte. Gaspare non aveva difficoltà a sopportare la lunga
attesa; a volte confondeva la veglia con il sogno e si scuoteva, si dava uno schiaffo,
allora si accorgeva di essere completamente sveglio e credeva di vedere
qualcosa di meraviglioso, incomparabile: le lucciole infarcivano le sponde del
lago come balconi addobbati a festa, ma con maggiore dolcezza ed irriverenza
dei lumi umani, spengendosi e nascondendosi alla vista per lunghi minuti, come
sorrisi mal celati di bambine. Il riflesso dei punti luminosi si fondeva in
nastri baluginanti, che scorrevano sulla superficie dell’acqua bassa e nera. A
volte Gaspare immaginava di poter leggere quei caratteri aramaici e scovarvi la
bibbia dei pesci, degli aironi, delle ranocchie: grandi ed inafferrabili verità
sulla vita che sta in mezzo, tra l’acqua e la terra.
Alice aveva ripreso il mestiere al quale era stata iniziata
da piccolina: la sarta. Confezionava abiti costosi o a modici prezzi. Quando
venne la notizia che era tornata, la sarta che le aveva insegnato la andò a
trovare e le offerse il lavoro. Con i loro primi risparmi, comprarono una
bicicletta e così insieme a volte si recavano nella piccola cittadina alla fine
della strada che attraversava l’infinita pineta. La bicicletta di Gaspare
ondeggiava, dirottata dai colpi di vento o dalla distrazione, mentre Alice
stringeva le dita attorno al metallo freddo del manubrio e raccontava a Gaspare
le storie di quel luogo così piccolo da essere raggiunto da echi di storie e
gesta lontane, così trasfigurati dalla distanza da diventare immaginazione.
Alle volte, inventava per lui qualche verso e lo canticchiava, un po’ fuori
tono.
L’airone ornato di brace, di
Invisibili raggi dipinto, dall’
Alto come ombra calava, così
Coma fa un frammento di bandiera,
ormai libero, lento va sul vento
pietra immateriale adagiata
sul dorso delle onde magnifiche.
Immobile, è un giunco adesso
Un’erba bianca con foglie sottili
Che si confonde con i più comuni
Riflessi, l’ infisso nell’acqua…
Grazie alla bicicletta, Gaspare trovò un lavoretto come corriere e cominciò ad andare ad imparare il mestiere dal tipografo. Tutto si era stabilito molto velocemente: vivere di nuovo in autonomia aveva stimolato il lato pratico di Alice, che aveva guidato con maestria i primi passi di Gaspare attraverso la gente che conosceva e che poteva aiutarli.
Una sera, Alice e Gaspare si spinsero a passeggiare fin
dentro la pineta, vicino alla spiaggia, tanto da poter udire il rumoreggiare
placido del mare. Alice si fermò e chiese a Gaspare di tornare indietro: aveva
freddo e paura di spingersi oltre dopo il calare del sole.
Gaspare rise e la tirò a sé, sospingendola poi perché
proseguisse, ma lei si tirò indietro e si allontanò di qualche passo. Ripeté
che non intendeva proseguire, che conosceva la pineta e non voleva arrischiarsi
durante la notte.
“Conosci la pineta, di giorno. Non sei te che mi hai parlato
della pioggia e dell’aria notturna che è così idilliaca tra i pini sotto la
luce della luna?”
“Non sono io, è stato un poeta. Non voglio andare, torno a
casa.”
“Non pensavo che avresti mai avuto paura di fare qualcosa
insieme a me.”
“Sei irragionevole. Non ho intenzione di seguirti. Se vuoi
andare, vai, io me ne torno a casa. Sei davvero un bambino.”
La guardò: lei appariva più acerba dei due, malgrado
avessero la stessa età. Ma era più saggia e lui…il suo aspetto di uomo poteva
non far intuire il suo spirito.
Gaspare in risposta le sorrise, non aveva altro modo per
esprimere ciò che lei suscitava in lui e lo prosciugava di ogni parola. Se solo
avesse avuto il coraggio di cantare in risposta, come lo aveva avuto sua nonna…
Alice si allontanò e sparì sul sentiero: Gaspare era ormai
solo ma non si sentì abbandonato. Si voltò verso gli alberi, in direzione dello
stormire acuto dei grilli che si nascondevano in basso, chiuse gli occhi ed
inspirò l’odore degli ultimi camuciori che veniva trasportato dal vento dai
cespugli vicini. Aprendo gli occhi, ormai abituato al buio, distinse le macchie
di luce che velocemente si spostavano tra gli alberi: erano i riflessi della
luna nelle pozze che frammentate si ricongiungevano tra loro durante l’autunno,
con la pioggia.
La cercherò qui, la mia Alice, pensò, anzi, cantò
nella sua mente.
Si è allontanata da me e non so dove la incontrerò ma
esplorerò il mondo per trovarla. A cominciare da questo piccolo mondo. A
cominciare dai pini snelli che fanno posto ad alberi più grandi, alle querce ed
ai tigli che proiettano l’ombra di una nuvola, dall’istante in cui il cormorano
riemerge dall’acqua, dall’immobilità dell’airone che è amico dell’orizzonte,
dalla casa per le barche sfasciata, che sta sprofondando. Dal porticciolo di
canne di bambù, dalla stalla dei cavalli che a volte viene invasa dal fango,
dalle ninfee che incontri a sorpresa in un piccolo stagno vicinissimo al mare,
dalla piccola conchiglia che si impiglia tra le dita mentre cammini.
Mentre pensava a tutte queste cose, camminava, scandendo i
passi con il ritmo musicale di quelle parole, riconoscendo ciò che diceva
dentro di sé all’esterno, immerso nella luce della luna. Toccando le fronde
degli alberi, le sue mani divennero fresche, bagnate dalla prima rugiada,
quella ancora segreta, che gli uomini non incontrano, ed i suoi orecchi si
fecero più sensibili ai rumori degli altri che vegliavano e si spostavano
durante la notte: un cinghiale, una cornacchia, alcuni daini. Gaspare si stupì
di poter essere così silenzioso e di mimetizzarsi tanto, nel buio. Si sentiva
spronato nell’andare avanti, superò i fossi ed infine sentì la cedevolezza
della sabbia sotto i piedi. Era così: la spiaggia era il sorriso argentato
della pineta, baciato dal mare che si protendeva e si ritirava, così impaziente
da avanzare in continuazione. Gaspare si inginocchiò ed accarezzò la sabbia,
alzò il capo e vide la luna, quasi piena, che splendeva in alto, nel cielo, dal
punto in cui Alice immaginava di guardare il padule dall’alto, avvicinandosi
alla costa da terre lontane.
Eccoti, mia cara.
Sorrise alla luna: finalmente l’aveva trovata. Ora non gli
restava che attendere che atterrasse sulle terre scintillanti per poi alzarsi
nuovamente in volo con lei e migrare.
Tornò sui suoi passi e la trovò, lì: nel loro letto, Alice
dormiva. Carezzò il suo viso pallido, che sembrava splendere di luce propria,
come la luna, come la aveva vista nel cielo, dopo che era sorta dalla pineta.
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