mercoledì 8 febbraio 2012
Oggi mi sono ricordata il
motivo per quale ho scelto di fare medicina. Lo avevo dimenticato, in questi
cinque anni. Ci avevo pensato, a volte, con la disperazione di chi non ricorda
un particolare importante della propria vita. Ma niente, quel movente decisivo se
l’era trascinato via, nel profondo, un’onda con la sua risacca. Oggi ho
intravisto un titolo di giornale web, mentre sedevo sulla poltrona di casa mia.
Il sottostante video mostrava una bella ragazza cinese, sotto le luci, di
fronte ad una cinepresa. Parlava con calma, dolcezza. Il suo viso era tanto
bello che la prima emozione che ho provato è stata l’invidia. “Ho diciannove
anni”, ha detto, dunque quattro meno di me. Mi sento come affidata con violenza
alla mia età, per quanto giovane, perché odio quella seconda cifra che anno
dopo anno aumenta senza che la mia condizione di eterna liceale muti, che mi
nasca un conto corrente (per quelli non c’è bisogno della pillola
anti-concezionale), che i miei progetti strampalati entrino nello spettro del
visibile.
La ragazza cinese di
diciannove anni, più giovane di me, bella, più bella di quanto sono io,
racconta di essere un’operaia della Foxconn, viene sfruttata senza ritegno e
con la sua piccola umanità carina è il simbolo del costo dei nostri i-pad.
Le compare in braccio un
sottotitolo bianco: I sogni non si
avverano, ma tutti hanno un sogno, no?
Ho smesso di guardare,
improvvisamente avevo recuperato la memoria. Il ricordo del motivo della mia
scelta è tornato improvvisamente alla superficie, dopo tanti anni.
Ricordo che a diciannove
anni provai grande tormento interiore all’idea di scegliere l’università. Avrei
voluto fare lettere, conservazione dei beni culturali o una cosa del genere. Mi piaceva la linguistica, mi piaceva tradurre lingue antiche. Amavo scrivere. Ma
ero bloccata. Mi sentivo inutile, in tale scelta. Mi sentivo ingiustamente
investita della mia libertà. Tutta la mia personalità mi sembrava l’espressione
della disuguaglianza esistente nel mondo. Soltanto perché sono nata in
Occidente, pensavo, ho la possibilità di lamentarmi senza accorgermi del reale
valore della vita e della sua deprivazione. Molte persone potenzialmente
migliori di me sono nate in Ruanda, in Cina, in Iraq, sono state uccide da
trafficanti di droga colombiani, sono state violentate da soldati, sono state
barbaramente uccise senza avere nessuna colpa. Di tutta la povertà, la morte,
la sofferenza umana a me tocca quella esistenziale, quella delle idee. Questo
pensiero fece nascere in me un senso di vergogna e colpevolezza: tante persone
vivevano in condizioni di deprivazione senza meritarlo, io invece, solo per
diritto di nascita, vivevo in condizioni di privilegio. Questo è bastato per
farmi credere che avrei messo fine alla mia sofferenza facendo una scelta che
fosse contraria, o quasi, al senso comune delle mie papille gustative. L’ho
fatto perché mi sentivo in colpa. Ancora oggi, purtroppo, mi sento in colpa:
perché non mi piace. Odio questa facoltà, non mi piace nessuna di queste
materie, ho perso interesse per l’idea di fare il medico. Lo farò, ne sono
certa, ho superato brillantemente prove ed esami, fin’ora. Lo farò meglio di
altri, questo è sicuro, perché sono umana e non mi faccio sconti per quanto
riguarda il far bene questo lavoro e studiare per avere i substrati per farlo.
Ho studiato davvero, in questi cinque anni, e sono rimasta fedele a me stessa,
ho lottato contro i pregiudizi di chi mi ha bocciato perché “troppo filosofa”.
Ma sono triste. Tremendamente triste. Ho una pesantezza dello spirito che mi
avvelena l’odore di tutte le cose. Sento come se la mia anima fosse immobile,
grande e chiusa in sé, mancante di molte cose che io non posso darle. E non ho
risolto il motivo per il quale ho fatto questa scelta terribile: mi sento
ancora in colpa, ancora mi vergogno di me stessa. Perché sono infelice,
malgrado io sia chiaramente una privilegiata.
Cosa ho sbagliato?
L’abnegazione, il sacrificio sono dunque da sconsigliare? Come potrei chiamare
il peccato che ho compiuto contro me stessa? In fondo volevo soltanto essere
morale.
I sogni non si
avverano, ma tutti hanno un sogno, no?
E’ vero. Quando nel mio
letto, la notte, frugo nella mente per trovare bei pensieri che mi aiutino ad
addormentarmi, sogno me stessa in ogni diversa città che la mente concepisce.
Sono truccata, sono vestita da giullare e tintinno. Suono il tamburo sulla
piazza e raduno una folla di turisti curiosi attorno a me. Così, con la scusa
di raccontare una storia, dico poesie. Questo è un sogno, credo. Forse il
primo, dopo tanto tempo. È appena nato, mi fa sorridere di gioia quando ci
penso, lo coccolo con il pensiero, lo arricchisco di particolari. Sembra quasi
un ricordo, da quanto lo vedo vividamente. Questo sogno mi fa sentire più
simile a tutti gli altri di tutti i minuti di questi ultimi cinque anni. Sì,
perché tutti hanno un sogno.
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