venerdì 4 gennaio 2013
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Sono nell'ospedale. Qui lavoro, non c'è molto altro da dire.
Non mi pagano, il mio non è un lavoro come tanti altri. Sono una studentessa.
Ascolto tutto ciò che gli altri mi dicono e mi costringo a valorizzarlo, a
farne tesoro, che si tratti di una merda o di una perla. Gli altri mi trovano
magica e lo manifestano comportandosi come se loro stessi fossero meravigliosi
depositari del sapere. Qualsiasi cosa abbiano da dire, va bene. L'infermiera,
spostati, il paziente, mi passa la bottiglietta, il medico, in questa stanza
siamo troppi, lo specializzando, aspettate un attimo, l'altro studente, e che
vuoi fare?
Il vortice del sapere si articola in tutte le sue più interessanti
sfaccettature e la mia psychè, la mia anima, ne risulta molto frustrata: mi sento arida.
Quando sto
qui dentro molte ore non ho più fame, non mi scappa più la pipì, non sento più
le gambe, la mia capacità di ragionamento si addormenta.
Se poi un baldo
ecografista si decide all'improvviso a fare una domanda, ragazzi, cosa pensate
che sia questo?, si stupisce se non ho idea della risposta.
Forse la so, ma in
questo momento non ho idea di cosa voglia dire pensare, esprimersi. Questo
dovrei rispondergli.
C'è molto male in tutto questo. Ciò che devo superare è la
demolizione dell'anima. Devo sforzarmi per imparare, di nascosto, e a non farmi
lavare via da tutto questo. Cinque anni, così.
Intorno a questo ospedale non
c'è niente. Come si fa, a costruire così? Vedi che non è soltanto una malattia
dei miei insegnanti, ma anche degli insegnanti degli architetti. Non si tratta
di una malattia, altrimenti sarebbero malati ed esisterebbe una cura, oppure si
direbbe che sono affetti da un male incurabile e si venderebbero stelle di
natale nelle piazze per loro. Ci sarebbe speranza. Ma non c'è. Per loro, non ce
n'è.
Questo ospedale sta nel mezzo del nulla, nel mezzo di campi
che non sono più campi, sono ammassi di sterpi. Le case popolari arrivano fino
all'ospedale, di lato ad esso ci sono cantieri, stanno costruendo fondamenta
per il prossimo ampliamento. Al di dietro di esso, c'è qualche baracca. Molto,
molto lontani, i monti pisani, ancora più lontane, verso nord, le alpi apuane.
Non si vede nulla, c'è foschia, ma io lo so. Me ne sto qui a questa finestra
dal vetro caldo, qui tutto è caldo, l'intero ospedale è un termosifone, il
corridoio è vuoto. Non ci sono sedie lungo il corridoio, nessuno può sedersi.
Tutte le sedie sono dentro alla stanze. Le stanze medici e le stanze degli
infermieri sono chiuse, le stanze dei pazienti sono aperte ma loro tacciono e
sonnecchiano, hanno la televisione schermo piatto, andare a chiacchierare con
loro mi sembra innaturale. Lo vedono che non faccio nulla, che non so fare
nulla che a loro serva. Non soddisfo alcun loro bisogno e capiscono che sono
sommamente insoddisfatta. Viaggia molta energia negativa tra tutte le persone
che si trovano in questo luogo.
Una volta, una volta sola mi sono quasi messa a
piangere di fronte ad una paziente.
Il tutor di turno mi aveva rimproverato
della mia ignoranza, sbattendomi in faccia il disprezzo di due occhietti vecchi
e di un paio di enormi baffi grigi, dopo aver declamato il giorno precedente
che la miglior qualità di un medico è sempre l'umiltà. Rimanemmo soli nella
stanza dei pazienti, io ero l'unica dei tirocinanti ad esser stata demolita,
qualcuno era stato lodato, e con l'euforia della disperazione mi rivolsi
calorosamente alla paziente, che si avviava ad una operazione chirurgica, per
salutarla. Avevo le lacrime qui. Tutto tremava. La paziente era anziana e molto
magra, indossava un pigiama rosa brillante. Mi guardò con espressione molto
dolce e mi disse coraggio, si deve solo andare avanti. E io ansimai, ormai il
pianto era diffuso ovunque malgrado non lo lasciassi uscire, e le dissi
speriamo, speriamo, dopo tutto questo, lo spero, ma è così dura, davvero non è
facile crederci. La paziente continuò a guardarmi, sorrideva con dolcezza.
Credo fosse d'accordo con me. Entrambe in un certo senso stavamo facendo i
conti con un'operazione a cielo aperto.
Intorno a questo ospedale non c'è nulla. Forse un tempo in
questa zona Cisanello c'erano i boschi, campi coltivati, ora, più nulla, degli
stupidi palazzi culoni che il suolo non vuol far crescere in altezza. Una volta
ci mettevano i matti, o i sanatori, in posti così.
Non è vero: i sanatori
stavano in posti belli, dove arrivava l'aria bella, dove i malati si
consumavano con dolcezza, eremiti della società moderna. Ed i matti stavano in
luoghi più intimi, come la collina di Maggiano, la collina delle Ville Sbertoli.
Nessuno è mai stata confinato nelle lande desolate fuori dalle città, se non i
morti ed i lebbrosi. Questo è un luogo deprimente e cimiteriale. Vorrei andar
via, ma devo rimanere qua per delle ore, per niente. Mi piace andare in giro,
fare le foto, fare gli acquarelli. Mi piace riempirmi di cose e di visioni.
Questo posto è il vuoto, una dimensione chiusa nella quale il big bang non è
ancora avvenuto.
Non riesco a capire come lavorano. Li guardo senza che mi
dicano niente, che interagiscano. Non hanno niente da insegnarmi, niente da
mostrarmi, devo star qui per un fine che non esiste. Niente in questo luogo può
essere utilizzato come materia prima. È molto snervante. Odio fare i tirocini.
Odio l'ospedale. Non so se odio i medici e gli specializzandi, sono una specie
di caratteri etruschi senza suono e senza significato. Una lingua che non parla
e che non scrive. Mi sento molto a disagio con me stessa in questa situazione.
Non trovo mai cosa dire, la noia è eccessiva. Anche i pensieri faticano. Il
cuore sanguina per qualcosa in cui si voleva credere ma che non è stata altro
che una delusione. Tuttavia credo in me stessa, molto più di un tempo, perché non avrei
mai immaginato di possedere una tale capacità di resistenza. Sono un'ottima
autodidatta. Ingollo l'acido e lo trasformo in miele. È molto difficile ma lo
faccio, per me stessa, per le persone che mi amano. Voglio essere così e
combatto per me stessa, sono la mia armata. Sto studiando per diventare me stessa,
altro che per diventare un medico.
La poesia è il linguaggio attraverso il quale più
spontaneamente si esprimono i pensieri, soprattutto quelli nascosti, che non
trovano parole. Ne sono fermamente convinta. Se dovessi far parlare un paziente
di sé ed egli ne fosse incapace, lo inviterei ad utilizzare un linguaggio
poetico. Questo posto è così lontano dalla poesia! Nessuno vorrebbe tornarci,
nemmeno con il ricordo. Tutto qui è una congiura contro la poesia: il treno,
l'autobus, il traffico, il giro del parcheggio, le macchinette del caffè, i
bagni, i corridoi, le persone. Non sopporto la confusione della fila al bar.
Prima di tutto il bar è un prefabbricato di plastica. Poi le persone concitate
si mettono in fila con i pacchetti di patatine in mano per fare lo scontrino e
comprare altro cibo. Sembrano invasati, non sanno cosa mangiare per pranzo
perché sono disponibili soltanto piccoli tramezzini e presi dal panico
finiscono per spendere venti euro. Confusi pagano alla cassa e poi ordinano,
dopo aver scrutato frettolosamente la vetrina, pronti a scattare verso la fila.
La trovi lì a tutte le ore, la folla. Tutto questo non è naturale, né per una
colazione, per un pranzo, per una cena. Neanche per un caffè.
Alla fine del tirocinio, si necessita della verbalizzazione.
Significa crediti, significa riconoscimento delle ore passate in reparto ai
fini del raggiungimento di un punteggio per la laurea. Mica male, eh. La
verbalizzazione è digitale, basterebbe che una segretaria fornita di terminale
inserisca il codice dell'insegnamento, il numero di matricola dello studente ed
in trenta secondi tutto ciò che è dovuto allo studente che ha compiuto il suo
dovere è riconosciuto. Purtroppo per tradizione esiste un libretto che per
tradizione, ma inutilmente, deve essere firmato dal tutor. Le segretarie
raramente accettano di verbalizzare attraverso il terminale se il tutor non ha
firmato il libretto. Così, si cerca il tutor, si consegna a lui il libretto. Il
tutor tiene il libretto per circa dieci giorni, senza firmarlo, lo fa ed infine
la segretaria verbalizza il tirocinio. Si tratta tuttavia di una gran
semplificazione, spiegata così. Che qualcuno che ti tratta come un mobile
brutto si tenga il tuo libretto per dieci giorni mantenendo in sospeso
l'accreditamento della mia permanenza nel limbo mi fa sentire schiacciata, mi
crea un sentimento di dipendenza e schiavitù da una forza malefica.
Non ho
cominciato a voler bene a nessuno in questo posto. Quando sono qui, mi sembra
di voler bene da lontano. Credo che mi sentire meno lontana se mi trovassi in
Alaska, ma stessi forgiando la mia anima.
Non che la mai anima qui si fermi o muoia, semplicemente
soffre. Si rimpicciolisce e fischia come un petardo, pronto a scoppiare, ma non
lo fa, fino alla prossima ora, fino alla prossima corsa all'autobus, fino alla
prossima vista dell'Arno, dei colori di una via in cui si infila il vento, di
alcune porte di cui ho le chiavi nel mio mazzo, di alcuni momenti in cui mi
sento così forte da giocare e creare qualcosa, pur se stanca ed affranta.
So
bene che c'è qualcosa di molto vitale là fuori e dentro di me, anche se per la
partecipazione di molte cause questo qualcosa è informe. Si trova un po'
spezzettato, nelle persone, nei volti, nelle vetrine, nei pochi soldi, nelle
padelle in cui soffriggo l'aglio e nelle cose che scrivo, disegno, leggo.
Si
tratta di una sorta di esperimento alchemico che riguarda le mie capacità e le
mie finalità, e se le prime sono confuse le seconde sono molto nebulose, al
momento, ma si tratta di avere un sogno, ed è davvero difficile quando ogni
materia da sogni è materializzata ed in plastica in qualsiasi casa, agenzia,
cestino della spazzatura. Credo che la mia generazione sia nata con scarsa
capacità di sognare: quei famosi pensieri felici, quei sogni che fanno volare
nella stanza dei bambini con Peter Pan. Credo che siamo una generazione a cui
hanno tolto i sogni. Purtroppo la mia generazione, pur arrabbiata, non ha
capito che i sogni, ormai tolti, non vengono mai restituiti. L'unica strada è
farne di nuovi, tornare a sognare. Chissà chi lo capirà. Devo dire che cercare
di realizzare un sogno frequentando i tirocini di medicina è molto stancante.
Ma cosa mi illudo...tutte le situazioni non sono forse simili? Siamo tutti
nella stessa stanza, con il lenzuolo tirato fin sopra la testa. Mammina, io non
voglio crescere.
E chi lo vuole. Ma se poi si inizia a sognare, ci ritroviamo
sopra il letto ed adulti. Il bambino diviene adulto quando impara a sognare.
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