mercoledì 23 ottobre 2013
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a un cerbiatto somiglia il mio amore,
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Questa non è la storia di un grande amore; non parla nemmeno di belle persone.
Non scava nella profondità di una psicologia intricata, le parole di questa storia non ritraggono l’umanità nel suo grande mistero, rivelando ciò che tutti speriamo di scoprire, un giorno, prima che sia troppo tardi.
Si tratta di un’illusione, questa, che il libro smentisce. Come se ad ogni pagina l’autore, David Grossman, si sporgesse sopra le righe, con la spazzola bionda dei suoi capelli ed i suoi azzurri occhi ingranditi dalle lenti, e sussurrasse, tra il dispiaciuto ed il soddisfatto: non è questo, vero, ciò che speravi di trovare? Ho vissuto la stessa esperienza con tutti i libri di Grossman, anche se non nego che lui resta uno dei miei autori preferiti.
Vedi alla voce amore, Che tu sia per me il coltello: forse il segreto dell’illusione è l’allusione del titolo. Solitamente non ci aspettiamo che lo straniamento si annidi in quello che siamo abituati a ritenere una stringata sinossi della trama e del significato del libro: perché l’autore non dovrebbe conformarsi naturalmente a quel titolo – a quel nome proprio – con il quale egli stesso ha deciso di battezzare la sua creatura? L’errore e la sensazione che lo scrittore abbia voluto deliberatamente ingannarci ci inducono forse a tirare troppo presto le conclusioni sul libro in questione, perché in fondo ci hanno insegnato fin da bambini che chi tradisce il proprio nome cela il male, proprio come il Diavolo, che si chiamava Lucifero.
Beh, non fatelo, non con questo libro, che non è un’opera malefica concepita per disturbare il nostro buon umore, ma il fedele racconto di un’esperienza che viviamo tutti i giorni: sognare, desiderare di non destarsi dal sogno ed inevitabilmente, alla fine, cedere alla veglia ed alla crudele luce della vita.
A un cerbiatto somiglia il mio amore. Di David Grossman.
L’analogia con il sogno ed il risveglio, in fondo, funziona fin dal titolo. Questa frase suggerisce uno stato sognante, l’innamoramento; immediatamente immaginiamo di pronunciarla in modo trasognato, sospirante. Dove abbiamo imparato così bene a leggere una frase del genere, ad attribuirla ad un amante e non alla mamma di Bambi? Dai libri, ovviamente – nel caso di qualcuno, dai film. Una frase del genere sarebbe stata una battuta perfetta per Giulietta Capuleti, la più sventurata e romantica fanciulla dal 1594.
Vengo al dunque: qual è la più romantica delle scene della Most Excellent and Lamentable Tragedy of Romeo and Juliet? Proprio quella in cui i due amanti e sposi si stanno per risvegliare, all’alba che segue la loro prima ed ultima notte passata insieme, e maledicono la luce perché capiscono che il sogno, il loro agognato sogno d’amore, è finito. Giulietta cerca addirittura di ingannare Romeo e se stessa: è la civetta, non l’allodola, è ancora notte, è ancora notte, è ancora sogno. Alla fine, i due amanti riescono davvero a rendere il loro sogno eterno, procurandosi l’eterno sonno.
Va bene, A un cerbiatto somiglia il mio amore, non Romeo e Giulietta – chiedo venia, ma come ho inteso precisare nel titolo del post, si tratta di una recensione sbagliata.
Come la si legge sul libro, la storia: tre ragazzi si conoscono in una notte di coprifuoco, all’interno di un ospedale. Non possono né muoversi, perché sono malati, né vedersi, perché è buio, e non è rimasto nessuno nello stabile oltre a loro. La situazione è fuori dal comune ed il ragazzo A si innamora della ragazza A, ma la ragazza A si innamora del ragazzo B. I tre in seguito continuano a frequentarsi e la storia si muoverà sempre nello spazio triangolare che si è creato tra loro.
Tutti e tre i personaggi principali hanno modo, nel lungo romanzo, di aprirci la mente su temi importanti relativi alle loro storie personali: i fantasmi adolescenziali, la paura del terrorismo – la storia ha luogo in Israele – , la disabilità di un figlio, l’orrore della guerra, la fine di un matrimonio.
Eppure questi personaggi ci deludono: la ragazza A, Orah, in particolare. Più i capitoli trascorrono, più si ha la sensazione che la mala fimmina del ragazzo A, Avram, si riveli più superficiale di quanto lo stesso autore si aspettasse quando le ha dato vita in quel primo capitolo. Per quanto mi senta disillusa nei confronti di Orah, devo riconoscere due grandi pregi di questo seccante personaggio: la grande fisicità – se mi capita di provare ad immaginarla, posso quasi vederla – che le è conferita dalla carica emotiva che gravita a pochi millimetri dalla sua chioma rossa, come un’areola; d’altra parte si trova l’amore e la compassione per i suoi figli che lei riesce a far provare a chi legge le sue parole.
Anche per quel che riguarda il ragazzo A ed il ragazzo B, Avram e Ilan, si lasciano facilmente giudicare dal lettore per il loro amore – o non-amore – che appare scarsamente giustificato; sono completamente privi di epica e non ispirano (quasi) alcuna comprensione, vista la loro poco accattivante condotta.
Se lo avete appena comprato e siete incappati in questa recensione spero che siate arrivati fino a questo punto prima di buttarlo nel ripostiglio delle scope.
Se così non è stato, per favore, andate a recuperarlo, perché questo è il momento in cui confesserò che questo libro mi piace, non ho remore nel definirlo un libro bello, bello – sì, proprio così, bello due volte – e che vale la pena leggere.
Non perché parla di caratteri superlativi, di amore, di guerra, delle conseguenze di queste esperienze umane che, se vogliamo, sono state riscritte e rilette in tutte le salse.
Grossman è riuscito nell’intento di stupire e di scrivere qualcosa di completamente innovativo.
Grossman ha descritto un sogno di una notte, un ventennale dormiveglia ed infine un doloroso risveglio.
Il primo capitolo, nel quale i tre protagonisti, al buio, vengono a conoscenza l’uno dell’altro, è sublime. Soltanto il primo capitolo potrebbe valere il prezzo del volume, ammettendo che tutti gli altri potrebbero risultare nettamente inferiori rispetto alle aspettative. L'autore abolisce le virgolette del discorso diretto e ciò che leggiamo è ciò che i ragazzi pensano, si dicono a voce alta e che costituisce la realtà in quella notte di buio, bombardamento, assenza, tragedia, paura di morire.
Avram è il primo a parlare, ad abbandonare la forma del silenzioso embrione nel buio del ventre ospedaliero, e per tutto il libro rimaniamo con la sensazione che sia lui il creatore: Avram ha adescato Orah in una notte in cui poteva anche tacere, Avram accetta l’amore non corrisposto, Avram accetta la scommessa che lo porterà alla tortura, Avram rende possibile il viaggio di Orah con il suo consenso a seguirla.
Avram prova per primo – ben prima di noi, che stiamo ancora divorando quel superbo primo capitolo – che la realtà che sta vivendo non è altro che un sogno, che sarà deteriorato dalla realtà. Immagina il nome della ragazza che non può vedere e quello per lui è pieno di significato, eleva il suo spirito fino alle stelle; quando le chiede il suo vero nome, rimane deluso nell’apprendere la verità e quello è il primo segno riconoscibile del risveglio.
Credendo di trovarsi ancora nel territorio del sogno i tre protagonisti compiono molti errori, alcuni dei quali ci appaiono inspiegabili, eppure non dovrebbero, visto che anche noi sogniamo e nei nostri sogni compiamo con naturalezza le più bizzarre stramberie. La logica di Avram, Orah e Ilan è quella del sogno e li porta, come sonnambuli, a scontrarsi con il muro che delimita il mondo reale, cioè le tragedie della guerra, dei figli, della morte.
All’inizio del racconto, un’Orah adulta chiama per il figlio militare un taxi condotto da un amico di famiglia, un musulmano palestinese, per accompagnarlo al punto di raccolta dell’esercito israeliano: quando l’uno vede l’altro, entrambi vivono con profondo stupore e costernazione l’errore della donna, che sul momento non si spiega come abbia potuto commettere una leggerezza tanto imbarazzante. La furia di Orah ha inizio proprio dopo quel viaggio in macchina: Orah si agita nel lenzuolo, ha capito che è ora di svegliarsi, sta suonando la sveglia. Anche la sveglia di Avram suona: Orah fa squillare continuamente il suo telefono, il suo campanello, fino a che lui stesso non è chiamato a compiere con lei la lunga marcia che li condurrà al doloroso frutteto della realtà, al quale non possiamo sottrarci grazie all’incantesimo del sonno, la cui potenza non risiede nella capacità di controllare o cambiare gli eventi ma nel farci credere che possiamo evitarli senza tener conto di dove si trova il nostro corpo e quello di coloro che amiamo.
Non scava nella profondità di una psicologia intricata, le parole di questa storia non ritraggono l’umanità nel suo grande mistero, rivelando ciò che tutti speriamo di scoprire, un giorno, prima che sia troppo tardi.
Si tratta di un’illusione, questa, che il libro smentisce. Come se ad ogni pagina l’autore, David Grossman, si sporgesse sopra le righe, con la spazzola bionda dei suoi capelli ed i suoi azzurri occhi ingranditi dalle lenti, e sussurrasse, tra il dispiaciuto ed il soddisfatto: non è questo, vero, ciò che speravi di trovare? Ho vissuto la stessa esperienza con tutti i libri di Grossman, anche se non nego che lui resta uno dei miei autori preferiti.
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David Grossman ritratto mentre mi appare tra le righe. |
Beh, non fatelo, non con questo libro, che non è un’opera malefica concepita per disturbare il nostro buon umore, ma il fedele racconto di un’esperienza che viviamo tutti i giorni: sognare, desiderare di non destarsi dal sogno ed inevitabilmente, alla fine, cedere alla veglia ed alla crudele luce della vita.
A un cerbiatto somiglia il mio amore. Di David Grossman.
L’analogia con il sogno ed il risveglio, in fondo, funziona fin dal titolo. Questa frase suggerisce uno stato sognante, l’innamoramento; immediatamente immaginiamo di pronunciarla in modo trasognato, sospirante. Dove abbiamo imparato così bene a leggere una frase del genere, ad attribuirla ad un amante e non alla mamma di Bambi? Dai libri, ovviamente – nel caso di qualcuno, dai film. Una frase del genere sarebbe stata una battuta perfetta per Giulietta Capuleti, la più sventurata e romantica fanciulla dal 1594.
Vengo al dunque: qual è la più romantica delle scene della Most Excellent and Lamentable Tragedy of Romeo and Juliet? Proprio quella in cui i due amanti e sposi si stanno per risvegliare, all’alba che segue la loro prima ed ultima notte passata insieme, e maledicono la luce perché capiscono che il sogno, il loro agognato sogno d’amore, è finito. Giulietta cerca addirittura di ingannare Romeo e se stessa: è la civetta, non l’allodola, è ancora notte, è ancora notte, è ancora sogno. Alla fine, i due amanti riescono davvero a rendere il loro sogno eterno, procurandosi l’eterno sonno.
Va bene, A un cerbiatto somiglia il mio amore, non Romeo e Giulietta – chiedo venia, ma come ho inteso precisare nel titolo del post, si tratta di una recensione sbagliata.
Come la si legge sul libro, la storia: tre ragazzi si conoscono in una notte di coprifuoco, all’interno di un ospedale. Non possono né muoversi, perché sono malati, né vedersi, perché è buio, e non è rimasto nessuno nello stabile oltre a loro. La situazione è fuori dal comune ed il ragazzo A si innamora della ragazza A, ma la ragazza A si innamora del ragazzo B. I tre in seguito continuano a frequentarsi e la storia si muoverà sempre nello spazio triangolare che si è creato tra loro.
Tutti e tre i personaggi principali hanno modo, nel lungo romanzo, di aprirci la mente su temi importanti relativi alle loro storie personali: i fantasmi adolescenziali, la paura del terrorismo – la storia ha luogo in Israele – , la disabilità di un figlio, l’orrore della guerra, la fine di un matrimonio.
Eppure questi personaggi ci deludono: la ragazza A, Orah, in particolare. Più i capitoli trascorrono, più si ha la sensazione che la mala fimmina del ragazzo A, Avram, si riveli più superficiale di quanto lo stesso autore si aspettasse quando le ha dato vita in quel primo capitolo. Per quanto mi senta disillusa nei confronti di Orah, devo riconoscere due grandi pregi di questo seccante personaggio: la grande fisicità – se mi capita di provare ad immaginarla, posso quasi vederla – che le è conferita dalla carica emotiva che gravita a pochi millimetri dalla sua chioma rossa, come un’areola; d’altra parte si trova l’amore e la compassione per i suoi figli che lei riesce a far provare a chi legge le sue parole.
Anche per quel che riguarda il ragazzo A ed il ragazzo B, Avram e Ilan, si lasciano facilmente giudicare dal lettore per il loro amore – o non-amore – che appare scarsamente giustificato; sono completamente privi di epica e non ispirano (quasi) alcuna comprensione, vista la loro poco accattivante condotta.
Se lo avete appena comprato e siete incappati in questa recensione spero che siate arrivati fino a questo punto prima di buttarlo nel ripostiglio delle scope.
Se così non è stato, per favore, andate a recuperarlo, perché questo è il momento in cui confesserò che questo libro mi piace, non ho remore nel definirlo un libro bello, bello – sì, proprio così, bello due volte – e che vale la pena leggere.
Non perché parla di caratteri superlativi, di amore, di guerra, delle conseguenze di queste esperienze umane che, se vogliamo, sono state riscritte e rilette in tutte le salse.
Grossman è riuscito nell’intento di stupire e di scrivere qualcosa di completamente innovativo.
Grossman ha descritto un sogno di una notte, un ventennale dormiveglia ed infine un doloroso risveglio.
Il primo capitolo, nel quale i tre protagonisti, al buio, vengono a conoscenza l’uno dell’altro, è sublime. Soltanto il primo capitolo potrebbe valere il prezzo del volume, ammettendo che tutti gli altri potrebbero risultare nettamente inferiori rispetto alle aspettative. L'autore abolisce le virgolette del discorso diretto e ciò che leggiamo è ciò che i ragazzi pensano, si dicono a voce alta e che costituisce la realtà in quella notte di buio, bombardamento, assenza, tragedia, paura di morire.
Avram è il primo a parlare, ad abbandonare la forma del silenzioso embrione nel buio del ventre ospedaliero, e per tutto il libro rimaniamo con la sensazione che sia lui il creatore: Avram ha adescato Orah in una notte in cui poteva anche tacere, Avram accetta l’amore non corrisposto, Avram accetta la scommessa che lo porterà alla tortura, Avram rende possibile il viaggio di Orah con il suo consenso a seguirla.
Avram prova per primo – ben prima di noi, che stiamo ancora divorando quel superbo primo capitolo – che la realtà che sta vivendo non è altro che un sogno, che sarà deteriorato dalla realtà. Immagina il nome della ragazza che non può vedere e quello per lui è pieno di significato, eleva il suo spirito fino alle stelle; quando le chiede il suo vero nome, rimane deluso nell’apprendere la verità e quello è il primo segno riconoscibile del risveglio.
Credendo di trovarsi ancora nel territorio del sogno i tre protagonisti compiono molti errori, alcuni dei quali ci appaiono inspiegabili, eppure non dovrebbero, visto che anche noi sogniamo e nei nostri sogni compiamo con naturalezza le più bizzarre stramberie. La logica di Avram, Orah e Ilan è quella del sogno e li porta, come sonnambuli, a scontrarsi con il muro che delimita il mondo reale, cioè le tragedie della guerra, dei figli, della morte.
All’inizio del racconto, un’Orah adulta chiama per il figlio militare un taxi condotto da un amico di famiglia, un musulmano palestinese, per accompagnarlo al punto di raccolta dell’esercito israeliano: quando l’uno vede l’altro, entrambi vivono con profondo stupore e costernazione l’errore della donna, che sul momento non si spiega come abbia potuto commettere una leggerezza tanto imbarazzante. La furia di Orah ha inizio proprio dopo quel viaggio in macchina: Orah si agita nel lenzuolo, ha capito che è ora di svegliarsi, sta suonando la sveglia. Anche la sveglia di Avram suona: Orah fa squillare continuamente il suo telefono, il suo campanello, fino a che lui stesso non è chiamato a compiere con lei la lunga marcia che li condurrà al doloroso frutteto della realtà, al quale non possiamo sottrarci grazie all’incantesimo del sonno, la cui potenza non risiede nella capacità di controllare o cambiare gli eventi ma nel farci credere che possiamo evitarli senza tener conto di dove si trova il nostro corpo e quello di coloro che amiamo.
martedì 15 ottobre 2013
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Quando avevano invitato Alice a vivere in casa con loro, i
genitori avevano chiesto a Gaspare di amarla.
Gaspare non fu ispirato in tal senso fin dall’inizio:
osservava la giovane orfana come se fosse una mosca. Aveva l’impressione che si
posasse sui mobili, sul cibo, sulle mani e che si aggirasse per le stanze con
una velocità (del pensiero) che a loro che vi abitavano da tanti anni era del
tutto sconosciuta.
La richiesta dei genitori era suscitata dalla pietà di cui
erano convinti che Alice dovesse essere oggetto; tuttavia il motivo di tale
obbligo gli era rimasta a lungo incomprensibile visto che non aveva ascoltato
la sua triste storia.
Alice non era bella, non proveniva da una terra lontana, non
sospirava: avrebbe potuto entrare in casa con il titolo di inserviente e
nessuno di loro, tanto meno i suoi genitori, si sarebbero accorti di lei o del
suo vissuto.
Un evento del passato legava suo padre al padre di Alice e
doveva bastare per rispettarla: se fossi nei panni di mio padre mi sarei
comportato allo stesso modo, si diceva Gaspare, facendo l’equazione della
morale, pur non conoscendo l’argomento in questione.
Durante le prime settimane Alice si dimostrò abbastanza
solitaria, guadagnandosi gli appellativi di riservata e timida; tuttavia in breve
tempo strinse amicizia con la vecchia nonna di Gaspare, una donna che lui non
considerava di maggior valore della cuffia ricamata che giaceva sui suoi radi
capelli, visto che nella maggior parte delle occasioni si dimostrava incapace
di proferir parola. Dopo che Alice ebbe preso l’abitudine di sedere accanto a
lei, i familiari furono costretti mutare opinione sul livello di partecipazione
alla realtà della vecchia: l’anziana signora rispondeva ad Alice, a patto che
lei le si rivolgesse cantando.
Gaspare si accorse per ultimo, dopo che i genitori gli
ebbero manifestato il loro stupore, che le due chiacchieravano tra loro,
canticchiando a mezza voce. Fu allora che le rivolse la parola per la prima
volta: era curioso di sapere come aveva partorito quell’idea.
I grandi aedi dell’antichità ricordavano lunghissimi poemi
a memoria grazie alla musica: li cantavano, ma non avrebbero forse saputo
mettere per scritto o scandirli senza ritmo. Le parole rimangono nella musica
più a lungo di quanto non rimangano nella nostra razionalità.
Gaspare scoprì che Alice era istruita: non era andata a
scuola ma era stata la pupilla di un vecchio professore che abitava nel suo
paese, che le aveva insegnato il mondo attraverso la poesia e la letteratura.
Così Alice raccontava tutto come se si trattasse di un argomento degno di
un’ode.
In un primo momento Gaspare rise come si ride quando si
ascolta una barzelletta già sentita, ma poi si accorse che i suoi lunghi
discorsi non lo stancavano e questa fu già un’ammissione potente. L’amore per
lei nacque progressivamente, inizialmente senza passione ma con una sete
inestinguibile di vederla e sentirla parlare.
Quando glielo disse, lei gli confessò che ricambiava e
Gaspare scoprì che Alice gli appariva bella, irresistibile. Percepiva il
fremito sulla superficie delle mani di Alice, pronte ad accarezzarlo fino a
consumarsi, e si abbandonò ad un sentimento d’amore che lo faceva sentire, al
contempo, un lattante ed un vecchio.
Decisero di sposarsi, con l’approvazione ma con la preoccupazione
dei genitori di Gaspare: amavano Alice ed avevano invitato il figlio a fare
altrettanto, ma il cambiamento del giovane rampollo lasciava intravedere loro
che il suo destino, che appariva deciso fin dalla sua nascita, era
profondamente mutato. Per loro, in quel momento, risultava imprevedibile: il
ragazzo voleva lavorare e trasferirsi con la giovane moglie nella cittadina
dalla quale lei proveniva.
Cominciare con un magro stipendio e da un luogo provinciale:
per Gaspare la questione era molto più affascinante e non la avrebbe mai
definita con tale parole.
Voleva cominciare la loro vita, con Alice, dai luoghi che le
avevano dato i natali: conoscere quelle dune e gli snelli alberi alla cui ombra
lei era cresciuta ed infine era giunta fino a lui.
Era certo che da quel punto sarebbero giunti al luogo
successivo del loro amore.
Quel luminoso settembre del 1920 si sposarono e ancor
freschi della festa, profumati di borotalco e lavanda, giunsero ad abitare
nella stanza che per la prima volta era interamente loro. Avevano abitato per
qualche settimana nella casa dei genitori di lui ed avevano dormito insieme
nella stanza che Gaspare aveva occupato fin dall’epoca in cui era stato capace
di dormire da solo.
Quella stanza, soprattutto durante la notte, rivelava molto
di ciò che Gaspare era stato, un bambino, fino a poco tempo prima: l’ombra dei
ninnoli e degli appendiabiti sui quali, per un periodo eterno, erano stati
disposti, in un ordine da esposizione universale, i suoi completini ed i suoi
accappatoini, proiettavano la loro ombra sulle pareti.
Durante le loro chiacchierate notturne i due solevano tenere
un lume acceso e la voce di Gaspare rallentava e diveniva nostalgica, mentre il
suo pensiero dava un nome ed una data di nascita a tutte quelle cose con le quali
era cresciuto, che non gli appartenevano ma che erano state sue servitrici.
Alice lo ascoltava, alzava il braccio magro e le indicava, si aggirava per la
stanza con i piedi leggeri, veloce come una zanzara, li toccava, chiedendo a
lui di raccontare il motivo per il quale quel carillon, quel soldatino a
cavallo era rimasto proprio lì, cristallizzato sul suo scrittoio, irrigidito
per la lunga attesa di un ordine. L’odore di quella stanza, dolce come quello
degli unguenti per il bagno, ispirava a Gaspare racconti che difficilmente
avrebbe creduto di poter richiamare alla memoria, con i quali condì l’attesa
che li avrebbe infine portati in Toscana, nella terra natale di lei, nella
piccola cittadina sul lago, vicino alla tenuta nel cui grande parco pascolavano
dromedari, non nella sua casa perché lei non ne aveva.
La stanza che affittarono, con un anticipo fornito dai suoi
genitori, era spoglia e lontana dalla strada. Vi giungevano, pianissimo, i
rumori degli animali del padule, degli agricoltori al lavoro, di qualche
carrozza come quella sulla quale erano giunti.
A volte cerco di immaginare la pineta ed il mare dall’alto, con gli occhi di un uccello: deve apparire così diversa rispetto a come la viviamo a questo livello. Superate le montagne, si scende un po’ e ci si lascia alle spalle il sole appena sorto: dal cielo, l’alternarsi delle dune e degli specchi d’acqua sembra una bandiera scintillante, estesa per chilometri, che poggia sull’invitante verde della vegetazione. Dal basso, non possiamo vedere quello scintillare: dimentichiamo la forza del talismano, fino a che non ci alziamo nuovamente in volo. L’incantesimo, l’attrazione non ricompare fino alla prossima migrazione, quando la stagione ci riporta al di là delle Apuane, sulla costa.
Queste sue parole si ripeteva Gaspare, la notte, quando
abbracciato ad Alice ascoltava il lento, quasi impercettibile movimento del
lago. La casa era di un’amica di Alice e Gaspare si affezionò ben presto
all’odore di quelle stanze, che originava dalla cucina e si intestardiva,
distraendo tutte le loro attività, all’ora dei pasti, richiamandoli come due
topolini in trappola.
Il padre della padrona era proprietario di una serra e
pescatore. Non di rado cacciava anche, con un vecchio fucile che aveva
ereditato e che continuava ad odorare di polvere da sparo molti giorni dopo che
aveva sparato. Così, quando Gaspare scrutava quell’arnese, appeso alla parete,
come un qualsiasi ornamento, provava un senso di sospetto misto a reverenza
quale si prova di fronte ad una belva che sommessamente preannuncia il proprio
ruggito.
Il pensionante lo portò a pesca, la mattina presto e qualche
volta durante la notte. Gaspare non aveva difficoltà a sopportare la lunga
attesa; a volte confondeva la veglia con il sogno e si scuoteva, si dava uno schiaffo,
allora si accorgeva di essere completamente sveglio e credeva di vedere
qualcosa di meraviglioso, incomparabile: le lucciole infarcivano le sponde del
lago come balconi addobbati a festa, ma con maggiore dolcezza ed irriverenza
dei lumi umani, spengendosi e nascondendosi alla vista per lunghi minuti, come
sorrisi mal celati di bambine. Il riflesso dei punti luminosi si fondeva in
nastri baluginanti, che scorrevano sulla superficie dell’acqua bassa e nera. A
volte Gaspare immaginava di poter leggere quei caratteri aramaici e scovarvi la
bibbia dei pesci, degli aironi, delle ranocchie: grandi ed inafferrabili verità
sulla vita che sta in mezzo, tra l’acqua e la terra.
Alice aveva ripreso il mestiere al quale era stata iniziata
da piccolina: la sarta. Confezionava abiti costosi o a modici prezzi. Quando
venne la notizia che era tornata, la sarta che le aveva insegnato la andò a
trovare e le offerse il lavoro. Con i loro primi risparmi, comprarono una
bicicletta e così insieme a volte si recavano nella piccola cittadina alla fine
della strada che attraversava l’infinita pineta. La bicicletta di Gaspare
ondeggiava, dirottata dai colpi di vento o dalla distrazione, mentre Alice
stringeva le dita attorno al metallo freddo del manubrio e raccontava a Gaspare
le storie di quel luogo così piccolo da essere raggiunto da echi di storie e
gesta lontane, così trasfigurati dalla distanza da diventare immaginazione.
Alle volte, inventava per lui qualche verso e lo canticchiava, un po’ fuori
tono.
L’airone ornato di brace, di
Invisibili raggi dipinto, dall’
Alto come ombra calava, così
Coma fa un frammento di bandiera,
ormai libero, lento va sul vento
pietra immateriale adagiata
sul dorso delle onde magnifiche.
Immobile, è un giunco adesso
Un’erba bianca con foglie sottili
Che si confonde con i più comuni
Riflessi, l’ infisso nell’acqua…
Grazie alla bicicletta, Gaspare trovò un lavoretto come corriere e cominciò ad andare ad imparare il mestiere dal tipografo. Tutto si era stabilito molto velocemente: vivere di nuovo in autonomia aveva stimolato il lato pratico di Alice, che aveva guidato con maestria i primi passi di Gaspare attraverso la gente che conosceva e che poteva aiutarli.
Una sera, Alice e Gaspare si spinsero a passeggiare fin
dentro la pineta, vicino alla spiaggia, tanto da poter udire il rumoreggiare
placido del mare. Alice si fermò e chiese a Gaspare di tornare indietro: aveva
freddo e paura di spingersi oltre dopo il calare del sole.
Gaspare rise e la tirò a sé, sospingendola poi perché
proseguisse, ma lei si tirò indietro e si allontanò di qualche passo. Ripeté
che non intendeva proseguire, che conosceva la pineta e non voleva arrischiarsi
durante la notte.
“Conosci la pineta, di giorno. Non sei te che mi hai parlato
della pioggia e dell’aria notturna che è così idilliaca tra i pini sotto la
luce della luna?”
“Non sono io, è stato un poeta. Non voglio andare, torno a
casa.”
“Non pensavo che avresti mai avuto paura di fare qualcosa
insieme a me.”
“Sei irragionevole. Non ho intenzione di seguirti. Se vuoi
andare, vai, io me ne torno a casa. Sei davvero un bambino.”
La guardò: lei appariva più acerba dei due, malgrado
avessero la stessa età. Ma era più saggia e lui…il suo aspetto di uomo poteva
non far intuire il suo spirito.
Gaspare in risposta le sorrise, non aveva altro modo per
esprimere ciò che lei suscitava in lui e lo prosciugava di ogni parola. Se solo
avesse avuto il coraggio di cantare in risposta, come lo aveva avuto sua nonna…
Alice si allontanò e sparì sul sentiero: Gaspare era ormai
solo ma non si sentì abbandonato. Si voltò verso gli alberi, in direzione dello
stormire acuto dei grilli che si nascondevano in basso, chiuse gli occhi ed
inspirò l’odore degli ultimi camuciori che veniva trasportato dal vento dai
cespugli vicini. Aprendo gli occhi, ormai abituato al buio, distinse le macchie
di luce che velocemente si spostavano tra gli alberi: erano i riflessi della
luna nelle pozze che frammentate si ricongiungevano tra loro durante l’autunno,
con la pioggia.
La cercherò qui, la mia Alice, pensò, anzi, cantò
nella sua mente.
Si è allontanata da me e non so dove la incontrerò ma
esplorerò il mondo per trovarla. A cominciare da questo piccolo mondo. A
cominciare dai pini snelli che fanno posto ad alberi più grandi, alle querce ed
ai tigli che proiettano l’ombra di una nuvola, dall’istante in cui il cormorano
riemerge dall’acqua, dall’immobilità dell’airone che è amico dell’orizzonte,
dalla casa per le barche sfasciata, che sta sprofondando. Dal porticciolo di
canne di bambù, dalla stalla dei cavalli che a volte viene invasa dal fango,
dalle ninfee che incontri a sorpresa in un piccolo stagno vicinissimo al mare,
dalla piccola conchiglia che si impiglia tra le dita mentre cammini.
Mentre pensava a tutte queste cose, camminava, scandendo i
passi con il ritmo musicale di quelle parole, riconoscendo ciò che diceva
dentro di sé all’esterno, immerso nella luce della luna. Toccando le fronde
degli alberi, le sue mani divennero fresche, bagnate dalla prima rugiada,
quella ancora segreta, che gli uomini non incontrano, ed i suoi orecchi si
fecero più sensibili ai rumori degli altri che vegliavano e si spostavano
durante la notte: un cinghiale, una cornacchia, alcuni daini. Gaspare si stupì
di poter essere così silenzioso e di mimetizzarsi tanto, nel buio. Si sentiva
spronato nell’andare avanti, superò i fossi ed infine sentì la cedevolezza
della sabbia sotto i piedi. Era così: la spiaggia era il sorriso argentato
della pineta, baciato dal mare che si protendeva e si ritirava, così impaziente
da avanzare in continuazione. Gaspare si inginocchiò ed accarezzò la sabbia,
alzò il capo e vide la luna, quasi piena, che splendeva in alto, nel cielo, dal
punto in cui Alice immaginava di guardare il padule dall’alto, avvicinandosi
alla costa da terre lontane.
Eccoti, mia cara.
Sorrise alla luna: finalmente l’aveva trovata. Ora non gli
restava che attendere che atterrasse sulle terre scintillanti per poi alzarsi
nuovamente in volo con lei e migrare.
Tornò sui suoi passi e la trovò, lì: nel loro letto, Alice
dormiva. Carezzò il suo viso pallido, che sembrava splendere di luce propria,
come la luna, come la aveva vista nel cielo, dopo che era sorta dalla pineta.
domenica 14 aprile 2013
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Unknown
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06:01
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1 commenti
A leggere Joseph Roth ho avuto
esattamente questa sensazione: che Roth si fosse messo
silenziosamente e fluentemente a scrivere sul suo quaderno, durante
una mite serata di aprile, direttamente sul mio scrittoio. Alle prime
luci dell'alba, che si fosse alzato ed allontanato percorrendo le
strade ancora addormentate, guidato dal canto degli uccelli. Quando
mi sono svegliata, ho trovato le sue parole, lì, e mi sono stupita
che potesse essersi già allontanato tanto. Dove sei, Joseph? Come è
possibile che le tue parole, adagiate con grazia sulle pagine, siano
ancora così fresche, come se fossero state concepite dalla sua mente
soltanto un momento fa? E' incredibile: è un libro caldo, tiepido
come la sensazione che si ha toccando con la mano la pelle di un
uomo. C'è qualcosa di immortale in quel modo di scrivere, qualcosa
fatto di spirito. Sono pagine che hanno continuato a scriversi, a
partire dal 1925, tutti i giorni, fino ad adesso, e continuano a
suonare, in divenire.
Il libro che ho amato di
più, tra quelli che ho letto - La Cripta dei Cappuccini, Ebrei
Erranti, Le Città Bianche, La Ribellione e la Leggenda del Santo
Bevitore - è stato le Città Bianche: si tratta di quello che noi
oggi chiameremmo un reportage giornalistico sui luoghi storici del
Sud della Francia, come uno di quello di cui godiamo, pubblicati
nella sezione della cultura dei nostri quotidiani, raccolti e scritti
da Paolo Rumiz.
E' un libro breve,
significativo e coinvolgente per tutta la sua lunghezza. Nella breve
"introduzione", virgolettata perché in realtà non è in
discontinuità con il resto del libro, Roth parla di sé: si
definisce un giovane di trent'anni e si descrive in funzione della
sua giovane età, della sua esperienza in guerra e di cosa il suo
nuovo impiego, il giornalismo, ha significato per lui. Per quel che
riguarda questo ultimo punto, egli ci confida che questo ha
costituito per lui una svolta, cioè mettersi in viaggio, uscire
dalla Germania, il paese nel quale un ragazzo come lui vede
rappresentata fin troppo visceralmente la sua identità come quella
di un perdigiorno, per di più ebreo, con tutto ciò che all'epoca
significava e che egli racconta in Ebrei Erranti con la tenerezza
mista ad l'incredulità che ci ispirano tutte le assurdità
socialmente determinate a cui fin dalla nascita siamo abituati (io,
sono italiana, e questo lo so fin troppo bene!). Il viaggio del Roth
giornalista è l'esperienza che gli permette di conoscere il
movimento alternativo a quello che ha costituito per lui una sorta di
imprinting, cioè l'allontanamento forzato che la guerra ha richiesto
ai giovani. Questo passaggio è sublime: soltanto Roth è riuscito a
chiarirmi quale immane tragedia è stata per l'Europa e la
generazione appena nata dei primi anni del novecento la Prima Guerra
Mondiale. Noi non conosciamo le radici dell'odio e della diffidenza
che aleggiano in questo nostro gremito continente, del nichilismo e
della sfiducia nell'economia e negli stati, il difficoltoso procedere
delle masse e delle istituzioni nel costruire qualcosa che sia
duraturo, nel prestare la nostra fede in ciò che può essere
costuito nell'unirci tra singole individualità: ecco, questo è
cominciato lì, con le leve militari tra l'estate del 1914 e la fine
del 1918. E' un'epoca così lontana, eppure Roth non è lontano. Ve
l'ho detto, ha lasciato la mia stanza soltanto una mezz'ora fa, le
sue pagine sono ancora flesse a causa del tocco delle sue dita e
della sua penna.
La generazione di Roth è
stata violentata, disanimata. Ciò che egli descrive ritrae le stesse
sfumature che sono tratteggiate nelle poesie di Giuseppe Ungaretti:
questi due uomini sono senza dubbio della stessa specie, due
navigatori del buio e del sottomarino, che attingono a quel "nulla
d'inesauribile segreto", che forse era maturato, nell'esperienza
di Roth, a causa del vuoto lasciato da un sistema scolastico che lo
valorizzava ma senza dimenticare la sua etnia di provenienza, da una
passione per la letteratura tedesca che fu la base per l'evoluzione
della Germania in un Impero che avrebbe messo in atto lo sterminio
del suo popolo, da una guerra che non solo dissolse la sua identità
come uomo ma anche come cittadino di uno stato, a seguito della
traumatizzante dissoluzione dell'Impero Austro-Ungarico, dalla moglie
che presa dalla follia abbandona anche lei le sembianze di una
giovinezza promettente e finisce per scomparire tragicamente. Nelle
prime pagine delle Città Bianche, è questo di cui parla: di una
stagione rubata, di una giovinezza conosciuta soltanto
anagraficamente, alla quale si crede soltanto per merito dei
documenti che attestano che è passata, dove e quando.
Intraprendendo il viaggio
in Francia, Roth assaggia in ritardo quello che non concepiva nemmeno
di poter più desiderare: il sole, la campagna, i monumenti
misteriori, i suoni della gente. Finisce per descrivere tutto questo
in un modo che non ha pari.
Una delle cose che mi ha
maggiormente colpito è stato il fatto che Roth compie questo viaggio
a piedi: me ne sono accorta ad un certo punto, quando egli racconta
di essersi attardato lungo la strada tra due città e si ferma a
dormire in un bosco. Potete immaginare un tempo, non troppo lontano,
in cui un uomo si sposta a piedi tra le città, per centinaia di
chilometri, e nei momenti in cui si sposta è solo, introvabile, e
soltanto lui può poi metterci da parte, soltanto con la forza delle
parole, di ciò che ha vissuto? Si tratta di una dimensione che
abbiamo perso, completamente. Ma se desideriamo immaginarlo, c'è
Roth, appena uscito dalla nostra stanza, che ci ha lasciato qualche
pagina scritta di fresco.
Roth ha una scrittura
poetica ed un modo multisensoriale di descrivere ciò che vede. Non
si tratta di una guida turistica, ma di un viaggio. Devo ammetterlo,
non ho mai letto un libro tanto bello.
sabato 16 marzo 2013
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Le masse esprimono il loro giudizio e si muovono.
Non è mai stato così facile, giudicare, come nell’era di
internet. Non ne è forse prova l’invadente dietro le quinte che ha circondato
queste nostre ultime, controverse elezioni?
C’è forse un problema, nell’era di internet: le persone che
giudicano non ascoltano chi giudicano e non parlano tra di loro, così le
opinioni da dinamiche e soggette al tempo si cristallizzano, acquistano una
forza sconosciuta, simile a quella delle pietre.
Le persone non hanno bisogno di muoversi, di conoscere il
nome di un autore, di un uomo politico, di un cantante: basta una foto
segnaletica, una frase, un simbolo ed ecco liberarsi l’opinione, che si
manifesta in pochi caratteri.
Io mi chiedo: che ne è stato del contesto?
Il contesto è morto, ha perso la sua risonanza. Che importa
se ad essere investito di autorità è un ladro od un comico, che importa se
l’autore di pagine in cui si racconta l’amore ed il sesso è una casalinga, che
importa che l’autore a cui è attribuito un certo messaggio non ne sia l’autore,
in realtà? Tutto ciò è, all’apparenza, molto democratico, ma c’è un ma: il
messaggio si trova in luce, ma è davvero ben chiaro se sia condivisibile o
meno, apprezzabile o deprecabile, considerato che il suo autore è in pratica un
anonimo ed esso viene espresso al di fuori di ogni circostanza? Le persone
entrano davvero in comunicazione quando non sono investiti dell’identità di
interlocutore? Queste persone si sentono davvero all’interno di una relazione,
fondamentale per la trasmissione delle informazioni?
Non che conoscere chi si esprime sia sempre necessario: noi
tutti abbiamo sperimentato la potenza della letteratura, che in anni di letture
ha plasmato la nostra memoria, la nostra percezione del mondo e delle persone,
le nostre idee. Io stessa non so più distinguere cosa ci sia di originale in me
e cosa invece non sia stato influenzato fino alla radice dai libri che ho
letto. Noi non conosciamo l’autore del libro ed egli non conosce noi, siamo un
esercito di sconosciuti del tutto neutrali, prima di iniziare la lettura e fare
la conoscenza del mondo dell’autore, eppure dobbiamo ammettere di conoscere
quella sensazione che soltanto la “buona letteratura” sa dare: l’autore sembra
conoscerci, i personaggi ci appaiono familiari, ci identifichiamo con alcuni di
essi, piangiamo e ridiamo con loro, viviamo e moriamo, a volte. Esiste un
“ponte”, un’arca dell’alleanza riposta dentro i libri “fatti bene” (che non
sono quelli “universalmente belli”…che naturalmente non esistono): si tratta di
una magia e di un’arma che la maestria dell’autore può porre nelle pagine e con
essa avvicinare a sé la mente di una persona qualunque che si sente speciale,
si sente di poter dire qualcosa su quel libro, di poter parlare con e a nome
delle sue ombre.
Ovvia deduzione: questo non succede per gli stati di
Facebook, per i tweet, per le notizie a rapida condivisione e molto spesso,
ahimè, neanche per i post dei blog. Tutto ciò che viene letto è rapido: la
brevità e l’incisività sono d’oro, le parole scelte sono simboli altamente
intelligibili che scatenano una reazione (uguale o contraria). Chissà, se
Bersani avesse affidato i suoi “cinguettii” metaforici al mezzo digitale ed
avesse bandito dalla sua campagna i commentatori ed i contestisti per
eccellenza, i giornalisti, magari avrebbe smosso il dito indice di milioni di
italiani.
Che valenza ha un’opinione quando questa acquista tali
caratteristiche?
A livello individuale, nessuna. La mente non si apre, non
procede nel proprio divenire e non acquisisce niente. La valenza
dell’espressione dell’opinione, in queste condizioni, è a mio parere ben
diversa, trasfigurata: si tratta di una valvola di sfogo, un’auto-attribuzione
di autorità in quanto ci si arroga il diritto di esprimere un giudizio senza
doverlo peraltro giustificare con riferimenti che vadano oltre ad i propri
confini personali. Uno vale uno, non è forse questo che ci dicono?
Uno si può sentire protetto da questo anonimato e risolvere
il famoso complesso del buono a nulla: le persone si scagliano contro poesie e
foto, contro politici, educatori, mamme, soldati, testimonianze di ogni
genere…ricette; oppure fanno proprio ciò che viene detto, trasfigurandolo
completamente.
A questo proposito desidero fare un esempio: qualche tempo fa
ho letto su uno dei maggiori quotidiani italiani un (brutto) articolo sul Romeo
e Giulietta di Shakespeare. Sotto di esso si stagliava l’unico commento,
firmato da una e-mail costituita da lettere e numeri, una sorta di targa
automobilistica, il quale diceva: Romeo e Giulietta andrebbe fatto leggere a
scuola, ai bambini. Sono d’accordo con Shakespeare: l’amore vero è tra UOMO E
DONNA. Gli omosessuali sono dei degenerati. La mia reazione è stata di
sbigottimento: proprio sotto un articolo su Shakespeare, che notoriamente ha
scritto, secondo lo stile dell’epoca, sonetti dedicati ad un “giovinetto”,
trovo una sparata omofoba, firmata da un robot.
Mi sento estraniata da un’esperienza del genere, anche
perché non senti normalmente le persone comuni parlare di Shakespeare: è quello
il luogo in cui si parla di Shakespeare, sotto al post, dove in calligrafia
corsiva è presente l’invito: lascia un commento. Cosa posso fare, io che amo
Shakespeare, l’ho studiato e ne do un’interpretazione secondo un’obiettività storica,
a fermare per strada quest’uomo o donna e spiegargli che no, lui/lei non è
d’accordo con William Shakespeare? Normalmente questo incontro di opinioni non
sarebbe avvenuto, ma considerato che è successo, qual è il senso che questo
scambio rimanga fine a se stesso e non possa essere utile ai fini di uno
scambio?
Le persone si sfogano e rimangono lì, inconsapevoli, senza
accorgersi che perdono una forza utile a sconfiggere quell’anergia che ci
coglie in questi tempi in cui la militanza individuale, come persone, come
menti consapevoli di cosa è ovvio, cosa è falso e cosa è importante, è l’unica
speranza di rivalsa.
Con questo io non voglio demolire il web: amo internet, lo
uso quotidianamente e mi annoierei se non esistesse. Probabilmente avrei anche
meno motivi per scrivere ed uscire dal mio guscio.
Ma…no, signori no: smettetela di ritenere che sia lecito
poter definire i grandi dittatori “abbastanza buoni, prima della degenerazione”
senza apportare uno straccio di prova storica, smettetela di imbrattare i versi
ironici di uno studente “perché la metrica è sbagliata” senza accorgervi che la
metrica non era compresa tra le finalità, smettetela di essere taglienti perché
a qualcuno è sfuggita un “h” dalla tastiera quando siete tanto maleducati da
non saper nemmeno come ci si rivolge, non usate espressioni come
incontrovertibile, non scambiate la disperazione per le lamentele di cagnolini
viziati e l’opinione altrui e diversa per una calunnia della verità che può
essere ripagata solo con la mortificazione dell’altro.
Questa non è libertà d’opinione, è inconsapevolezza. Io
trovo che in giro ci sia pieno di Ingannati, più che di Indignati. L’unica
difesa (contro le enormi bufale che offuscano le nostre giornate) non è forse
l’uso consapevole degli strumenti? Il sacrificio necessario è, temo, rinunciare
all’infantilismo della valvola di sfogo e svegliarci. Svegliamoci, ora.
martedì 5 marzo 2013
Ieri era ho guardato un film, Detachment – Distacco,
che parla di insegnanti.
È un film verità, in tutti i suoi aspetti: gli attori
narrano la verità, attraverso i loro i corpi, le loro espressioni, il suono
della loro voce; la storia è verità, perché quella storia sono gli
insegnanti, sono i ragazzi, sono la scuola; l’ambiente, che si trasforma da
realtà a pensiero, un edificio scolastico che interpreta la devastata casa
Husher, nelle cui mura diroccate abita uno spirito affine a quello che dorme,
inquieto, nelle mura della scuola.
I miei genitori sono insegnanti: mia madre insegna
matematica e scienze alla scuola media, mio padre storia e filosofia alla
scuola superiore. Insegnano da quando avevano ventisei anni ed ora hanno quasi
trent’anni di carriera. Io sono nata quando di anni ne avevano vent’otto e
quindi li ricordo: i giovani insegnanti. Giovani e belli, magri ed energici,
stanchi.
Ricordo i miei genitori stanchissimi e poveri, la sera,
nella nostra casa di cinque stanze in cui abitavamo in cinque. Ricordo i loro
occhi sgranati quando si raccontavano di chi li aveva offesi, di chi aveva
deturpato il loro nome, di chi aveva pianto a dirotto, delle ore passate a
sentirsi gli avvocati delle cause perse. Io li ho visti in quel film, Detachment,
ieri sera, e forse è per questo che mi sono così commossa.
Il film ha definito ciò che io molto profondamente desidero
definire, sempre, forse senza riuscirci: gli insegnanti. In questo paese, forse
in tutti, gli insegnanti non sono amati: ho ascoltato le stesse frasi
pronunciate da tutti, coetanei, genitori di amici, commesse, impiegati del
comune, verdurai, camionisti, medici, giudici e avvocati, giornalisti,
politici.
Sono le stesse frasi che una serie di facce anonime, riprese
da molto vicino, pronunciano durante i titoli d’apertura del film: basta
telefonare, dire che si sta male e non vai al lavoro. Le ferie di tre mesi
durante l’estate. L’orario di lavoro ridotto a sei ore, soltanto la mattina.
Fannulloni, marajà, privilegiati, questi insegnanti. Ladri.
Queste cose le ho sempre sentite dire e non mi sono mai
trattenuta dopo, dal dire: i miei genitori sono insegnanti, entrambi. E dal
dichiarare che queste sono tutte balle, balle, balle, balle.
So che è difficile difendere la categoria. Infatti loro non
la difendono: la condannano. Si scontrano con i colleghi arrivisti, che pensano
alle pubblicazioni e non ai ragazzi, cercano di proteggere gli stuendenti da
chi ha occupato un posto soltanto per un contratto a tempo indeterminato.
A volte piangono, come il protagonista del film. A volte
avvicinano la mano al telefono che squilla così lentamente che io credo che non
lo prenderanno mai, mai.
So che la categoria non è difendibile. Questo è ben visibile
anche nel film: ci sono porci, ci sono ignoranti, incompetenti. Quello con cui
ci si scontra, se stai nella scuola e sei davvero un insegnante, è
l’ingiustizia. Credo che sia la professione che sta più vicina all’ingiustizia,
più della guardia carceraria, più del magistrato anti-mafia, più dell’attivista
per i diritti umani.
L’ingiustizia è una presenza invisibile che li tocca, li
scarna, cancella loro il volto, esige il loro distacco, il loro fuoco freddo
per combatterla.
Harry, il professore del film, ne parla proprio così,
parafrasando: noi stiamo vicino ai giovani e li vediamo disperati. Li vediamo
che non credono, vediamo il terrore di ciò che li aspetterà, il nulla che
vedono e non possiamo far altro che essere noi stessi. Non possiamo far niente,
possiamo soltanto essere lì e poi lasciarli andare al loro destino di gocce
nell’oceano.
Questa è un’esperienza terribile: nessuno dice grazie ed il
fallimento aleggia, sempre, nella vita comune ed ingiusta che quei bambini,
alle porte della vita adulta, si avviano a condurre da soli, fuori dall’aula
dell’insegnante che li ha amati.
Tutti gli insegnanti, nel film, oltre ad essere stanchi e
continuamente provati dalla commozione, sono soli. Questo è il particolare che
ho notato con più chiarezza.
Per lunghi anni mi sono chiesta perché i miei genitori siano
così soli: hanno pochi amici, escono poco, il fine settimana non sanno mai cosa
fare. Mi dicevo: i genitori dei miei amici non sono così. Escono con tavolate
di conoscenti a mangiare la pizza, partono per il fine settimana, vanno
all’Ikea.
Dalle parole di un’insegnante del film: il venerdì sera mi
dispero. L’idea del fine settimana da passare da sola mi distrugge.
Ora ho capito. I miei genitori sono soli perché sono
insegnanti. Gli insegnanti sono soli, soli al mondo.
L’identità tra loro ed i personaggi del film mi ha
impressionato: loro mi hanno fatto vedere tutto quello che non ho mai
raccontato di loro e mi sono sentita grata. Vorrei che tutti lo vedessero, che
tutti sapessero. Vorrei che ascoltassero Adrien Brody, che interpreta il
protagonista, il professor Barthes: osservassero il suo viso scavato, ognuno
dei suoi lineamenti che interpreta ognuna delle sue parole, e dopo tornassero a
guardare il volto di mia madre, mio padre, il mio, che sono la loro figlia.
Capirebbero lei, capirebbero lui, capirebbero me, che ne sono il frutto e
partecipo della loro vita. Capiterebbero la loro tristezza, la loro solitudine
e parte della mia.
Non so se è lecito, ma questo film che ho guardato lo dedico
a loro e a tutti gli insegnanti, degni di esser chiamati tali, che ho conosciuto.
Forse il mio punto di vista è privilegiato, perché loro mi hanno generato, ma
c’è molto dolore anche in quelli di loro che sono più piccoli, più deboli, più
schiacciati, perché non c’è davvero nessuna gloria in questo mestiere, e ci si
riempie di polvere.
Per quelli che odiano gli insegnanti, giustamente avendo
avuto esperienze terribili con matti, porci, violenti, ignoranti, macellai e
dittatori (che ho provato anche io, intendiamoci), fate così, da oggi: cercate
lo sguardo triste degli insegnanti, quelli veri. Aiutateli, in quella lotta
impari contro l’ingiustizia, contro le persone prive di consapevolezza, perché
"È facile
essere indifferenti, l'interesse richiede coraggio e il coraggio richiede
carattere!"
Mi sento in colpa
ogni giorno, per la solitudine dei miei genitori, in quanto giovane. A volte è difficile sopportarli ma ogni
giorno io attingo pazienza ed idee per suggerire loro qualche appiglio e
forse…sono diventata anche io un po’ insegnante.
Di più non dico. Se avrete l’occasione di leggere questo
post, se siete una di quelle tante persone, come lo sono io, che hanno provato
lo schifo della scuola pubblica, ma siete ancora privi di consapevolezza e
questa rabbia non sapete dove dirigerla, se non sulle persone, non fermatevi
alle mie parole. Guardate il film, Detachment. Certe cose vanno fatte
dire a chi ha gli strumenti per farlo, a chi lo sa fare. Malgrado io abbia la
tristezza, forse io non li ho quegli strumenti, non ancora.
venerdì 1 marzo 2013
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Il libro è North and South, di Elizabeth Gaskell. Lo sto leggendo in inglese, perchè in italiano è stato tradotto soltanto nel 2011 ed ho rinunciato all'annosa ricerca quando mi sono ritrovata tra le mani un meraviglioso, compatto Collins in lingua originale al prezzo di tre euro e cinquanta.
Il racconto si svolge nei fuligginosi anni della seconda rivoluzione industriale, durante i quali la signorina Margaret Hale viene prima espiantata dalla casa cittadina di Londra dove vive con le raffinate ed ottimiste zia e cugina, alla canonica del padre pastore in piena crisi di coscienza, circondato da una paradossale bucolica cornice, alle angustezze e al raschiore alla gola della città industriale, Milton, tra i nordici pinnacoli fumanti del Darkshire, fornace d'Inghilterra. Qui Margaret conosce un trader, Mr Thornton, che quando lei ammette di non poterlo definire gentleman, egli rifiuta con decisione tale epiteto per definirsi, con maggiore precisione, Man. E' l'inizio del confrontro tra loro e dell'amore che ispirerà a lui la più completa accettazione e comprensione della di lei diversità. Forse è un bene che abbia scritto una riflessione proprio ora, a metà del libro, così da non dover svelare un finale.
Per ora, la realtà, le convenzioni, i pregiudizi, i dogmi - Non mi piace Mr Thornton, perchè no! - vincono, hanno la meglio sull'eroe commerciante John Thornton, che per un attimo crede di poter toccare una scintilla, proveniente dal fuoco che sente bruciare e di cui percepisce il calore sulla pelle. Egli intuisce che tale fuoco potrebbe divenire reale e desidera, come uomo, divenire un'irradiante stella, afferrandolo.
Non ancora, Mr Thornton, il tempo della razionalità, rappresentato così splendidamente e paradossalmente da Margaret, non è pronto e rigetta. Un giorno d'amore in più da frapporre alla morte è così andato perduto e con esso molti altri, con l'angoscia che ne deriva.
La cosa più bella è questo scambio delle parti, tra l'uomo presentato fin dall'inizio come il commerciante senza scrupoli e la ragazza dai modi fini e ricca di pietas:
Lui: d'un tratto si colora di passione, sincerità, amore, gratitudine, abnegazione, rinuncia all'odio, prova umiltà e mortificazione.
Lei: è apparentemente cieca, piena di pregiudizi, addirittura maleducata, superficiale. Si richiama a Mr Thornton pregandolo di non esprimere i propri sentimenti, dichiarando come proprio sommo valore l'autocontrollo. E' così concentrata su se stessa e sulla propria convinzione di autorevolezza da lasciarsi sfuggire completamente il proprio egoismo.
Margaret mi appare un po' come la vittima dell'educazione ricevuta ed infatti accusa Mr Thornton di non comportarsi come un gentiluomo, escludendo spontaneamente dall'accezione di gentiluomo la possibilità di comprendere e provare sentimenti. Questi sentimenti noi li vediamo mostrarsi, chiari e puri, in Thornton che, ergo, non è davvero un gentiluomo, provoncando nel lettore la completa accettazione e simpatia per questo personaggio e, dunque, per i non-gentiluomini. Questo gioco delle parti è così abile da renderci inaccettabile l'idea che un Uomo accetti di piegarsi alle regole del gentiluomo. Quello che l'autrice fa, descrivendoci i personaggi nella loro pura fattualità unitamente ad i loro moti interiori, è rieducarci. Elizabeth Gaskell rieduca il lettore vittoriano attraverso il racconto: come si può che negare che Thornton sia, nella sua ribellione che lo porta ad accogliere ed esprimere così esplicitamente un sentimento, l'uomo illuminato dalla grazia della verità? E come si può negare che Margaret, incarnato di razionalità, rifugga così ostinatamente ed egoisticamente la realtà e la giustizia e dichiari con le sue azioni che lo fa per paura della sofferenza?
Infatti, con grande astio, accusa Mr Thornton di farle del male: non le importa che di sè.
Thornton le è tanto superiore che non solo non la odia ma umilmente comprende ed accetta la sofferenza. Se il suo amore non è ricambiato, esso non si muterà in odio, ma in sofferenza. Questa è la prova che il suo amore è vero.
Il momento di elevazione di Margaret lo abbiamo visto quando lei lo protegge.
Durante un attacco di una folla di operai inferociti, Margaret frappone il proprio corpo tra quello di Thornton ed i sassi che vengono scagliati verso di lui, rimanendo ferita. E' proprio questo evento che scatena la successiva presa di coscienza di Thornton, che scopre di amarla e che urge dichiararlo a lei.
Il vero atto di rivelazione, dunque, parte proprio da Margaret: questo ci fa sapere che lei è capace di andar oltre la razionalità e ci dà speranza per il futuro di questi due personaggi.
Il racconto si svolge nei fuligginosi anni della seconda rivoluzione industriale, durante i quali la signorina Margaret Hale viene prima espiantata dalla casa cittadina di Londra dove vive con le raffinate ed ottimiste zia e cugina, alla canonica del padre pastore in piena crisi di coscienza, circondato da una paradossale bucolica cornice, alle angustezze e al raschiore alla gola della città industriale, Milton, tra i nordici pinnacoli fumanti del Darkshire, fornace d'Inghilterra. Qui Margaret conosce un trader, Mr Thornton, che quando lei ammette di non poterlo definire gentleman, egli rifiuta con decisione tale epiteto per definirsi, con maggiore precisione, Man. E' l'inizio del confrontro tra loro e dell'amore che ispirerà a lui la più completa accettazione e comprensione della di lei diversità. Forse è un bene che abbia scritto una riflessione proprio ora, a metà del libro, così da non dover svelare un finale.
Per ora, la realtà, le convenzioni, i pregiudizi, i dogmi - Non mi piace Mr Thornton, perchè no! - vincono, hanno la meglio sull'eroe commerciante John Thornton, che per un attimo crede di poter toccare una scintilla, proveniente dal fuoco che sente bruciare e di cui percepisce il calore sulla pelle. Egli intuisce che tale fuoco potrebbe divenire reale e desidera, come uomo, divenire un'irradiante stella, afferrandolo.
Non ancora, Mr Thornton, il tempo della razionalità, rappresentato così splendidamente e paradossalmente da Margaret, non è pronto e rigetta. Un giorno d'amore in più da frapporre alla morte è così andato perduto e con esso molti altri, con l'angoscia che ne deriva.
La cosa più bella è questo scambio delle parti, tra l'uomo presentato fin dall'inizio come il commerciante senza scrupoli e la ragazza dai modi fini e ricca di pietas:
Lui: d'un tratto si colora di passione, sincerità, amore, gratitudine, abnegazione, rinuncia all'odio, prova umiltà e mortificazione.
Lei: è apparentemente cieca, piena di pregiudizi, addirittura maleducata, superficiale. Si richiama a Mr Thornton pregandolo di non esprimere i propri sentimenti, dichiarando come proprio sommo valore l'autocontrollo. E' così concentrata su se stessa e sulla propria convinzione di autorevolezza da lasciarsi sfuggire completamente il proprio egoismo.
Margaret mi appare un po' come la vittima dell'educazione ricevuta ed infatti accusa Mr Thornton di non comportarsi come un gentiluomo, escludendo spontaneamente dall'accezione di gentiluomo la possibilità di comprendere e provare sentimenti. Questi sentimenti noi li vediamo mostrarsi, chiari e puri, in Thornton che, ergo, non è davvero un gentiluomo, provoncando nel lettore la completa accettazione e simpatia per questo personaggio e, dunque, per i non-gentiluomini. Questo gioco delle parti è così abile da renderci inaccettabile l'idea che un Uomo accetti di piegarsi alle regole del gentiluomo. Quello che l'autrice fa, descrivendoci i personaggi nella loro pura fattualità unitamente ad i loro moti interiori, è rieducarci. Elizabeth Gaskell rieduca il lettore vittoriano attraverso il racconto: come si può che negare che Thornton sia, nella sua ribellione che lo porta ad accogliere ed esprimere così esplicitamente un sentimento, l'uomo illuminato dalla grazia della verità? E come si può negare che Margaret, incarnato di razionalità, rifugga così ostinatamente ed egoisticamente la realtà e la giustizia e dichiari con le sue azioni che lo fa per paura della sofferenza?
Infatti, con grande astio, accusa Mr Thornton di farle del male: non le importa che di sè.
Thornton le è tanto superiore che non solo non la odia ma umilmente comprende ed accetta la sofferenza. Se il suo amore non è ricambiato, esso non si muterà in odio, ma in sofferenza. Questa è la prova che il suo amore è vero.
Il momento di elevazione di Margaret lo abbiamo visto quando lei lo protegge.
Durante un attacco di una folla di operai inferociti, Margaret frappone il proprio corpo tra quello di Thornton ed i sassi che vengono scagliati verso di lui, rimanendo ferita. E' proprio questo evento che scatena la successiva presa di coscienza di Thornton, che scopre di amarla e che urge dichiararlo a lei.
Il vero atto di rivelazione, dunque, parte proprio da Margaret: questo ci fa sapere che lei è capace di andar oltre la razionalità e ci dà speranza per il futuro di questi due personaggi.
Mr Thornton e Miss Hale |
domenica 6 gennaio 2013
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Adam sedette sull’erba e passò le dita sulla superficie
dei piccoli fiori che risaltavano come capocchie colorate.
Incrociò le braccia e si distese, inclinando lentamente la
schiena magra all’indietro, rimirando il cielo al di sopra di lui ed
individuando con curiosità le nuvole e gli uccelli migratori che ancora si
attardavano sopra alla città.
L’autunno era lento e solerte, con un soffio svogliato
incrinava ogni traccia d’estate e la lasciava languire, attenendo che si
spegnesse di sua spontanea volontà, priva ormai di ogni speranza e dimentica
dei semi che i frutti avevano nascosto, sotto le macerie della primavera, nel
terreno.
A contatto con la terra e l’erba, inumidite dagli sospiri
dei vegetali che, riconoscendo l’abituale imbrunire della notte, trasudavano
milioni di perle trasparenti, il corpo di Adam fu percorso da un forte brivido.
Chiuse gli occhi, con un sospiro: si era rifugiato nel silenzio del giardino
nella speranza di udire il battito, situato profondamente, ormai quasi
irriconoscibile, del cuore antico, di pietre e mattoni, della città dove aveva
vissuto quegli ultimi lunghi mesi. Era certo che i suoi abitanti fin dalla
nascita traessero nutrimento dalla linfa vitale che quel cuore costante
elargiva, con la sua forza di sorgente, mantenendo in piedi palazzi, facendo
zampillare fontane, scorrere marciapiedi e rotaie del treno.
I cittadini correvano di qua e di là, chiacchierando nella
loro lingua come se si trattasse di una lingua assoluta ed impeccabile,
ascoltavano canzoni, accompagnate da orchestre di ogni tipo, bevevano e
mangiavano, poco interessati a tutto ciò che avveniva al di fuori delle mura,
della chiesa, della biblioteca, dell’osteria e così via.
Così i diversi mondi, animati dalla stessa linfa, non si
incontravano in nessuna stagione per bruciare le messi secche ed augurare un
futuro nuovo e non riciclato.
Adam osservava questa situazione con una certa, crescente
ansia: aveva viaggiato fin da bambino, parlava tedesco, russo ed yiddish, oltre
che il polacco. Non conosceva quale fosse la lingua dei propri genitori: suo
padre alternava il tedesco, il polacco e lo yiddish. Non era tuttavia un gran
trasformista: ogni sua frase era ritmata da un marcato accento che richiamava
l’attenzione sulla sua voce ovunque lui fosse, richiedendo tutta la sua
pazienza ed il suo impegno per rendere le parole ed il loro significato
altrettanto forti quanto quel ritmo dissonante. Suo padre pronunciava il
proprio nome e quello dei suoi familiari, compreso il suo, Adam, con inflessioni
contrastanti, come se lui stesso fosse confuso a proposito della propria lingua
originaria. Non era così per i nonni, che avevano vissuto per lungo tempo
insieme a loro: parlavano yiddish, tra loro e con chiunque altro. Adam era
molto predisposto ad imparare in breve tempo molte altre lingue, udendole
parlare dagli uomini delle varie nazioni, aiutato in un primo momento dai loro
gesti e dalle loro espressioni. Così si era istruito, soltanto ascoltando, sui
rudimenti del ceco, del moldavo e di alcuni strani dialetti che aveva sentito
in Germania. Per lui era un passatempo che non avrebbe scambiato con nessun
altro al mondo e quando rimaneva in silenzio amava far circolare nella propria
mente vocaboli ed espressioni nelle varie lingue, ricreando un turbine di
bandiere fatte da caratteri. Questa era una dimensione liberatoria che aveva
covato per lunghi anni dentro di sé ed in qualche modo lo aveva preservato
dall’austera vigilanza che era imposta a lui e alla sua famiglia.
Avevano vissuto a Berlino sin da quando era piccolo, città
nella quale avevano piantato tende provvisorie i nonni paterni, che erano
giunti in Germania con il progetto di dirigersi verso Amsterdam. Mantenendo
quel proposito, i nonni avevano vissuto trent’anni a Berlino con la valigia sotto
il letto. Il padre di Adam li aveva raggiunti credendo di viaggiare sulla
spinta della marea montante, contava di creare a Berlino una base dalla quale
riuscire a guadagnarsi un lasciapassare per una vita girovaga, visitando
atenei, università, confrontandosi con studiosi di molto lontano. Si trattava
di un sogno conforme al suo ideale di intellettuale moderno: la cosa più
importante per quell’uomo era lo studio e la comunicazione della propria
serendipità e dopo che si fu stabilito a Berlino lavorò come segretario,
contabile, operaio, deformando il proprio corpo ed affievolendo la propria
vista come un cavaliere intrepido in cerca. Con fatica riuscì a diventare
professore in una scuola secondaria. Fu il suo primo incarico e neanche
l’ultimo perché non di rado perdeva il lavoro ed era costretto a ricominciare
da capo. Il padre di Adam era stato molto infelice allora ed in quel periodo tornò nella cittadina dove era nato e sposò una giovane compaesana, la
madre del suo unico figlio. Adam ricordava che spesso litigavano ed in quelle
occasioni lei era solita accusarlo di averla sposata e portata a Berlino
soltanto perché aveva bisogno di una donna che lavasse le sue camice, perché
egli aveva timore dello scherno dei presidi ed dei colleghi tedeschi, che forse
sussurravano dietro alle sue spalle: che odore! Perché non si era sposato una
tedesca, allora?
Adam sorrise, era certo che suo padre avesse amato molto
la mamma. La trattava e la usava come se si trattasse di un gioiello e quando
la abbracciava timidamente, senza mai stringerla, la chiamava zucchero e
strofinava il naso contro la sua guancia.
La vita a Berlino era costellata di piccoli ricordi che
avevano in potere di intenerirlo, tuttavia Adam non sarebbe ritornato in quella
città per niente al mondo. Trasferendosi a Varsavia aveva reciso i suoi legami
con quella città dove insieme a suo padre aveva dovuto far balletti come un
saltimbanco da una scuola all’altra, pregare perché gli fosse ceduto il passo.
Stentava a provare gratitudine o nostalgia per i loro amici tedeschi: la
sensazione di essere altro rispetto a loro, in senso strettamente razziale,
aveva lasciato un sapore di rancido nella sua bocca. Era cresciuto a Berlino ma
si sentiva di esser cresciuto in un altro luogo, sebbene questo processo fosse
avvenuto a sua insaputa. Dopotutto, una volta giunto in Polonia, aveva scoperto
di avere gambe, braccia e testa, elementi che aveva dubitato di possedere o che
erano rimasti nascosti per i lunghi anni di quella militanza in terra
germanica. A Varsavia la vita non era così insopportabile. Lo zio con il quale
viveva e la sua famiglia erano rilassati ed estroversi, cittadini con un piede
su una zolla di campagna, paurosi topolini colti, agricoltori impeccabili della
propria costanza.
Gli abitanti della città gli sembravano vivere in uno
stato di soporifera ebbrezza, grazie alla quale esploravano le possibilità
della loro terra e della loro personalità, sempre più sicuri ed egoisti. Adam
osservava con paura il profilo della città e temeva il sorgere di quei
pinnacoli ben conosciuti e che potevano rendere grigia la vita. Diffidava di
ogni slancio patriottico, nel suo intimo ne era inorridito: era stato costretto
ad allontanarsi dal paese nel quale era cresciuto a causa della dirompente
passione dei tedeschi per la loro nazionalità. Inoltre amava le sue lingue, che
gli permettevano di esprimere gli stessi concetti con suoni e parole diverse,
sfumando verbi e tempi alla maniera del pittore, roteando pennelli sulla lingua
ed indugiando su una tela grande, sulla quale erano rappresentati il cielo, la
terra, il mare, il sottosuolo e gli alberi, dalla loro cima su cui dormivano e
vivevano gli uccelli, al tronco al quale si appoggiavano gli innamorati, alle
radici che elaborano pazientemente la vita, nel buio della tomba.
Se la vita glielo avesse permesso, avrebbe aperto una
libreria sulla grande piazza e sarebbe campato vendendo libri scritti in tutte
le lingue. Avrebbe disposto accanto, sullo stesso scaffale, il manoscritto in
lingua originale e le sue traduzioni migliori, da lui personalmente scelte.
Così, quando un cliente avrebbe espresso il desiderio di comprare un certo
romanzo, lui gli avrebbe domandato:
In quale lingua? Whelcher Sprache? 'yn ww’ás şpr’ak? w jakim języku? Dans quelle langue?
Socchiuse
gli occhi rivolti verso il cielo, richiamato dal verso di alcuni uccelli
ritardatari, che dall’altezza dei loro nidi non si curavano delle notizie di un
inverno imminente. Il cielo era ormai molto scuro ed era capace di immaginare
l’esatta posizione delle stelle, malgrado il loro chiarore non fosse ancora ben
definito. Avrebbe voluto scommettere ed attendere la loro apparizione, per
vincere, visto che con un solo battito di palpebra avrebbe potuto far apparire
una di quelle luci di fronte al suo occhio. Allungò le braccia attorno al corpo
e le stirò, girando il collo da una parte all’altra, pronto ad alzarsi e
raggiungere gli altri, quando si accorse che ciò che con le dita stava
toccando, alla sua destra, non era la foglia particolarmente soffice
proveniente da uno dei cespugli, ma dei ciuffi di capelli umani. Si voltò in
quella direzione e riconobbe la sagoma appallottolata di un bambino che
riposava, respirando profondamente, rannicchiato tra le frasche di uno dei
cespugli che erano sparsi per il prato, ai piedi di un giovane cedro. I suoi
capelli erano lisci e lunghi, raccolti in una lunga treccia che aveva perduto
il proprio laccino e dunque si avviava al disfacimento. I ciuffi liberi,
ondulati come un gruppo di serpentelli, si diradavano come dei raggi,
percorrendo il breve spazio di prato che separava Adam dal cedro.
Adam
si girò, appoggiando il torace al terreno, e si aiutò con i gomiti ad avanzare
verso il bambino. Quando gli fu appresso, allungò il capo per sorpassare la sua
spalla, che nascondeva il volto, e riconobbe il viso alabastrino e dai
lineamenti sottili della piccola nipote di sua padre, Klara.
Le
soffiò in un orecchio e la bambina mugulò, infastidita, quindi, quando lui ebbe
smesso, alzò un braccio e cercò di farlo allontanare, puntandoglielo alla
faccia.
Adam
prese in una mano l’intero avambraccio di Klara e lo tenne fermo con dolcezza,
quindi soffiò di nuovo nell’orecchio della bambina, che questa volta si rigirò
con uno scatto repentino sulla schiena e poi su un fianco, liberando il braccio
dalla presa e alzando il capo, fissando Adam con uno sguardo che costituiva un
avvertimento della sua possibile collera. Adam rise e portò le mani di fronte
alla faccia, allungando il volto in un’espressione che voleva imitare lo
spavento, mentre Klara si metteva in piedi e si spolverava il vestito con
entrambe le mani.
"Non
stavo dormendo.”
Adam
le puntò un dito sulla pancia, quindi affondò, gonfiando le guance e fissandola
con gli occhi sgranati. Klara si allontanò con un balzo e strillò, agitando poi
le braccia contro di lui.
"Sei
uno scemo! Mi dai sempre noia! Stavo dormendo!”
Adam
aggrottò le sopracciglia, con fare insospettito.
"Ma
non hai appena detto che non stavi dormendo?”
Klara
alzò lo sguardo, posizionandolo al di sopra di lui, sul tetto della casa a poca
distanza da loro, alla fine del prato, quindi alzò anche le braccia,
allungandole verso il cielo, completando quel movimento con un grande
sbadiglio.
"Invece dormivo. Ho fatto un sogno, ma era più bello di quelli che
faccio di notte, nel mio letto.”
Adam sorrise e
dandole la schiena portò a sua volta lo sguardo sulla casa: intravedeva le
sagome scure che si affrettavano ad accendere le lampade nella cucina e nella
sala da pranzo, passando attraverso le nuvole di fumo che salivano ben dense e
bianche dalle padelle e commentando a gran voce gli odori ed i sapori della
cena che si preparava.
"E’ naturale. I sogni che si fanno a letto sono sogni da letto. I
sogni che si fanno sul treno sono sogni da treno. I sogni fatti sul prato sono
i sogni del prato.”
La bambina rise
ed emise un grido divertito, si abbassò e strappò alcuni fili d’erba. Dopo
averli trattenuti tra le mani e fissati da vicino li lanciò in aria, facendo
volteggiare le braccia ed il corpo.
"I sogni
del prato, i sogni del prato! Ho sognato insieme al prato?”
Adam sporse le
labbra, fingendosi dubbioso, quindi annuì con un fare non troppo convinto.
"Potrebbe
anche essere. Ci sono spiriti in tutti i luoghi che sono fatti di pensiero e se
abbandoniamo la logica, il mondo della veglia, possiamo vedere con i loro
occhi.”
"Anch’io!
Anch’io!”
"Cosa hai
sognato?”
Klara smise di
saltare e si portò le dita alla bocca, bagnando di saliva i polpastrelli.
"Non lo so.”
Adam sorrise e
si alzò, le andò vicino e la prese per mano, conducendola poi con sè verso la
casa.
"Ma certo,
certo che non lo sai. "
"Mi
piacerebbe ricordarmelo.”
"Ma certo.
Magari te lo ricorderai tra qualche tempo. A volte, i sogni li dimentichiamo.
Ma possiamo divertirci nel frattempo servendoci della sensazione che ci hanno
lasciato. Possiamo inventare una storia!”
"Sì!”
"Bene!
Allora, che sensazione ti ha lasciato questo sogno che non ricordi?”
"Che ho
voglia di cantare.”
"Ottimo.
Ora pensa bene ad un personaggio che ha tanta voglia di cantare. Chi potrebbe
essere?”
"Una
segretaria.”
Adam rise,
imitato quasi immediatamente da Klara.
"Beh, una
segretaria ha sicuramente più voglia di cantare rispetto ad una cantante
lirica.”
"E poi?”
"Mi
racconterai il resto della storia domattina. Stasera mangeremo tanto e tutti
gli zie e gli zii canteranno fino a notte fonda. Tu guardali bene e cerca di
trarre ispirazione. Ricorda sempre però che si tratta di un gioco. È molto
importante divertirsi, fa parte delle regole. Ora corriamo a cercare la
segretaria!”
Cominciarono a
correre, Klara saltava in alto nel tentativo di non farsi trascinare da quel
parente tanto più alto di lei e nel mentre apriva un braccio verso l’esterno,
fendendo l’aria, modulando un mugolio vibrante con le labbra e la lingua per
imitare un aeroplano.
I due entrarono
in casa ed immediatamente la madre di Klara, che stringeva tra le mani i manici
di un’enorme pentola, la protese verso di loro facendola pericolosamente
oscillare, si rivolse alla bambina chiedendole dove si fosse nascosta per tutto
il pomeriggio, poi alzò lo sguardo sul ragazzo, minacciandolo sotto voce di
impegnarlo con i preparativi della cena se un episodio del genere si fosse
ripetuto. Adam andò verso di lei e prese a sua volta i manici della pentola tra
le mani, tirandola verso di sè senza che lei cedesse la presa.
"Ottimo!
Morivo dalla voglia che una di voi vestali del cappone e della teglia imburrata
cedeste a uno di noi uomini il mantice per ravvivare il fuoco che arde nell’ara
dell’acquolina!”
Molte delle
donne si voltarono verso di lui e gli fecero segno di andarsene, scuotendo il
capo e sbuffando al suono a quelle parole.
"Che
spreco di fiato, Kalovi, solo per prenderci in giro!”
La madre di
Klara tirò verso di sè la pentola ed Adam si lasciò trascinare in avanti da
quel gesto repentino, piombando sulle ginocchia davanti a lei ed appoggiando il
mento alla sua pancia.
"Oh,
Sofjia, Sofjia, io farei qualsiasi cosa per esserti utile!”
"Razza di
buffone!”
Sofja lo spinse
indietro, arrossendo e trattenendo il riso mentre tutte le donne presenti nella
stanza, compresa la minuscola Klara, si distraevano per un attimo dalla loro
mansione e si fermavano a ridere, con gli occhi socchiusi, colte da
un’improvvisa ed inaspettata ondata di tenerezza verso il giovane che proveniva
dalla Germania.
Sofja le guardò
tutte, increspando gli angoli della bocca, quindi rivolse di nuovo lo sguardo
ad Adam, alzando un sopracciglio.
"Guarda
che cosa hai fatto.”
"Proprio
niente! Perchè ti stupisci, ritieni forse le tue consorelle delle vecchie scope
incapaci di scuotersi come le scintille originate da una marmitta?”
Un brusio
divertito sorse nuovamente dalla turba di donne indaffarate, qualche mano si
attardò ad accarezzare una piuma bianca prima di staccarla con decisione, un
mestolo ondeggiò con grazia mentre il polso si fermava a pensare nel bel mezzo
della piroetta, un mento compariva sul fondo di un viso che si era alzato ha un
ripiano infarinato.
Klara stava
saltando dietro alle spalle di Adam, che era rimasto seduto con le ginocchia a
terra, e si dava saltuariamente uno slancio verso l’altro appoggiando le mani
alle sue scapole. Sofja cercò di richiamare la sua attenzione con un gesto
della mano, indicandole lo spazio compreso nella cucina, ma Klara si nascose
dietro alle spalle del giovane.
"Klara!
Cosa ne diresti di aiutare un po’? Vuoi giocare tutto il giorno?”
"Sì.
Giocare e poi mangiare.”
Adam appoggiò
la sua risposta annuendo con aria seria, fino a che Sofja non si avvicinò a lui
ed allungò un colpo lieve sulla sua testa ricciuta.
"Bene!
Allora Adam farà le veci di Klara e mi aiuterà!”
Klara irruppe
in un grido di gioia ed in pochi secondi si allontanò da loro e scomparve lungo
il corridoio. Sofja sospirò, facendo poi segno ad Adam di alzarsi ed
avvicinarsi alla pentola che aveva appoggiato su un angolo del tavolo.
"Sarà
andata diritta ad infastidire suo padre. Ma lui tollera qualsiasi scherzo da
Klara. Per fortuna non sa che sei tu l’ideatore di tutti i suoi scherzi più
elaborati!”
Adam si sporse
al di sopra della pentola e mostrò la lingua ad un cumulo di patate da
sbucciare, mentre Sofja gli metteva un coltello tra le mani. Voltò la testa
verso di lei e sorrise con aria innocente, mostrandole il coltello mentre
mascherava la voce con un tono quasi femmineo.
"Quale
patata vuole che uccida, mia signora?”
Sofja gli girò
la testa, sgranando gli occhi ed alzandosi sulle punte, fremendo di rabbia.
"Basta!
Per quale motivo devi fare il buffone tutto il tempo?”
Adam alzò le
spalle ed agguantò una patata, cominciò a sbucciarla lentamente, assumendo d’un
colpo un espressione molto calma e rilassata.
"E’ il
minimo. Cosa potrei fare per te e lo zio, che mi ospitate nella vostra casa
come se fossi il fratellone di Klara? Sarò il vostro saltimbanco. Per quanto
possa farvi piangere di rabbia, almeno vi farò ridere in egual misura.”
Sofja aggrottò
la fronte e si avvicinò a lui, abbassando la voce per parlare.
"Ma che
argomento. Come se tu ci fossi d’impaccio. Lascia che te lo dica, un altro uomo
in casa di questi tempi non è che una benedizione. Chiedilo a tutte queste
donne, ognuna di queste che si trovano nella stanza. Hanno figli piccoli,
genitori anziani, un solo uomo che può garantire protezione a loro e a tutti
questi deboli agnellini. Pagherebbero perchè giungesse un nipote grande a stare
in casa loro.”
Sofja non era
donna da dichiarazioni dirette di affetto: era stata educata a ragionare in
termini economici e di razionamento, per cui chi la conosceva sapeva che ogni
concessione, espressa attraverso le parole, a gesti o con le azioni, di cui si
faceva interprete erano un segno di grande considerazione. Ciò che aveva appena
confidato ad Adam era la pura verità e desiderava che lui la conoscesse perchè
non avesse il sospetto di costituire un peso alla loro famiglia. Il concetto di
utilità si costituiva per Sofja all’interno del territorio dell’affettività:
tendeva a ritenere utili soltanto i propri parenti o amici. Per lei chiedere un
favore pratico era quasi equivalente a domandare una dimostrazione di affetto.
Adam, vivendo
con lo zio e sua moglie Sofja da alcuni mesi, si era accorto di questa
particolarità caratteriale e si era divertito a sperimentare i risultati
dell’estrema gentilezza con cui si prodigava per Sofja e sua figlia Klara. In
poco tempo Sofja, che non era molto più vecchia di lui, era arrivata quasi ad
includerlo nel proprio grembo ed a partorirlo così com’era, già grande e fatto,
con le proprie idee e la propria barba. Lo vestiva e lo nutriva, gli affidava
Klara e teneva di conto la sua opinione.
Adam aveva temuto che lo zio potesse ingelosirsi, dopotutto Sofja non
aveva nemmeno dieci anni più di lui, così aveva ben presto confidato all’uomo
che incontrare una donna come lei aveva finalmente ricolmato il suo desiderio
di conoscere una donna che assomigliasse a sua madre e di poter dare a lei
quello che non aveva potuto dare a quella debole creatura, scomparsa
prematuramente. Lo zio era rimasto molto commosso da questo pensiero e gli
aveva cantato una canzone che si ispirava al grande amore del figlio per i
genitori. Varsavia |
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